Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Antonio Alberto Semi
(Venezia) Membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi
Dieses Buch wird vielleicht nur der verstehen, der die Gedanken, die darin ausgedrückt sind — oder doch ähnliche Gedanken — schon selbst einmal gedacht hat. — Es ist also kein Lehrbuch. — Sein Zweck wäre erreicht, wenn es Einem, der es mit Verständnis liest Vergnügen bereitete.
[Questo libro, forse, comprenderà solo colui che già a sua volta ha pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili -. Esso non è dunque un manuale -. Conseguirebbe il suo fine se piacesse ad uno che lo legga e comprenda.]
Wittgenstein, Incipit della Prefazione al Tractatus logico-philosophicus (1922).
Es
“Se pensiamo in termini astratti corriamo il rischio di trascurare le relazioni delle parole con le rappresentazioni inconsce delle cose; e non si può negare che il nostro filosofare acquista allora un’indesiderata somiglianza, nell’espressione e nel contenuto, con il modo di fare degli schizofrenici” (Freud, 1915, 87-88, corsivo mio).
Inizio con questa frase ammonitrice di Freud questa relazione sull’Es, perché l’Es pone problemi di costruzione della teoria, cioè problemi teoretici, e problemi di contenuto teorico i quali contenuti però, se restano staccati separati e vorrei dire scissi dalla possibile anche se difficile continuità con l’esperienza della relazione delle parole con le rappresentazioni inconsce delle cose, rischiano di realizzare appunto quella indesiderata somiglianza di cui scrive Freud.
Questo mio richiamo iniziale potrebbe sembrare fuori luogo per chi avesse avuto il gusto di leggere Il libro dell’Es (1923) di Georg Groddeck, un libro nel quale l’esperienza dell’Es è assolutamente in primo piano e semmai le difficoltà o le perplessità – nostre – sono teoriche. Ma l’Es di Freud, si sa, non è quello di Groddeck, come è stato sottolineato da moltissimi Autori, a partire del resto dallo stesso Freud. Anche se il nome “Es” è quello, preso da lì[1], e anche se Freud stesso ha apprezzato molto l’opera di Groddeck[2]. No, per Freud l’Es è un’altra cosa ed è stata una necessità costruirlo. Una necessità e una difficoltà.
Le difficoltà le vedremo man mano ma cominciamo dalla necessità: essa è legata alla costruzione della teoria dell’Io e alla costruzione della teoria delle pulsioni. Man mano, nella elaborazione teorica di Freud, passando da Totem e Tabù (1912-13) alla Introduzione al narcisismo (1914) a Lutto e melanconia (1917) e poi a Al di là del principio di piacere (1920) e Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) l’importanza e le caratteristiche dell’Io chiedevano una sistematizzazione e una “definizione” che alfine giungeva con L’Io e l’Es (1922). Ma costruire un’istanza che comprendesse i sistemi – a partire dall’Inc – precedentemente elaborati implicava l’obbligo di rivedere tutto il resto della costruzione dell’apparato psichico, ciò che vien fatto appunto nel 1922, ne L’Io e l’Es, costruendo da un lato l’Es, dall’altro il Super-io come istanze e però ampliando in tal modo lo spazio del funzionamento psichico inc , proprio dunque dell’Es, del Super-io e di buona parte dell’Io. Da questo punto di vista, comunque, si potrebbe dire che l’Es viene (costruito) dopo l’Io, benché dal punto di vista della teoria sia l’Io che ‘viene dopo’ ossia deriva in qualche modo dall’Es[3].
Comunque, paragonando l’insieme di questa costruzione teorica ad un edificio, verrebbe da dire che l’Io è la parte per così dire abitabile – benché con una certa difficoltà – della casa che si basa sull’Es (da cui molto si differenzia). Sennonché Freud stesso ammonisce a non considerare quest’altra parte dell’edificio come minoritaria rispetto all’Io e al Super-io[4], ché anzi si tratta della grande maggioranza dello “spazio” psichico, tanto che, se si dovessero rispettare le proporzioni, lo schema-ovoide disegnato da Freud risulterebbe così (fig.1) sicché l’Io e in particolare il sistema P-C sarebbero appena visibili.
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[1] Cfr. Freud, 1922, 486. Per la complessità di questo prestito – che non era solo un fatto lessicale – si veda Bos (1992) che indaga anche utilmente sul rapporto tra il pensiero di Groddeck e Freud e l’opera di Nietzsche.
[2] Cfr. il Carteggio Freud-Groddeck (1917-1934).
[3] Si veda, più avanti, la questione delle ‘origini’ dell’attività psichica e, collegata ad essa, la questione dell’origine dell’Es.
[4] “Lo spazio che occupa l’Es inconscio dovrebbe essere incomparabilmente più grande di quello dell’Io o del preconscio” (Freud, 1932, 190); “Questa parte più antica dell’apparato psichico rimane per tutta la vita la più importante” (Freud, 1938, 573n.).
Grande, anzi enorme, l’Es, ma anche in qualche modo apparentemente informe: l’immagine generica è quella di un calderone nel quale ribolliscono[1] quelli che, in prima battuta, possiamo chiamare gli effetti delle pulsioni.
Richiamo questa immagine verbale generica del calderone perché, comunque sia, essa ha a che fare con i limiti, cioè con le pareti del calderone o con le cantine, le basi dell’edificio di cui sopra e non (almeno primariamente) con i suoi contenuti. E la raffigurazione di queste pareti manifesta un problema, a mio avviso mai ben risolto, come si vede nel cambiamento dall’ovoide de L’Io e l’Es (1922) a quello della XXXI Lezione della nuova serie (1932): chiuso il primo, in quanto si riferisce all’ individuo[2], aperto il secondo, in quanto si riferisce all’apparato[3] psichico.
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[1] “All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un crogiuolo di eccitamenti ribollenti” (Freud, 1932, 185). L’immagine è ripresa poi spesso : vedi ad es. Donnet e Green : “L’espace du Ça est celui de ces masses en fusion qui semblent construire et détruire indéfiniment le milieu qui les origine […] Espace explosif dont l’analyste ne s’approche qu’avec prudence (1973, 256) ; oppure Laplanche :” Qu’est-ce qu’il y a dans ce sac, dans cette marmitte, dans cette besace ? Essentiellement, nous dit Freud, les pulsions ” (1981, 198).
[2] Cfr. Freud, 1922, 486: “Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio”.
[3] “Desidero illustrarvi i rapporti strutturali della personalità psichica […] in uno schizzo senza pretese che vi sottopongo” (Freud, 1932, 189, corsivo mio).
Se vogliamo che la nostra teoria sia una teoria critica e autocritica anche dal punto di vista psicoanalitico, dobbiamo chiederci cosa rappresentino, cioè cosa “dicono” questi schemi al nostro sistema C[1]. Quale necessità teoretica si cela dietro alla continuità o discontinuità del tratto inferiore dei due schemi[2]?
Per comprendere l’importanza di questo problema e della sua rappresentazione conviene tener conto del secondo fattore che ha indotto o concorso alla necessità della costruzione della teoria dell’Es: perché parallelamente alla evoluzione della concezione dell’Io si è sviluppata una importante modificazione della teoria delle pulsioni[3]. Non entrerò ora e qui nel merito di questa modifica ma intendo mostrare che nello schema del 1922, che disegna una totalità, le pulsioni stesse vanno considerate come interne all’Es-individuo, mentre nello schema di dieci anni dopo esse si ri-collocano in quell’ampia zona del “somatico” con la quale l’apparato psichico sconfina, ridivenendo dunque “un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche” (Freud, 1915a, 17). Si tratta di due livelli di lettura della realtà che hanno importantissime implicazioni, anche nel senso che sfidano la nostra capacità di tenerle assieme senza con-fonderle. Solo per accennare ad una implicazione, la patologia somatica ha, nei due casi, una collocazione e una ripercussione teorica differente[4].
Mi soffermo su questo perché – come sappiamo – le parole hanno un peso e qui voglio sottolineare il problema delle basi della costruzione dell’Es, ma il problema è: in che termini metaforici e teorici farlo? Prima ho usato il paragone con l’edificio ma, naturalmente, ogni paragone ha i propri limiti: ad esempio questa dell’edificio è un’immagine inevitabilmente statica, mentre quella del cavallo-Es e del cavaliere-Io usata da Freud[5] è più dinamica; sennonché la prima, quella dell’edificio, ha il vantaggio di raffigurare un’unità, mentre la seconda raffigura una netta distinzione del cavaliere dal cavallo. E lo stesso Freud poi ammonisce a “non pensare a confini netti, come quelli tracciati artificialmente dalla geografia politica. I contorni lineari, come quelli del nostro disegno o della pittura primitiva, non sono in grado di rendere la natura dello psichico; servirebbero piuttosto aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come si trovano nella pittura moderna” (Freud, 1932, Lez.XXXI, 190). “Dopo aver distinto – aggiunge inoltre Freud – dobbiamo lasciar confluire di nuovo assieme quanto è stato separato” (ibid.). Ritrovo, in quest’ultima precisazione di Freud, da un lato l’affermazione della necessità teoretica, che implica l’attività di distinzione, dall’altro la sua oscillazione tra l’idea del ‘tutto’ (l’individuo) e l’idea della ‘parte’ (l’apparato). E mi sembra che questa oscillazione abbia a che fare con appunto la questione della ‘necessità’ di costruzione dell’Es in relazione alla costruzione dell’Io, necessità che deve tener però conto dell’altra specifica e costante necessità, quella di non distaccarsi troppo dall’esperienza.
Infatti, l’esperienza è quella di avere a che fare con individui, di essere degli individui, sicché la raffigurazione ‘totale’ de L’Io e l’Es corrisponde all’esperienza anche quotidiana: abbiamo sempre a che fare con persone ben percepibili come definite nello spazio e individuabili come totalità, di cui apparentemente non sappiamo alcunché oppure sappiamo pochissimo, appunto lo spazio occupato dal sistema P-C e dalla parte dell’Io cui possiamo accedere. Tutto il resto è ignoto, ossia inconscio. E questo vale anche per noi stessi, per ciascuno di noi. Freud l’aveva sottolineato più volte, con la massima chiarezza nel saggio su L’inconscio (1915b) ove richiamava anche appunto l’esperienza[6].
Sennonché questo richiamo all’esperienza diciamo così quotidiana, quella di avere a che fare con individui, esperienza che viene molto sottolineata da Groddeck, cozza o deve integrarsi con un richiamo alla “natura” della nostra teoria, la quale, come Freud aveva già pensato ed esposto vent’anni prima, riguarda il tentativo “di rappresentarci lo strumento che serve alle attività psichiche” (Freud, 1899, 490, corsivo mio) tentativo fattibile purché non si scambi “l’impalcatura per la costruzione” (ibid.).
Ecco dunque il problema nostro: come può fare una teoria-impalcatura, che è un nostro costrutto, necessario viste le condizioni di funzionamento del (nostro) sistema C, a rappresentare l’interezza, consentendo di conoscere o pensare l’edificio intero senza però ritenere di riuscire a rappresentarcelo immediatamente? Questa è a mio avviso la difficoltà teoretica che pone l’Es[7]. In questo senso il costrutto dell’Es rappresenta in primo luogo la realtà, con la quale abbiamo sempre a che fare ma che non conosciamo mai direttamente. Le altre scienze cercano come noi di farlo, con altri metodi. E la realtà umana è che siamo esseri per così dire animati (1) da impulsi dei quali soggettivamente non sappiamo nulla, possiamo solo percepirli e (2) da eredità in parte riconoscibili di fatto (“sono nato a…”) ma nella massima parte irriconoscibili immediatamente[8]. Come ormai dovrebbe essere noto – ma è sempre difficilmente accettato – siamo degli sconosciuti a noi stessi e, se questa realtà umana è comune, la nostra soggettività è messa a dura prova.
La difficoltà teoretica appena descritta non va dimenticata quando poi si considera la necessità teorica di costruire l’Es in rapporto alla costruzione dell’Io. Essa difficoltà anzi si ribalta su questa costruzione, perché da un lato si tratta di una costruzione che sembra poter contenere un’infinità di contenuti[9] (ironicamente si potrebbe dire che, viste le sue dimensioni, nell’Es ci sta di tutto), dall’altro viceversa continuamente mette in causa la coerenza della teoria-impalcatura o chiede di rimettere in causa alcuni assiomi della teoria.
Insomma, per dirla in termini chiari, a me sembra che il problema postoci dall’Es sia quello di riflettere (anche nel senso visivo del termine) all’interno del sistema C dell’Io e mediante esso – ciò che non possiamo non fare – sulle possibili stratificazioni rappresentazionali necessarie[10] per rendere concepibile l’Es e inoltre sulle loro interrelazioni, le quali a loro volta chiedono una giustificazione anche psicoanalitica: cosa ‘rappresentano’ le relazioni (non solo nel processo primario ma anche queste, del processo secondario) da dove derivano e come possiamo esserne “consapevoli”?
Val la pena di iniziare partendo proprio da quest’ultima domanda. La consapevolezza è infatti, dal punto di vista psicoanalitico freudiano, un sintomo[11]. Riconoscerla come tale non vuol dire squalificarla, ma ricondurla alla propria origine e affermare la necessità allora di un altro livello di pensiero cosciente – astratto, dunque – che la comprenda. Per noi è interessante tener conto di questo, perché implica che il pensiero collegato all’esperienza, quel pensiero psicologico che riceve e accoglie e riflette sui prodotti del sistema Prec, benché garantisca l’analista di non cadere nell’indesiderata somiglianza con il pensiero schizofrenico, rischia però di essere e rimanere un pensiero sintomatico se non è collegato ad un pensiero di altro livello di astrazione, appunto il pensiero “meta”psicologico[12]. Quando si enfatizza o si assolutizza il livello cosiddetto “teorico-clinico” del nostro lavoro, bisognerebbe tener conto di questo problema. La nevrosi può avere i suoi vantaggi (primari e secondari) ma non è la conoscenza scientifica.
Ma quando ci si riferisce ad aspetti della personalità psichica che sfuggono alla percezione immediata, ad esempio appunto all’Es, ci si pone anche il problema inverso: come collegare il necessario elevato livello di astrazione di una costruzione del genere all’altro livello, quello – chiamiamolo così, per il momento – della consapevolezza? Nell’esperienza quotidiana – anche in quella lavorativa nostra – è possibile e, se sì, come è possibile ritrovare il filo che lega la teoria dell’Es con l’esperienza clinica? Oppure possiamo pensare che non sia possibile e che l’esigenza teoretica di fondare un Es implichi anche una teoria del limite[13] della nostra esperienza psichica?
A mio avviso non si può trovare una risposta soddisfacente a queste domande se prima non le si esamina dal punto di vista del metodo, il quale fa perno sul fenomeno fondamentale descritto (e prescritto) già nel 1912 da Freud nei Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico: “Come il ricevitore del telefono ritrasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche della linea telefonica che erano state prodotte da onde sonore, così l’inconscio del medico è capace di ristabilire a partire dai derivati dell’inconscio che gli sono stati comunicati, questo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato” (Freud, 1912, 536-37, corsivi miei). Questo fenomeno fondamentale implica la considerazione che la comunicazione umana “normale” (e poi anche quella associativa) è strutturata in base a quello che si può definire il gioco delle censure condivise[14], sicché nella quotidianità tendiamo a badare al livello conscio delle comunicazioni altrui (e un po’ anche a quello delle “comunicazioni” preconsce al nostro sistema conscio) mentre condividiamo la censura sul “resto” delle comunicazioni. Però il ‘resto’ delle comunicazioni non per questo cessa di esistere ed è questo resto che dà spessore alla comunicazione. E, se la censura funziona anche perché è condivisa, l’analista viceversa dovrebbe essere in grado di non condividerla, ossia di aver superato le resistenze proprie al riguardo[15].
Posto dunque che si tratta di comunicazioni inc > inc e che la tecnica conseguente al metodo consente[16] di riconoscerle, quali potrebbero essere ritenute come comunicazioni proprie dell’Es, la cui ricezione consentirebbe di parlare di esperienza dell’Es?
Anche qui c’è una difficoltà tipica di noi analisti (ma non solo): da un lato aneliamo a scoprire fenomeni nuovi, operando perciò costruzioni e relative distinzioni all’interno di ipotesi formulate in seguito a singole o plurime esperienze cliniche, dall’altro dobbiamo spiegarceli all’interno di un contesto teorico già dato. Compiamo – sottolinea ironicamente Green (1992) – ogni volta l’esperienza del neonato che scopre continuamente qualcosa di nuovo ma sempre all’interno di un contesto comunicativo che gli è dato, che lo precede. Qui il problema è come eventualmente distinguere le comunicazioni dell’Es all’interno dell’insieme di comunicazioni che comunque ci arrivano dal nostro inconscio. O se ciò sia possibile o, ancor prima e addirittura, abbia senso.
A questo proposito, corriamo inoltre sempre il rischio di aggiungere mobili magari anche belli alla casa, credendo in tal modo di rafforzarla. Personalmente preferisco non inzeppare le case, preferisco insomma cercare di far sì che l’arredamento non nasconda la struttura. Fuor di metafora, preferisco non aumentare le teorie, magari seducenti, e invece chiedermi come spiegarmi la relazione tra un’esperienza e una teoria di base già formulata. Perciò mi chiedo: di cosa sono costituite le comunicazioni inc che ci arrivano al sistema C? Penso che l’unica risposta sensata sia che queste comunicazioni sono costituite da rappresentazioni di vario tipo e di vario grado di investimento ma, comunque, sempre tali. Che si tratti di sensazioni-emozioni anche molto impegnative, come quella del vuoto o del crollo ideativo o dell’angoscia più nera, sempre per potercele “dire” dobbiamo riuscire a rappresentarcele. È fondamentale, ovviamente, che non mettiamo da parte gli affetti che le sostanziano. Ma è importante anche che non li assolutizziamo, giacché per noi il collegamento tra rappresentazioni e affetti è sì un fenomeno importante e vitale, ma è anche un fenomeno che sappiamo essere indice e conseguenza di manovre difensive di varissimo tipo[17]. In ogni caso interviene preliminarmente il giudizio[18] a qualificare le rappresentazioni che ci pervengono: perciò possiamo permetterci di riconoscere che quel tal pensiero è un sogno, quest’altro una fantasia, questo terzo un sentimento, questo quarto un bisogno oppure un desiderio. Il (nostro) sistema conscio è sempre un organo di senso degli stimoli che, dall’esterno o dall’interno, gli pervengono: ma deve qualificarli. Entra, qui, anche il problema complesso del passaggio dalla quantità alla qualità. E, quando uno stimolo è inqualificabile, in genere lo chiamiamo ansia, con questo termine beninteso qualificandolo strumentalmente, anche se separato da una rappresentazione “propria” cioè collegata già nel preconscio ad essa.
Questo è il ‘capitale’ psichico sul quale e col quale lavoriamo. Ed è all’interno di questa prospettiva clinica e conoscitiva che la costruzione dell’Es è, a mio avviso, divenuta una necessità per i motivi che ho fin qui elencato ed è comunque questa la condizione attuale di pensabilità conscia e soprattutto metapsicologica.
È stata, ripeto, una necessità: perché, costruito l’Io e avendolo compreso come in massima parte inconscio, bisognava per così dire collocare in un qualche spazio il “resto” dell’inconscio, quello che comunque in forza delle pulsioni spingeva sull’Io e ne provocava reazioni e difese. Ed è stata una necessità anche perché talora, nell’attualità del nostro lavoro (ecco il richiamo all’esperienza), l’Io – il nostro Io, badate – sembra venir meno. E magari abbiamo la sensazione di non poterci più riconoscere, ossia di non poter più riconoscere quel che è dovuto al transfert ed al nostro controtransfert e poi al ‘quel che siamo noi’ ma semplicemente – e a volte drammaticamente – di “trovarci lì” e di non poterci dare immediatamente un senso di quell’esser lì[19]. Crisi professionale, crisi terapeutica, crisi – ad esser onesti – personale. Allora, non siamo nemmeno in grado di compiere l’operazione richiamata più sopra, quella di ‘qualificare’ uno stato d’animo come ‘ansia’. Ci possiamo cioè talora chiedere se “Wo Ich war, Es wird”. Ci possiamo chiedere (ma solo dopo!) se queste siano ‘esperienze dell’Es’, perché per parlare di esperienze occorre che ci sia un Io sperimentante e qui, a volte, esso sembra non esserci.
Anche perciò a questo proposito ritengo che questo tipo di ‘esperienze’ non evochino tanto un ‘noi’ quanto manifestino una regressione alla indifferenziazione[20]. E nella rielaborazione seguente ci consentano di comprendere perché e in che senso l’Es è impersonale. Perciò spesso queste esperienze sono accompagnate da un drammatico sentimento di vuoto (l’assenza dell’Io), che in quel momento non può neppure essere qualificato e dunque non può neppure essere dichiarato ‘psichico’ o’somatico’. Come scrive Pontalis, concludendo un testo al quale teneva molto, “al di là delle parole bisogna mettere il nostro essere alla prova dell’inconscio, col rischio di esserne, almeno per un po’, “demoliti”, come diceva Ferenczi, che sapeva di cosa stava parlando. Ça doit être ça, le prix à payer à la « bêtise » de l’inconscient” (1997, 120-21, corsivo mio).
È l’organizzazione che talora sembra disfarsi. Ѐ un termine, questo, che viene usato talora da Freud quando vuole indicare l’insieme dell’essere umano o l’insieme dell’apparato psichico.
La necessità dell’Es è dunque anche la necessità di rappresentarci un qualcosa con cui abbiamo inevitabilmente a che fare – una realtà, dunque – e che però si rifiuta e ci rifiuta in quanto soggetti. Inevitabile che anche noi, soggettivamente, reagiamo a questa realtà cercando di denegarla.
Da un punto di vista teorico (notate il salto argomentativo dall’esperienza alla teoria che sto facendo) i contenuti (i mobili, nella metafora dell’edificio) dell’Es comprendono (a) le tracce mnestiche comunque originate, (b) le rappresentazioni di cosa derivate o dalla riattivazione delle tracce mnestiche o dall’azione della rimozione, (c) gli effetti delle pulsioni (seguendo la formulazione della Lezione XXXI) o le pulsioni stesse (nello schema de L’Io e l’Es) e i loro effetti[21]. Ma questa distinzione, se è necessaria dal punto di vista esplicativo, non è però realistica: dobbiamo cercare di pensare in movimento e in interrelazione queste componenti se vogliamo cercare di rappresentarcele nella realtà psichica vivente. Altrimenti c’è il rischio che la distinzione – da sola – sia figlia di Thanatos. Ebbene, nella realtà vivente le rappresentazioni consce possibili di queste tre categorie sono un tutt’uno, non a+b+c ma abc. Poi, ma solo poi, cerchiamo di districare, mediante l’analisi dei processi associativi dell’analizzando e nostri, l’intensità dell’energia che accompagna una data rappresentazione, le componenti che la hanno formata o deformata o trasformata, esito del processo primario (condensazione e spostamento dei carichi energetici) e del passaggio sempre problematico al processo secondario[22] e i movimenti conflittuali implicati. La riformulazione della teoria delle pulsioni, introducendo poi il lavoro ‘silenzioso’ della pulsione di morte, ci spinge spesso anche ad interrogarci su alcuni specifici insiemi rappresentazionali, ad esempio sul ‘vuoto’ o sulla ricomparsa ‘piatta’ di insiemi rappresentazionali apparentemente legati alla realtà esterna, che poi piatti non sono perché occorre un bel po’ di energia per poter ripetere costantemente lo stesso refrain. Questo è un lavoro metapsicologico.
Ma, mi chiedo: se tentiamo di spiegarci quel che sperimentiamo – soprattutto l’assenza o l’eclissi dell’Io – attribuendolo all’Es non rischiamo di negare praticamente il significato primario della costruzione teorica stessa, il suo essere in primo luogo un richiamo alla realtà sempre inarrivabile? Ecco qui il richiamo alla difficile necessità di non con-fondere due livelli di lettura della realtà psichica, come dicevo prima. Certo, a questo scopo si può fare – come ha fatto sovente Green[23] – ricorso puntualmente ad una affermazione di consapevolezza teoretica e teorica, dunque notando che le ulteriori costruzioni che facciamo sui contenuti dell’Es sono comunque delle costruzioni ipotetiche, ma questa precisazione necessaria non mi è sufficiente. E possiamo chiederci quale sia la funzione intrapsichica di tali costruzioni[24]. Che secondo me è la funzione fondamentale di costituire la necessità di un pensiero altro, appunto quello metapsicologico[25].
Insomma, molliamo le cime e veniamo al dunque, rischiando di navigare per altum, al largo, prima di arrivare alle conclusioni, al porto. Cos’ho fatto? Poco fa ho prima steso un elenco teorico dei possibili contenuti dell’Es, poi sono ritornato all’esperienza, cioè sono ripartito da dati del sistema conscio. Ma perché l’ho fatto? Beh, per cercare di intravvedere quel famoso collegamento tra teoria e esperienza. Sennonché per prima cosa guardiamo bene le tre categorie a+b+c: mica sono così ‘placide’ o scontate. A me sembra che siano coerenti con gli schemi grafici freudiani, in particolare per quanto riguarda i punti a e b.
Per il punto ‘a’: le tracce mnestiche dove possono essere ‘collocate’ in una teoria dell’apparato psichico se non nell’Es? E questo non perché non ci possano essere ipotesi su collocazioni anche differenti[26] ma perché le tracce mnestiche sono in primo luogo conseguenza dell’effetto degli stimoli sulla superficie dell’apparato e questo effetto prevede nella teoria (già della prima topica[27], ma anche nella seconda, visti gli schemi) che lo stimolo provochi un qualcosa che passa fino all’Inc costituendo una traccia mnestica che poi può essere ritrasformata (per investimento pulsionale[28]) in rappresentazione, la quale compie un percorso ‘ascensionale’ e giunge al prec e poi alla C[29]. Nell’ipotesi raffigurata nello schema della Lezione XXXI, poi, lo stimolo proveniente dal ‘soma’, divenendo stimolo pulsionale, costituirebbe a sua volta una fonte di tracce mnestiche.
Per il punto ‘b’, ossia per quanto riguarda le rappresentazioni di cosa: questa degli stimoli all’apparato appena indicata è anche una fonte – tramite l’investimento di energia pulsionale -– della costituzione/produzione di rappresentazioni di cosa (Sachvorstellungen) nell’Es. L’altra fonte è prodotta dalla rimozione che appunto ricaccia nell’Es materiale inaccettabile per vari motivi. Sennonché non molti Autori sono d’accordo con questa ipotesi, perché si può anche ipotizzare – zonizzando ulteriormente l’apparato – che il gioco delle rappresentazioni avvenga negli strati inconsci dell’Io o in quella fascia tratteggiata, metà Io e metà Es, che le sta subito sotto. Molti Autori tendono infatti a considerare l’Es come un calderone ribollente di moti pulsionali ma anche come , per così dire, un calderone nel quale non ci sono ingredienti del tipo “rappresentazione di cosa”, mentre ci sarebbero categorie particolari di rappresentazioni quali i rappresentanti delle pulsioni o quelle ‘cose’ (Sache) ancora più strane che sarebbero i fantasmi originari, i pittogrammi, i protoelementi rappresentativi, per non passare poi a parlare degli elementi beta o alfa o stramberie del genere. A me sembra che il concetto “rappresentazione di cosa” abbia bisogno costantemente di un chiarimento, che lo svincoli dalle origini sensoriali, troppo facilmente ‘pensabili’.
A me sembra poi che – mentre ciascuna delle ricerche che parlano di questi elementi ipotetici dell’Es cui mi sono appena riferito è davvero assai interessante – si rischi però, accumulando ipotesi su ipotesi, di perdere di vista che l’ipotesi freudiana su cui si può lavorare, contempla e anzi assume proprio il fatto che la vera attività di pensiero è quella inconscia[30] e che si tratta di un’attività completamente diversa da quella che poi chiamiamo processo secondario. Insomma per me nell’Es (e in buona parte dell’Io) domina il processo primario di pensiero, il quale è sostenuto economicamente dal flusso pulsionale continuo ma si esercita nella dinamica continua di investimento di tracce mnestiche e di mobilizzazione delle rappresentazioni di cosa con la finalità (di fatto sempre frustrata) di raggiungimento della piena esperienza di soddisfazione o con l’altra finalità, dovuta a Thanatos, di slegare, di rompere, di distruggere, per giungere all’esperienza di annullamento. Quanto di questo pensiero altro e altrui può diventare anche e transitoriamente nostro, non solo durante il sonno?
Non sto qui a fare l’elogio di questo tipo di pensiero complesso (e tanto più complesso dopo l’introduzione della dinamica pulsione di vita/pulsione di morte) ma mi è anche poco sopportabile che si tenda a rinnegarlo, rischiando di eliminare per diminuzione uno dei caposaldi delle nostre teorie. Quando si afferma la necessità o la volontà di elaborare una teoria del pensiero, ad esempio, si afferma anche in qualche modo che quella psicoanalitica freudiana non lo è, mentre l’aspetto rivoluzionario della teoria psicoanalitica freudiana sta proprio nell’affermazione – dimostrabile con il nostro metodo – per cui il vero pensiero sta altrove, nell’inconscio e nell’Es in particolare e che il pensiero cosciente è un effetto, del resto assai povero, dell’attività psichica inconscia. Badate: non voglio certo con questo eliminare i fantasmi originari, e le eredità filogenetiche, le teorie sulle origini dell’attività psichica e insomma molte importanti ricerche che si sono fatte, così come non voglio con ciò trascurare il peso della realtà esterna, a partire da quello fondamentale dei rapporti parentali e dell’eredità culturale che essi trasmettono anche senza saperlo. Ma vorrei pormi e propormi un modo diverso di concettualizzare la cosa.
Partendo dalla idea che anche le nostre costruzioni sono l’espressione di un’attività psichica che, come tale, non può essere ‘esterna’ o esente da una considerazione metapsicologica. Anche le nostre costruzioni teoriche derivano cioè dal ‘vero’ pensiero, quello che si costituisce incessantemente nell’Es. Si può leggere anche così il quinto capitolo del Compendio di psicoanalisi (1938), nel quale Freud fa molti riferimenti al possibile compito del sogno di risolvere problemi rimasti irrisolti nella veglia. Del resto aveva poche pagine prima affermato che la psicoanalisi istituisce “così una specie di serie complementare cosciente dell’inconscio psichico” (586).
L’Es mi sembra dunque una costruzione metapsicologica che frustra le velleità di pensare ad un “soggetto” e che, mediante l’immagine spaziale dell’enormità sua paragonata alle dimensioni dell’Io, segnala ad un tempo la importanza della realtà inconoscibile dell’individuo e l’impersonalità che ne consegue, ma anche che questa fonda la comunanza umana, fatta sempre di dinamiche pulsionali, di costrizioni ereditate, di processi di pensiero inconsci. Comunque ce lo raffiguriamo – o nei termini de l’Io e l’Es o in quelli della XXXI Lezione – veniamo poi sempre rinviati all’altra, facendoci sperimentare un movimento che non è ‘di Freud’ ma è quello del pensiero metapsicologico, un pensiero sempre in movimento perché serve proprio a questo, cioè a tenere in tensione il pensiero e, in particolare, a scoraggiare le declinazioni narcisistiche eccessive dell’attività dell’Io, le quali cercherebbero difensivamente (ma mortiferamente) di stabilire delle certezze. Cercando poi per così dire di entrare nell’Es possiamo a mio avviso trovare pressocché infiniti contenuti ma dobbiamo esser avvertiti di quel che sono (già Mozart l’aveva notato, ricordate Leporello quando canta “Madamina il catalogo è questo”?) non per rigettarli ma per riconoscerli come tentativi necessari dettati dalla nostra ‘natura’.
Come vedete, ho cercato di indicare com’è fatta secondo me la ‘cornice’, appunto i bordi, i confini, i limiti dell’Es, piuttosto che i singoli possibili ‘meccanismi’ interni ad esso, nella convinzione che il dover sempre pensare alla sua impensabilità ci possa inquietare utilmente.
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[1] “Tutte le scienze sono basate su osservazioni e esperienze che ci vengono trasmesse dal nostro apparato psichico” (Freud, 1938, 586). Affermazione che testimonia la consapevolezza di Freud relativamente alla necessità che la nostra sia una teoria autocritica.
[2] Cfr. Laplanche J. (1981, 199 e seg.) per una discussione – diversa da quella che farò qui – sul significato della differenza tra i due schemi, discussione che conclude con l’affermazione per cui “la limite, à la partie inférieure du schéma freudien, est impossible à tracer” (ibid., 201).
[3] Rinvio per questo allo studio di Campanile (2021) al proposito. L’Autore disegna una prospettiva di rilettura e di sviluppo delle ipotesi freudiane, nella quale la teoria delle pulsioni ha grandissima importanza.
[4] Cfr. Groddeck (1925).
[5] Cfr. Freud, 1922, 488.
[6] “Tutti gli atti e tutte le manifestazioni che osservo in me e che non so come collegare con il resto della mia vita psichica devono essere giudicati come se appartenessero a qualcun altro e trovare la loro spiegazione in una vita psichica attribuita a quest’altra persona. L’esperienza mostra anche che sappiamo interpretare molto bene negli altri (e cioè inserirli nel contesto psichico) quegli stessi atti a cui rifiutiamo invece di riconoscere l’esistenza psichica quando si tratta di noi stessi” (Freud, 1915b, 53, corsivo mio).
[7] E che è una difficoltà costitutiva del sapere psicoanalitico, come rileva Assoun già a proposito del pensiero di Freud: “Il sapere freudiano accede all’inedito del suo oggetto coniugando l’ideale della Spezialwissenschaft con il pensiero della totalità, ricusata come illusione ma presente come esigenza” (Assoun, 1981, 229).
[8] Mi rifaccio qui a N. Zaltzman, 1999, 14.
[9] A volte, anche da parte di Freud, vengono limitati (ad es. in 1938, 572) altre volte allargati (ad es. in L’Io e l’Es).
[10] Questo ha a che fare – il che qui ci riguarda strettamente ma è stato indagato spesso nella nostra cultura – con il problema dei livelli di conoscenza possibili in psicoanalisi. Si tratta di un problema di tanto in tanto sollevato (cfr. ad es. Merot, 2016, 34) importante anche dal punto di vista storico-culturale in quanto ha a che fare con la questione del rapporto tra il pensiero di Freud e quello dei filosofi. Merot si sofferma sul rapporto tra il pensiero di Baruch Spinoza (che distingue – sia in Trattato sull’emendazione dell’intelletto, sia in Etica, V, Proposizioni da XXXVIII a XLI – tre generi di conoscenza essendo solo la conoscenza del terzo genere quella da cui “sorge il supremo acquietamento”) e quello di Freud, che distingue appunto la conoscenza quotidiana da quella psicologica per giungere alla conoscenza meta-psicologica. Per questo specifico tema, si veda Hessing (1977) soprattutto per lo scambio di lettere – ivi trascritte – tra Freud e Lothar Bickel nel 1931 e Freud e lo stesso Hessing nell’anno seguente. La questione dei livelli di conoscenza è presente anche in altri sistemi teorici psicoanalitici, ad es. in quello di Bion (1967) come rilevato anche da Sergio Bordi nell’ampia prefazione all’edizione italiana (v. ad es. p. 10-11).
[11] “Nella misura in cui vogliamo conquistare la capacità di considerare metapsicologicamente la vita psichica, dobbiamo imparare a emanciparci dall’importanza del sintomo ‘consapevolezza’” (Freud 1915b, 76).
[12] Sta qui la differenza dell’Es freudiano da quello di Groddeck.
[13] Sulla questione della raffigurabilità, rappresentabilità, esperienza del limite (e rapporti tra questi diversi livelli) cfr. La Scala (2012).
[14] Censure che colpiscono la (per certi versi irrealistica) “compulsion à transférer” opportunamente segnalata da M. Aisenstein (come “donnée anthropologique fondamentale de l’humain qui précède la rencontre analytique” (2010, 1368).
[15] Sto, evidentemente, riprendendo anche i temi di una mia lunga riflessione: cfr. Semi 1998, 2006, 2012.
[16] Consente solo, beninteso. Per la questione della comunicazione inc>inc disponiamo ora anche dell’illuminante e profondo studio di M. Pierri (2018).
[17] Per questo tema rimane fondamentale a mio avviso Le discours vivant di André Green (1973).
[18] Cfr. Freud (1925) ove però la funzione del giudizio non è dettagliata anche per le caratteristiche delle rappresentazioni sopravvenienti alla coscienza.
[19] Il pensiero metapsicologico nasce come risposta a queste situazioni, che ovviamente non sono solo ‘cliniche’: si veda, per quanto riguarda Freud, la frequente notazione, ad esempio nelle lettere a Fliess, di non sapere dove si è, non solo a che punto si è. Oppure lo sconcerto inquietante de Il perturbante (1919).
[20] Qui c’è una differenza evidente tra chi ipotizza l’esistenza di una ‘diade’ inaugurale della vita psichica e chi invece ritiene che fin dall’inizio esista – come la percezione suggerisce – una ‘organizzazione’ isolata.
[21] Nel Compendio troviamo questa definizione centrata sull’innato: “Chiamiamo Es la più antica di queste province o istanze della psiche: suo contenuto è tutto ciò che è ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per costituzione, innanzitutto dunque le pulsioni che traggono origine dall’organizzazione corporea, e che trovano qui, in forme che non conosciamo, una prima espressione psichica.” (Freud, 1938, 572-3). Si può dire che questa definizione centra il problema delle cause prime che costringono a costruire teoricamente l’Es. L’uso del termine “organizzazione” (Organisation) è importante e si riferisce appunto al problema della concepibile o inconcepibile (psichicamente) totalità. Se ne veda l’uso in Die Zukunft einer Illusion (1927), G.W. XIV, 380 (OSF, X, 484-85).
[22] Su questa questione si impernia buona parte del pensiero di A. Green (1995), in particolare a proposito dell’ipotesi relativa all’esistenza (teorica) di processi terziari, di legame tra i processi primari e quelli secondari.
[23] Ad es. v. Green 1992, 57 dove, chiarito che “rien de ce qui constitue l’essence du psychisme ne se dévoile par le moyen de l’observation” aggiunge che ” En tout état de cause, l’originaire n’est jamais qu’une construction hypothétique“.
[24] Qui e di seguito ho continuamente in mente il magistrale lavoro – e il ricordo gonfio di cordoglio – di Sisto Vecchio Resistenze della/alla psicoanalisi (2020), cui rinvio.
[25] Il riferimento è a L’entendement freudien – Logos et Anankè di P.-L. Assoun (1984).
[26] Magari non giustificate, si veda il caso delle tracce mnestiche relative alle rappresentazioni di parola cui si riferisce Freud (1922).
[27] V. Freud (1915b) ove, dopo aver sottolineato che la nostra attività psichica si muove in due direzioni opposte, indica la seconda, la quale parte “dalle sollecitazioni esterne, attraverso il sistema C e Prec, fino a giungere agli investimenti inc dell’Io e degli oggetti. Questa seconda via deve rimanere transitabile nonostante la rimozione avvenuta” (p.87).
[28] Qui il passaggio è delicato e importante, perché implica per così dire la partecipazione attiva dell’apparato nella costituzione del percetto finale, fenomeno ben noto, cui fa riferimento già anche Groddeck in una lettera a Freud del giugno (?) 1917: “non è vero che noi vediamo sempre un solo frammento di ciò che potremmo vedere, è l’Es che ci impedisce di vedere, di vedere con la coscienza, quel che ci sta davanti. Però non impedisce che i raggi di ciò che non percepiamo impressionino la nostra retina e poi, ‘di riflesso’, anche noi stessi. ‘Di riflesso’ e chi non ride a sentir questo? Anche Lei avrà scoperto come me, migliaia di volte, che l’oggetto che vediamo senza percepirlo comporta pericoli per il benessere del nostro Ubw.” (Freud e Groddeck, 1973, 22). Per la questione del rapporto tra traccia mnestica e pulsione, si veda la discussione che ne fa Aisenstein (2010) la quale peraltro si pone il problema se gli stessi stimoli interni costituiscano già dei “rudiments de répresentation” (1377).
[29] Per un’ipotesi su questo processo in dettaglio rinvio al mio articolo su L’Io e l’Es e il problema della percezione pubblicato nella Rivista di Psicoanalisi (2022, LXVIII, 4) ove cerco anche di chiarire il concetto di rappresentazione di cosa.
[30] Si tratta della seconda ipotesi fondamentale della psicoanalisi: “La psicoanalisi reputa che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e proprio psichico, e in ciò prescinde a tutta prima dalla qualità della coscienza” (Freud, 1938, 585).
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