Testimonianze

Trans Parent

Intervista realizzata in occasione della Giornata Mondiale contro l'Omo-bi-trans-fobia.

Anna Cordioli intervista Etta Andreella

Ascoltare una testimonianza

Della Psicoanalisi ho sempre apprezzato il tempo, anche lungo, dedicato all’ascolto dell’Altro. Mi colpì molto il valore che Freud diede alle ore in cui Bleuler si fermava ad ascoltare Anna O.: al tempo non ci si fermava affatto ad ascoltare le parole dei pazienti.

 La talking cure esiste perché c’è qualcuno che davvero ascolta, qualcuno che raccoglie la testimonianza e che si lascia toccare.

Da quel tempo dedicato all’ascolto è poi nata la possibilità di comprendere l’Altro e il suo mondo inconscio. È dunque poi stato possibile trovare l’assetto per una relazione d’aiuto profonda, intima e dunque trasformativa.

È altrettanto vero che quel tempo di ricezione ha donato moltissimo anche a chi ascoltava. È solo attraverso ciò che l’altro condivide con noi che conosciamo quell’individuo, la sua vita, ciò che è centrale nella sua esistenza. Conosciamo il suo mondo ma anche, per estensione, incontriamo una parte di mondo che è fuori dalla nostra mente.
L’ascolto ci permette dunque di allargare il confine della nostra conoscenza.
Quello che usiamo è un rigoroso metodo gnoseologico, valido già da qualche millennio: è fondamentale ascoltare prima di parlare.
 
Oggi la persona che ha accettato di parlarci della sua esperienza e che ascoltiamo con gratitudine si chiama Etta Andreella. È una attivista per i diritti civili e una madre.
A lei abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa sul mondo LGBTQI+ ed in particolare sulle persone Trans e i loro genitori.
La sua è una testimonianza particolarmente interessante poiché ci ricorda una ovvietà che quasi sempre finisce per diventare trasparente: le persone T non si sono autogenerate, hanno famiglie, genitori, talvolta fratelli e sorelle.
Troppo spesso abbiamo avuto notizie di persone trans e queer che sono state ripudiate dalle loro famiglie, finendo in condizioni di grave marginalità. Questo è uno strazio che va affrontato e che va prevenuto affinché non si ripeta. I veri legami d’affetto, come ci testimonia Andreella, restano vivi anche dopo la transizione.
Avere cura del rapporto tra persone T e le loro famiglie (prima durante e dopo la transizione) significa aiutare tutti ad investire sul futuro, su un’inclusività reale e sul diritto di ciascuno ad avere un buon destino. 
 
Ascoltare la voce di chi vive un’esperienza ci aiuterà, come sempre, a comprendere come poter aiutare.

Buon giorno Etta e grazie di aver accolto il nostro invito.
Da molti anni lei è attiva nel SAT PINK, di che tipo di servizio si tratta?

L’acronimo SAT sta per Servizio Accoglienza Trans e Gender Variant. È nato a Verona nel 2011 all’interno de Circolo Pink con l’intento di dare risposte ai tanti bisogni delle persone transgender del Veneto. Nel 2015 è nata la sede di Padova e, proprio di recente, nel 2022, quella di Rovigo.

Il SAT, oltre a dare ascolto e accoglienza, offre un supporto psicologico, informativo e legale per le persone T che si avvicinano al percorso di terapia ormonale sostitutiva (TOS). Negli anni abbiamo creato delle convenzioni con medici e specialisti di vari settori per creare una rete di professionisti competenti in questo ambito poiché abbiamo visto come spesso le persone T si trovavano disorientate, perse in un gioco dell’oca in cui faticavano a trovare anche solo le informazioni più basilari.

Nel nostro centro viene dato anche spazio a gruppi di auto-aiuto per persone FtM e MtF ma lo spazio ascolto è aperto anche ai genitori.

 

Come è iniziata la sua esperienza presso questa associazione? Con quale tipo di richieste arrivano le persone che chiedono questo spazio di ascolto?

Ho incontrato il SAT – PINK nel momento più impegnativo della mia vita, ero diventata improvvisamente la mamma di un ragazzo transgender e non capivo quasi nulla di quello che ci stava succedendo. Fortunatamente le persone che lavoravano all’interno dell’associazione, così come hanno accolto e sostenuto mio figlio, altrettanto hanno fatto con tutta la nostra famiglia.

È stato quasi inevitabile ricambiare l’affetto e il sostegno ricevuti con un impegno all’interno dell’Associazione e quindi ho partecipato ad un corso di formazione e sono diventata “sportellista”, cioè ho fatto parte del gruppo di persone che si occupano della prima accoglienza.

Accogliere una persona con problematiche legate all’identità di genere non è semplicemente raccogliere dati che poi serviranno ai consulenti per ponderare il processo di transizione, ma è aprirsi ad un mondo di persone che a volte sono assolutamente sole, che per la prima volta esprimono a voce le loro necessità, i loro desideri, le loro paure, altre volte è districarsi tra genitori ansiosi, figli impauriti e cercare di dare ad ognuno un ruolo e una identità.

Ho visto principalmente due grandi modalità di arrivo allo sportello: coloro che avevano maturato questa richiesta di aiuto in solitudine, spesso tormentosamente, e chi invece arriva al servizio abbastanza presto e supportato dalla rete primaria.

I primi spesso anche i più adulti di età. Ascoltare le solitudini di chi ha tenuto dentro di sé a lungo ogni pensiero e ogni paura non è facile. A volte si resta per molto tempo in silenzio a guardarsi, finché il fiume carsico non emerge in superficie e le parole si accavallano, tanta è l’ansia di farle uscire, e i pensieri si esprimono con parole a volte dure a volte incerte, con definizioni di sé non sempre positive e quasi mai lucide.

Quando, invece, le persone sono accompagnata da genitori o compagni/e o amici/e succede che siano questi accompagnatori che cercano di spiegare le necessità della persona T, e quindi, a volte, è necessario creare il silenzio per poter ascoltare la voce, quell’unica voce che sa cosa sta succedendo davvero. Saper ascoltare non è facile, mettersi in ascolto è più difficile ancora, perché per mettersi in ascolto bisogna essere accoglienti ma non giudicanti. In fondo per mettersi in ascolto bisogna essere stati ascoltati.

 

Chi non ha mai avuto una interazione con una persona T si sente spesso incerto e talvolta questo esita in un reciproco imbarazzo che non aiuta l’incontro.  Ci sono comportamenti o frasi che possono essere dette, anche in buona fede, e che invece fanno sentire rifiutate le persone T?

Credo che in ogni relazione ci siano momenti di reciproco imbarazzo, nel caso di una relazione con una persona T dobbiamo inevitabilmente distinguere due modalità: la prima è sicuramente la peggiore cioè quella che approccia la persona T con la volontà, a volte non esplicitata ma interiorizzata, di voler fare del male, di denigrare o sminuire la persona che si ha davanti. Un particolare tipo di aggressione è il non essere creduti. Ci sono persone che si avvicinano alle persone T con uno scetticismo che in realtà nasconde un’idea molto granitica, ovvero che non possano esistere queste persone e che sia tutta una sceneggiata. Quasi sempre questi dubitatori a priori non hanno neanche mai conosciuto una persona T e forse non gli interessa farlo.

Se invece l’approccio è semplicemente di interesse può succedere di dire comunque delle cose che danno fastidio o che toccano troppo da vicino la persona con cui ci si relaziona, ma questo succede con tutte le persone: se riconosciamo in noi tutti il valore della diversità, è importante però che la persona T senta che non c’è la volontà di rimarcare le differenze ma la volontà di conoscere, di aprirsi ad una interazione.

 La curiosità, che talvolta rischia di diventare un curiosare, va amministrata con grande attenzione per non cadere in fallo! Chiedere ad una persona T se è stata operata è entrare nel suo intimo, anche chiedere “come te ne sei accorta” o “quando te ne sei accorta” è inappropriato, in fondo difficilmente chiediamo ad una persona che incontriamo se è eterosessuale o come funziona la sua relazione sessuale. A me è successo che persone, che mi conoscevano solo attraverso il SAT, mi dicessero cose del tipo “sembri proprio una donna vera” o più banalmente “però sei venuta bene”, per me è stato facile mettermi a ridere, per una donna T non lo sarebbe stato e non lo è mai.

 

Un particolare progetto è quello legato ai gruppi di parola per genitori di persone T. So che per lei è importante il concetto di “Trans-parent”, ci racconta come nasce il gruppo e quali vissuti ha raccolto durante questi incontri?

C’è una vignetta che si trova ancora nei social e che raffigura una persona T con a fianco un’ombra, definita Trans-Parent, questa vignetta mi ha sempre colpita perché rappresenta la realtà dei genitori delle persone T come figure Trasparenti, non rilevanti e nemmeno rilevate nel percorso di transizione dei propri figli.

Il progetto dei gruppi AMA Genitori è un mio progetto all’interno dei servizi forniti dal SAT. L’ho pensato a lungo interrogandomi sulla mia personale esperienza e quando il gruppo dirigente dell’associazione lo ha approvato è stato immediatamente un successo. Ho seguito personalmente per anni i due gruppi di Genitori e parenti delle persone T che il SAT stava accompagnando. È stata una esperienza molto intima e profonda perché ho potuto incontrare, sostenere e ascoltare persone che stavano vivendo la stessa esperienza che avevo vissuto io.

Sono sempre stata consapevole che queste persone avevano principalmente bisogno di essere ascoltate ma anche sostenute in un percorso simile a quello dei loro figli ma profondamente diverso nei sentimenti che lo accompagnano.

Ho incontrato persone diversissime che erano tutte accomunate dal senso di colpa, ogni genitore si domanda “dove ho sbagliato” e ad ogni genitore serve una spalla su cui piangere, un pacchetto di fazzoletti di carta offerto con amore e una risposta, anche solo per tenere viva la possibilità di parola.

I gruppi di auto mutuo aiuto sono formati da persone che hanno un problema in comune e che si riuniscono periodicamente con l’obiettivo di dare e ricevere sostegno reciproco nell’affrontare il proprio problema, sono gruppi orizzontali dove non c’è chi guida e chi, in un particolare momento della sua vita, ha bisgno di appoggiarsi a chi di lì è già passato e questa è la loro grande forza.

 

Dare ascolto ai genitori significa entrare nel vivo della questione della “discontinuità”: esistono un prima e un dopo la transizione, con nomi, promomi e anche con un aspetto diversi. I genitori come vivono questo tema della discontinuità e come lo avete vissuto nella vostra famiglia?

L’aspetto della discontinuità è il grande tema della genitorialità verso figli transgender. E’ una strada irta di ostacoli quella che porta alla comprensione del percorso di transizione.

Tutti i genitori che ho incontrato mi hanno mostrato fotografie di figlie e figli decantandone l’avvenenza, tutti i genitori che ho incontrato mi hanno detto che non sarebbero mai riusciti a dare del “lui” o del “lei” al proprio figlio o figlia, tutti i genitori mi hanno detto “non posso nemmeno immaginarmela con la barba”. E’ normale non adeguarsi facilmente alla discontinuità perché viene vissuta come una ferita nella storia della famiglia e della biografia di ciascuno. Le discontinuità non sono mai facili però diventano distruttive e caotizzanti quando non si può lavorare per ri-creare un legame. Certe volte le persone T vengono espulse dalle loro famiglie anche perché queste non riescono a tollerare la discontinuità e si rifiutano di basare la continuità su altro, per poter stare assieme. Al SAT lavoriamo anche perché questo non accada.

Nella mia esperienza, ogni famiglia ha poi trovato la sua strada: chi ha tolto tutte le foto precedenti alla transizione, chi ha inventato soprannomi neutri prima di imparare ad usare il nome di elezione. Sicuramente ci sono cose che devi accettare di perdere, altre cose si trasformeranno ma l’importante è non rinunciare ad essere vivi e creativi assieme.

Noi in famiglia abbiamo tenuto in bella vista tutte le foto, nonostante mio figlio mi avesse chiesto di toglierle. Abbiamo trovato il nostro senso anche a questo conflitto. Io, che fino al momento della transizione avevo un nome cumulativo per le mie figlie, dette normalmente le “Bibe”, ho sostituito questo nome con “le creature” e ancora oggi quando devo parlare dei miei figli, ma anche dei figli degli altri, li definisco così; lo trovo riposante e poco invasivo.

 

A Padova è nato da poco un Centro molto importante: il Centro Mariasilvia Spolato. Ci spiega cosa è, perché è una conquista?

Il Centro antidiscriminazioni “Mariasilvia Spolato” è stato realizzato dal Comune di Padova grazie ai finanziamenti di Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziali), in collaborazione con le associazioni Arcigay Tralaltro Padova APS, Sat Pink Aps e Boramosa Aps. In Italia sono pochissimi i centri antidiscriminazioni dedicati prettamente alla comunità LGBTQI+ e il centro inaugurato il 2 maggio 2022 è l’unico di tutto il Nord–Est.

 È ovviamente una conquista ma è una conquista amara perché mette in evidenza come in Italia sia indispensabile una legge contro i crimini d’odio che contrasti gli atti di discriminazione o violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, o sull’identità di genere.

Per chi non ricordasse chi fu Mariasilvia Spolato, vale la pena andare a rivedere la sua storia: basta fare una breve ricerca sul web. Fu una docente universitaria di matematica che per prima fece outing rispetto alla propria omosessualità e le fu impedito di insegnare. La sua vita dopo di allora fu una vita di chi viene messo ai margini, è un destino che non vogliamo si abbatta mai più sulle nuove generazioni.

Il centro Mariasilvia Spolato avrà dunque lo scopo di fornire protezione, aiuto e sostegno concreti a persone Lgbt+, vittime di discriminazioni, maltrattamenti, violenze e abusi.

 

 

Un’ultima domanda. Secondo lei, cosa può fare oggi, chi si occupa di salute mentale per le persone Lgbt+ e per i loro familiari?

Credo che gli operatori dei servizi e i liberi professionisti dovrebbero fare un percorso di conoscenza che vada oltre la preparazione universitaria e specialistica. Intendo un percorso che consenta a chi si occupa di persone LGBTQI+  di interiorizzare il concetto di uguaglianza nella differenza e il concetto di una accoglienza che non deve essere gerarchico.

La voce che sempre più forte arriva dalla comunità LGBTQI+ insiste sull’importanza di depatologizzare queste esperienze di vita. Per decenni essere omosessuale faceva diagnosi e, anche se ora l’OMS dà indicazioni contro la patologizzazione, nell’atteggiamento di molti clinici restano preconcetti, magari inconsapevoli.

Ancora oggi ci sono pazienti che, chiedendo aiuto per un momento di difficoltà, si trovano davanti a professionisti che pensano che essere LGBTQI+ implichi necessariamente che ci sia una malattia mentale sottostante.  Sentirsi messi, di default, in una categoria di patologia mentale, allontana le persone dal comprendere sé stesse, potenzia lo stigma ed è conseguentemente fonte di ulteriori discriminazioni ed esclusioni.

Sarebbe bello poter sempre parlare di Salute Mentale e non di Malattia Mentale: in fondo le persone – tutte le persone- hanno momenti in cui non sono in equilibrio e sarebbe opportuno che ciascuno potesse riconoscere nella psicoterapia un sostegno, senza pregiudizio.

 

Grazie per questa condivisione.

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

 

Etta Andreella, Padova

etta.andreella.ea@gmail.com

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Intervista realizzata in occasione della Giornata mondiale contro l'omo-trans-fobia 2022.

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