Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Patrizia Montagner
Nel 3° incontro del ciclo “Violazioni dei Diritti Umani”, svoltosi il 3 marzo 2023, abbiamo avuto come ospite Luca Curci, Funzionario di UNHCR da molti anni
Il tema dei Migranti, la loro accoglienza e gestione, tornano in primo piano in questi giorni nelle pagine dei giornali e dei media.
La tragedia di Cutro da una parte e l’aumento degli sbarchi dall’altra ci obbligano a ripensare alla realtà della Migrazione.
L’intervista che segue costituisce una opportunità per guardare al fenomeno migratorio dal punto di visto di un esperto che ci lavora da molti anni, e che ci offre il suo punto di vista, e un’occasione per allargare la riflessione.
Il lavoro presso l’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite é un’esperienza straordinariamente intensa e complessa di cui Curci ha mostrato l’intersecarsi di aspetti giuridici, organizzativi, sociali, politici.
Ci ha mostrato tra l’altro l’importanza e la diffusione della realtà della migrazione nel mondo, quanto diversamente essa sia sentita e gestita, il potere e il valore delle leggi, il modo con cui esse sono usate, il meccanismo dell’accoglienza e i cicli e ricicli viziosi e virtuosi che crea.
Ci ha consentito anche di vedere il cittadino e l’essere umano a contatto con le potenzialità ma anche con la sofferenza di un altro essere umano.
E ci ha permesso di fare una riflessione sui pregiudizi verso il Rifugiato e il Migrante in generale, che costituiscono una delle armi più violente usate da un uomo nei confronti dei suoi simili.
Come psicoanalista ritrovo, nei racconti di Luca, il costante emergere di aspetti psicologici, sia nella relazione con il singolo che con il gruppo che con lo Stato.
Aspetti che alludono ad un latente che costituisce il vero motore dell’agire umano.
Non sarebbero infatti comprensibili tutta una serie di eventi legati alla migrazione, di cui osserviamo la conflittualità, ma anche la incongruità, fino alla violenza e alla distruttività, talvolta francamente irragionevoli, se non ipotizziamo l’esistenza di un “motore” psichico assai potente, su cui la psicoanalisi cerca di riflettere.
PM -Dr. Curci , da quanto tempo lei lavora in UNHCR e in quali luoghi è stato?
LC -La mia carriera professionale presso l’uffico dell’Alto Commissariato delle Nazioni Uniti per i Rifugiati comincio’ in Bosnia Erzegovina nell’ormai tristemente lontano 1999. Dopo alcuni anni di lavoro nel paese con diverse ONG italiane, fui selezionato per una posizione nell’ufficio di campo di Travnik, in Bosnia centrale. Da li’, dopo due anni, passai a Ginevra come Junior Professional Officer (una posizione finanziata dal governo italiano come forma di contributo alle attivita’ dell’Agenzia) e poi a seguire mi spostai in Liberia, di nuovo a Ginevra all’ufficio regionale per l’Africa, in Mauritania, Kosovo, Turchia, Grecia per poi approdare a Varsavia ad occuparmi specificamente delle politiche migratorie dell’Unione Europea, messe in atto attraverso l’Agenzia specializzata Frontex.
PM – Dunque lei può darci un’idea, seguendo la sua esperienza , della vastità del fenomeno migratorio, che noi riteniamo essere un evento limitato quasi esclusivamente all’Europa? Le lo ha visto invece come fenomeno diffuso in tutto il mondo , è piuttosto il pregiudizio del nostro Eurocentrismo che ce lo mostra come “nostro” ?
LC- Uno dei luoghi comuni piu’ frequenti e’ la falsa convinzione che il fenomeno migratorio, spesso presentato con i toni apocalittici dell’”invasione”, sia un problema esclusivamente o prevalentemente europeo. Per quanto il fenomeno meriti la giusta attenzione, andrebbe collocato in prospettiva tenendo presente la realta’ che i numeri, impietosi nella loro crudezza, rivelano:
Globalmente, si contano piu’ di 100 milioni di sfollati tra i quali poco piu’ di 30 milioni sono rifugiati[1], dei quali poco piu’ del 70% proviene da cinque paesi ossia Siria, Venezuela, Ucraina, Afghanistan, Sud Sudan; circa il 36% della popolazione rifugiata si trova in Turchia, Colombia, Germania, Pakistan, Uganda; il 74% in paesi in via di sviluppo, il 69% nei paesi direttamente confinanti con quelli in crisi)[2].
Nel contesto dei cosiddetti flussi migratori misti, nei quali cioe’ si muovono sia persone bisognose di protezione internazionale (rifugiati, richiedenti asilo, apolidi), sia individui che si spostano principalmente per ragioni economiche, possiamo identificare diverse assi di movimento non solo da sud a nord, ma anche da sud a sud, in differenti aree geografiche. Non e’ dunque vero che “tutti vogliano venire in Europa”. La sfida rappresentata dai flussi migratori misti e’ tuttavia significativa dal momento che essi tendono a mettere sotto pressione i sistemi d’asilo nazionali, che devono essere in grado di distinguire coloro che hanno un bisogno di protezione, e che sono quindi soggetti a un regime legale chiaramente definito dal diritto internazionale e dalle legislazioni nazionali, da coloro che invece sono spinti a migrare per ragioni economiche. Mentre i rifugiati rappresentano una “categoria” regolamentata dalle Convenzioni internazionali e dal diritto europeo, trasposto negli ordinamenti nazionali dei paesi contraenti e membri UE, i cosiddetti “migranti economici” non hanno uno status legale definito e sono quindi soggetti alle norme in materia di migrazione applicabili nei vari stati, fatta salva naturalmente la tutela dei loro diritti fondamentali codificati nel corpus normativo dei diritti umani attraverso strumenti legali globali e regionali.
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[1] Per rifugiato, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo Statuto dei Rifugiati e il suo Protocollo Aggiuntivo del 1967, si intende chiunque “[..] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”.
[2] Fonte UNHCR: https://www.unhcr.org/refugee-statistics/
PM – Dove lavora attualmente, quali sono i suoi compiti? Che cosa fanno UNHCR e Frontex e come si interfacciano?
LC -Da luglio 2021, svolgo le funzioni di Capo dell’Ufficio di Collegamento con Frontex, l’Agenzia Europea di Guardia di Frontiera e Costiera che ha sede a Varsavia. Il mio ufficio e’ un distaccamento della Rappresentanza di UNHCR presso le Agenzie UE situata a Bruxelles. Non abbiamo compiti operativi “tradizionali”, nel senso che non gestiamo attivita’ sul terreno di assistenza e supporto ai rifugiati (non siamo coinvolti nei programmi di assistenza ai rifugiati ucraini in Polonia, per esempio, per il quale c’e’ un’ operazione paese gestita da un apposito ufficio di UNHCR). Con il nostro lavoro, cerchiamo di influenzare le politiche e le pratiche di Frontex in modo da assicurare il rispetto del diritto d’asilo e dei diritti fondamentali previsti dalla legislazione europea, all’interno delle operazioni di controllo delle frontiere esterne dell’UE (cioe’ quelle con paesi non-membri dell’UE) e di gestione dei flussi migratori che l’Agenzia svolge, in supporto alle autorita’ dei paesi membri, come previsto dall’apposito Regolamento europeo che definisce il mandato e le responsabilita’ di Frontex[1]. Facciamo questo sia sul piano bilaterale interfacciandoci regolarmente con la dirigenza di Frontex e il team del suo ufficio interno per i diritti fondamentali (Fundamental Rights Officer), sia e soprattutto in collaborazione con un ampio numero di partner membri del Forum Consultivo sui Diritti Fondamentali[2], un organismo previsto dall’articolo 108 del Regolamento europeo di Frontex, composto da diverse ONG europee, agenzie ONU e agenzie Europee che UNHCR, nella mia persona, co-presiede insieme all’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (FRA). Il Forum esprime pareri legali e formula raccomandazioni per la dirigenza di Frontex e il suo Consiglio di Amministrazione relativamente alla protezione dei diritti fondamentali nelle operazioni finanziate da Frontex.
Frontex ha un mandato operativo per assistere gli stati membri dell’UE che ne facciano richiesta nella gestione dei flussi migratori alle frontiere esterne dell’Unione in linea con il sistema integrato europeo di gestione delle frontiere (European Integrated Border Management). Composta da personale proveniente dalle polizie di frontiera e guardia costiera degli stati membri, l’Agenzia invia personale e mezzi che sono dispiegati, sotto il comando delle autorita’ dei paesi richiedenti, lungo le frontiere di terra e di mare con funzioni di controllo, intercettazione e contrasto di tutte le attivita’ criminali transfontaliere, compreso il traffico di esseri umani. Frontex svolge anche un ruolo importante nel campo dei ritorni, volontari e forzati, nei paesi d’origine di tutti coloro che, al termine delle procedure per la determinazione dello statuto di rifugiato condotte dalle autorita’ competenti dei paesi membri, risultino non aver bisogno di protezione internazionale (un procedimento, quello dei ritorni, da compiersi una volta terminate tutte le procedure di legge e nel rispetto dei diritti fondamentali, necessario per garantire l’integrita’ del sistema d’asilo ed evitare abusi).
UNHCR, dal canto suo, e’ il cosiddetto “guardiano” della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo Aggiuntivo del 1967, incaricato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di monitorare l’applicazione della Convenzione al fine di assicurare che l’accesso alla determinazione dello statuto di rifugiato sia garantito per tutti coloro che ne facciano richiesta ed evitare che le persone bisognose di protezione vengano rimandate contro la loro volonta’ nei paesi d’origine dove potrebbero essere soggette a persecuzioni o gravi rischi per la loro vita o integrita’ fisica.
La gestione dei flussi migratori alle frontiere esterne dell’UE e’ materia estremamente delicata e complessa attorno alla quale appare difficile raggiungere un accordo comprensivo (Patto su Migrazione e Asilo) tra i paesi membri che preveda non solo il controllo delle frontiere, ma anche la redistribuzione di migranti e rifugiati all’interno dell’Unione (meccanismi di solidarieta’), la creazione di corridoi legali alternativi per l’ingresso nell’UE e il ritorno nei paesi d’origine di tutti coloro che non abbiano diritto di dimorarvi. Tale mancanza di chiarezza e accordo politico si traduce spesso in pratiche di controllo e gestione delle frontiere viziate da gravi violazioni dei diritti fondamentali di rifugiati e migranti, contrarie alla legislazione europea e alle stesse normative nazionali dei paesi membri. La politicizzazione del fenomeno porta a distorcere il dibattito, spesso alla ricerca di facili consensi elettorali. Data la complessita’ del fenomeno, la sua semplificazione e banalizzazione si traduce spesso in una narrativa ostile, errata e pericolosa.
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[1] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019R1896&from=EN
[2] https://frontex.europa.eu/fundamental-rights/consultative-forum/general/
PM – Osservando la sua lunga esperienza, a suo avviso quali sono le caratteristiche comuni dei migranti e quali invece sono specifiche della nostra regione europea? Che cosa vogliono, che cosa si aspettano?
All’interno dei flussi migratori misti, le persone, al di la’ delle possibili differenze di status legale dovute alle ragioni che le hanno portate a lasciare i paesi d’origine, si muovono per ragioni simili: la ricerca di opportunita’ per una vita normale e dignitosa. In questo contesto, le persone in movimento sono accomunate dagli stessi bisogni e sono esposte agli stessi rischi, in mano a trafficanti senza scrupoli che sfruttano la loro disperazione, dovuta spesso alla mancanza di alternative legali. Possiamo dire che il denominatore comune per tutte le persone in movimento sia la ricerca di condizioni di vita migliori: un lavoro, educazione, assistenza sanitaria. In poche parole, opportunita’. Opportunita’ che nei paesi d’origine sono loro negate, vuoi per situazioni di fragilita’ economiche strutturali, vuoi per guerre, violenze diffuse, persecuzioni messe in atto da regimi oppressivi e autoritari. Questo e niente altro e’ quello che rifugiati e migranti di varie nazionalita’ mi hanno sempre detto in Liberia come in Turchia, in Mauritania come in Grecia. Tutti spesso perfettamente coscienti dei rischi ai quali si sarebbero esposti mettendosi nelle mani dei trafficanti, tutti ugualmente disperati al punto di preferire la morte lungo la via, piuttosto che languire senza prospettive nei luoghi d’origine.
PM – Rispetto al problema dell’accoglienza dei profughi, quale potrebbe essere la ragione per cui l’Europa si sente così bersagliata dai loro arrivi? Quali pregiudizi si attivano nel momento in cui diventiamo luogo di accoglienza? Come si accoglie altrove?
LC- Agli occhi dei profughi, l’Europa, o quanto meno una parte di essa, rappresenta comprensibilmente un faro di liberta’ e opportunita’. Se da un lato possono esserci legami storici, particolarmente con le ex-potenze coloniali come Francia, Belgio, Regno Unito e, in qualche misura Italia, con la presenza di comunita’ immigrate da generazioni e relativamente ben integrate, dall’altro la ricchezza e gli standard di vita elevati di vari paesi esercitano un forte appeal per chi non conosce altro che precarieta’, incertezza e mancanza di prospettive. Tutto cio’ genera una situazione per cui molti paesi, soprattutto quelli di primo approdo, sono visti spesso solo come paesi di transito verso quelli del centro-nord Europa (Germania, Svezia, Norvegia, Olanda, Austria), considerati, a torto o a regione, come piu’ aperti e ricchi di opportunita’. A sua volta, questo genera forti divisioni tra i paesi europei in relazione alla gestione degli arrivi con, per esempio, i paesi nordici che spingono per l’applicazione rigida del Regolamento di Dublino che prevede il dovere per i paesi di primo arrivo di esaminare le domande di asilo, e la richiesta da parte di questi ultimi della messa in opera di un sistema di ridistribuzione all’interno dell’UE per alleggerire i carichi. La normativa europea, per quanto non perfetta, disciplina attraverso una serie di regolamenti e direttive l’accoglienza, l’identificazione delle persone e le procedure d’asilo. L’applicazione delle norme europee non e’, tuttavia, sempre coerente e violazioni anche estremamente gravi dei diritti fondamentali di migranti e rifugiati accadono sistematicamente ormai da anni. I tentativi in corso di aggiornare o rivedere norme e procedure all’interno di un nuovo Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo rivela le profonde divisioni e le tensioni politiche tra i paesi membri dell’Unione impegnati da anni nella negoziazione delle varie componenti del Patto. Per quanto riguarda gli arrivi, i numeri sono senz’altro significativi (secondo Frontex, nel 2022 ci sono stati poco piu’ di 300,000 attraversamenti irregolari delle frontiere UE), ma se rapportati al totale della popolazione europea, decisamente “gestibili” (basti pensare a come l’Europa sia riuscita ad assorbire in pochissimo tempo milioni di ucraini, un segno di come, a fronte di una chiara volonta’ politica, sia possibile gestire flussi significativi di persone).
Altrove l’accoglienza non e’ necessariamente piu’ facile. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno inasprito negli anni le loro politiche migratorie; l’Australia ormai da tempo ha adottato politiche restrittive altamente controverse; la Turchia, che all’inizio della crisi siriana mise in atto una lodevole politica di porte aperte che rapidamente fece del paese il maggior ricettore di rifugiati al mondo (primato che tuttora detiene), ha adottato progressivamente misure sempre piu’ restrittive blindando i suoi confini meridionali con Siria e Iraq e orientali con l’Iran, principale punto d’ingresso per le persone in movimento da paesi come l’ Afghanistan, l’India e il Bangladesh. Tali politiche compromettono l’accesso alle procedure d’asilo, esponendo le persone che potrebbero aver bisogno di protezione internazionale a gravi rischi, in violazione alle norme sull’asilo. Paradossalmente, abbiamo riscontrato meno problemi di accoglienza nei paesi in via di sviluppo, spesso privi di risorse proprie per rispondere alle continue emergenze e quindi dipendenti dagli ormai sempre piu’ ridotti contributi finanziari e umanitari dei paesi ricchi[3]. Paesi come Uganda, Etiopia, Tanzania, Kenya, Ciad o Sud Sudan ospitano da decenni centinaia di migliaia di rifugiati, con nuovi arrivi ad ogni periodica recrudescenza dei conflitti nei paesi confinanti in stato di crisi perenne senza apparenti vie d’uscita. Senza contare spesso la presenza di sfollati interni provenienti da altre regioni dei vari paesi a causa di guerre civili o catastrofi naturali, sempre piu’ legate ai cambiamenti climatici.
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[3] La guerra in Ucraina e il conseguente arrivo di quasi otto milioni di rifugiati in Europa hanno provocato una drammatica contrazione dei finanziamenti per le operazioni di sostegno ai rifugiati in altre parti del mondo, soprattutto in Africa. Questa situazione rischia di provocare movimenti secondari verso l’Europa e altre regioni.
PM – Quali sono a suo avviso i pregiudizi che più frequentemente riscontra nella nostra cultura verso i Rifugiati e anche i migranti e i profughi?
Uno dei falsi miti piu’ comuni che vengono artificialmente messi in circolazione quando si parla di migrazione e’ che arrivino solo delinquenti o gente la cui aspirazione sia quella di farsi mantenere e spremere le risorse che gli stati europei generosamente metterebbero loro a disposizione (a discapito delle popolazioni locali). Ebbene, niente di piu’ falso. La mia esperienza in diversi paesi, con persone provenienti da zone profondamente diverse tra loro, mi ha mostrato che cio’ che i rifugiati chiedono e’ la possibilita’ di essere autosufficienti, badando a se stessi e alle loro famiglie attraverso il loro lavoro. Non chiedono di essere mantenuti. Chiedono di avere la possibilita’ di ricostruire le loro vite sulla base delle loro esperienze, delle capacita’ che portano con loro. L’assistenza umanitaria della quale molti beneficiano puo’ essere necessaria per rispondere all’emergenza e dovrebbe avere una durata limitata, o almeno fino a che i rifugiati non siano stati messi in grado di cavarsela da soli, con eccezioni per coloro che siano impossibilitati a svolgere attivita’ lavorative. Nel momento in cui questa diventa l’unica fonte di sostentamento per i rifugiati, si instaura un meccanismo di dipendenza che produce nel lungo periodo effetti deleteri sulle dinamiche sociali e personali, spesso anche con drammatiche conseguenze sui rapporti familiari e interpersonali. Naturalmente, tra i rifugiati ci sono anche persone con vulnerabilita’, che richiedono assistenza adeguata. Il bisogno di protezione spinge anche le categorie piu’ deboli e vulnerabili a fuggire. Nessuno sceglie di diventare un rifugiato[1]. Tutti pero’ possono diventarlo: ricchi, poveri, professionisti, disoccupati, giovani, anziani, sani e malati. I rifugiati in fuga portano con se’ il loro bagaglio di conoscenze e talenti che potrebbero essere messi a disposizione dei paesi ospitanti. Quando qualcuno anni fa parlo’ pubblicamente dei rifugiati come di una risorsa (e fu demolito sui social e in Parlamento) voleva dire esattamente questo: i rifugiati, se propriamente integrati attraverso politiche specifiche, possono contribuire attivamente all’economia e alla societa’ del paese ospitante. La marginalizzazione, la ghettizzazione, lo sfruttamento non possono che generare malessere, disagio e il ricorso a pratiche di sopravvivenza ai limiti, se non al di la’, della legalita’, che comprendono anche i movimenti irregolari verso altri paesi, che tanto contribuiscono a inasprire il dibattito sulla migrazione, soprattutto in seno all’UE. E teniamo presente che, per coloro che sono stati costretti ad abbandonare i luoghi di origine, il sogno piu’ grande rimane sempre quello di poter tornare a casa e ricostruirvi la propria vita. Gli anziani vogliono tornare a morire li’ dove sono vissuti, i giovani vogliono tornare per ricostruire e ripartire. La sola ragione per cui non lo fanno e’ che le condizioni nei paesi d’origine non lo consentono. Piu’ a lungo si protrae l’esilio e piu’ diventa difficile tornare. Basti pensare a paesi in perenne conflitto o senza prospettive di pace sostenibile (Siria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Afghanistan, Somalia, per fare qualche esempio).
PM – Può raccontarci un episodio o un incontro che l’hanno particolarmente toccata? Che ha mostrato la profonda umanità e sofferenza dei pèrofughi, ma anche il loro desiderio di ricostruirsi una vita?
LC- Ne potrei raccontare tanti. Uno degli episodi che mi hanno colpito di piu’ riguarda un chirurgo ortopedico siriano rifugiato in Turchia che scriveva al nostro ufficio per chiedere aiuto affinche’ potesse esercitare la professione in Turchia. Purtroppo, le leggi turche, benche’ garantissero l’accesso al mercato del lavoro per i rifugiati, escludevano l’esercizio di alcune professioni, tra cui, appunto, quella medica. Il dottore, che non incontrammo mai personalmente, ci inviava accorati appelli scritti nei quali descriveva la sua esperienza pluriennale che avrebbe volentieri messo a disposizione delle strutture turche anche per sdebitarsi dell’accoglienza ricevuta nel paese. Non chiedeva altro che di poter fare quello che sapeva fare per essere autonomo, senza dover pesare sull’assistenza sociale. I nostri sforzi presso le autorita’ competenti turche perche’ introducessero gli opportuni emendamenti legislativi purtroppo non andarono a buon fine.
Un altro episodio significativo accadde qualche anno fa in Grecia quando un’alluvione devastante colpi’ alcune cittadine della Tessaglia provocando gravissimi danni. Nella citta’ di Karditsa, i rifugiati che vi risiedevano scesero per primi in strada a ripulire strade, case e negozi dal fango suscitando la meraviglia e lo stupore della popolazione locale che li aveva sempre guardati con diffidenza. Fu un momento di partecipazione e condivisione straordinario, ripreso con enfasi anche dalla stampa greca, generalmente ostile a migranti e rifugiati.
E poi tanti altri episodi ancora, storie di umanita’ genuina, di bisogni essenziali, speranze e sogni di riscatto che in qualche maniera ci accomunano tutti, membri della stessa famiglia umana.
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[1] Anni fa, in Mauritania, un richiedente asilo ivoriano che pretendeva la concessione di una serie di benefici e facilitazioni che non gli spettavano, al mio rifiuto mi chiese: “Ma allora, qual e’ il vantaggio di essere rifugiato”? Li’ capii che quella persona non aveva un reale bisogno di protezione. Non c’e’ nessun vantaggio nell’essere rifugiato – gli dissi. La possibilita’ di rimanere legalmente nel paese senza temere l’espulsione verso il luogo d’origine e senza soffrire discriminazioni costituiscono le garanzie minime indispensabili. Vantaggi, nessuno.
PM – A quali considerazioni la portano tutte le sue esperienze sul lavoro con i Profughi, quali caratteristiche dell’essere umano l’hanno colpita di più? Le chiedo una idea finale nata dalla sua vicinanza con chi è Rifugiato, uno sguardo su umanità e disumanità.
Suonera’ banale, ma quello che mi ha colpito di piu’, senza voler idealizzare il tutto, sono il senso di resilienza, il coraggio e la tenacia che dimostra chi ha perso tutto. Paradossalmente, sono proprio queste caratteristiche che fungono da stimolo anche per noi operatori umanitari quando sentiamo prevalere la frustrazione, la sensazione d’impotenza e inadeguatezza che proviamo davanti ai crescenti livelli di sofferenza umana che richiedono risorse e mezzi mai sufficienti.
Allo stesso tempo pero’ ho sempre trovato estremamente difficile osservare impotente gli abissi di disperazione in cui molti piombano, quando la mancanza di prospettive appare loro insormontabile e si fa misura della nostra inabilita’ di coprire i bisogni e soddisfare le aspettative che vengono riposte in noi. Tante volte mi sono chiesto, senza mai riuscire a darmi una risposta definitiva: ma io, al posto loro, cosa farei? Come reagirei?
Patrizia Montagner, Portogruaro (Ve)
Centro Veneto di Psicoanalisi
Luca Curci, Europe
UNHCR
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