The Köln Concert

O dell’ImprovvisAzione

di Cristiano Lombardo

It was a dark and stormy night

“Era una notte buia e tempestosa…”. Cominciano così tutti i racconti dell’improbabile Snoopy-scrittore, il brachetto nato dalla geniale mano di Charles Schulz. Eppure, quella di cui mi accingo a parlare, buia e tempestosa lo era davvero: era una fredda e piovosa notte di un venerdì 24 gennaio di 50 anni fa (1975).

Il ventinovenne pianista jazz Keith Jarrett avrebbe dovuto suonare a Colonia, invitato da una delle più giovani organizzatrici del tempo: Vera Brandes, all’epoca appena diciasettenne, attirato – si dice – dall’idea di poter mettere le mani su un pianoforte Bösendorfer 290 Imperial. La cosa di per sé era già strana, visto che era solito esibirsi e registrare solo con strumenti Steinway, ma questo pianoforte all’epoca era l’unico modello al mondo a possedere 97 tasti, cioè 8 ottave complete, contro gli 88 presenti sulle tastiere dei normali pianoforti da concerto, e sicuramente Jarrett non vedeva l’ora di confrontarsi con quel gigante, capace di scendere a registri bassissimi, per poi salire fino ad altezze cristalline.

Tuttavia fin dall’inizio gli auspici non erano stati dei migliori, già da diversi giorni soffriva di un brutto mal di schiena che non gli dava requie, ragion per cui dopo avere terminato il concerto precedente, svoltosi a Zurigo, aveva deciso di rinunciare al biglietto aereo e di noleggiare un’auto per raggiungere Colonia, distante oltre 500 km.

A dividere una Renault 4 – non proprio una comoda auto di lusso – c’erano oltre a lui: la prima moglie Margot Erney, il suo primo figlio e il fidato Manfred Eicher, amico di lunga data, nonché fondatore della nota etichetta discografica ECM con la quale Jarrett pubblicò più di 60 dischi lungo l’arco di tutta la sua carriera.

Come tale kermesse, della durata di almeno 5 ore, potesse sembrargli più riposante rispetto ad un tranquillo viaggio in aereo, non è dato sapere, possiamo solo ipotizzare che durante il tragitto siano state organizzate numerose soste per sgranchire gambe e… schiena. Ma Jarrett, c’è da aggiungere, non era affatto nuovo a simili prese di posizione e bizzarrie, ed era altresì ben noto per il suo carattere volubile e spigoloso.

Come prevedibile il viaggio fu un incubo anche a causa del tempo, visto che faceva molto freddo e pioveva senza sosta, e così quando giunse a Colonia il nostro era provato, stanco e di sicuro non del suo umore migliore (cosa peraltro non infrequente, visto che in passato non si era fatto troppi scrupoli ad annullare interi concerti a causa del pubblico ‘indisciplinato’). Insomma c’erano tutte le premesse affinché la serata si trasformasse in un totale fiasco, e questo non era che l’inizio…

 

Una serie di sfortunati eventi

A questo punto finisce la prima parte della nostra storia, che da qui in avanti assumerà i contorni variegati del mito, trasformando quella notte in qualcosa di magico, unico e irripetibile. Jarrett, già molto sofferente per la schiena e non meno insofferente per tutto il resto, era arrivato nel tardo pomeriggio alla sala da concerto ed era stato colto da sgomento nel constatare che sul palco del Teatro dell’Opera vi era sì un Bösendorfer, ma un modello decisamente più piccolo, in condizioni visive e sonore pessime, con tasti che si incastravano e pure stonato, non certo quello che lui aveva richiesto.

Vera Brandes in un’intervista rilasciata molti anni dopo raccontò che il pianoforte Bösendorfer Imperial era regolarmente giunto il giorno stesso alla sala da concerto[1], ma non ve ne era più traccia, non si sapeva dove fosse stato scaricato, cosa non del tutto inspiegabile visto che le maestranze del teatro essendo venerdì avevano smesso di lavorare prima.

Dapprima si era provato a mettere una pezza a quella pietosa situazione accordando lo strumento che c’era a disposizione meglio che si poteva. Forse non tutti sanno che quando un pianista di questo livello, come pure un pianista di repertorio classico si prepara ad un’esibizione, accordare uno strumento complesso come un pianoforte, non significa soltanto intonarlo affinché ad ogni tasto corrisponda una nota ‘esatta’, un accordatore per pianoforte fa molto di più, discute ad esempio con il solista sul tipo di suono, sul carattere da dare allo strumento. Per esempio segnatamente al repertorio che verrà eseguito, lavora sui pedali e tiene conto dell’acustica della sala da concerto, in modo da enfatizzare certi aspetti del timbro sonoro rispetto ad altri.

Jarrett già palesemente irritato per l’accaduto aveva fatto alcuni tentativi con l’accordatore per tirare fuori quanto di meglio da quel ‘codino’[2], ma dopo ore di tentativi, col pubblico in attesa, si era arreso, giudicando quel pianoforte palesemente inadeguato, con tastiera e pedali imprecisi e i registri grave e più acuto troppo esili e inconsistenti. Aveva pertanto comunicato all’organizzazione che non si sarebbe esibito.

A quel punto, la povera Vera – che nel frattempo si era data da fare per cercare il Bösendorfer Imperial senza venirne a capo – gli aveva chiesto di fermarsi a cena e di posticipare la partenza nella speranza di fargli avere comunque uno strumento all’altezza. Tuttavia proprio l’accordatore che aveva lavorato il pomeriggio con Jarrett le spiegò che, ammesso che lo si trovasse, nessuno avrebbe messo a repentaglio 45.000 marchi dell’epoca (circa 80.000 €) per portargli un pianoforte che – con tutta quell’acqua e quel freddo – si sarebbe sicuramente danneggiato. A questo punto nessuno resterà sorpreso nel sapere che anche la cena era stata un fiasco, Jarrett mangiò poco e male…

Quello che venne dopo è ancor più incerto e non meno ammantato di leggenda: c’è chi dice che la Brandes fu così insistente che alla fine semplicemente Jarrett cedette, altre voci invece parlano di una sorta di scena da film drammatico con il pianista già in macchina insieme alla famiglia e all’amico, che vengono raggiunti sotto la pioggia battente dalla povera Vera, che – attanagliata dall’angoscia – supplica il maestro di esibirsi ugualmente. Naturalmente proprio come accade in analisi ognuno ha il suo ricordo, la sua versione, non esiste una verità assoluta, che resta – ontologicamente – per sua stessa natura inconoscibile.

—-

[1] In un’altra versione della storia invece il pianoforte richiesto non era mai giunto al Teatro dell’Opera a causa del maltempo.

[2] Nomignolo un po’ spregiativo con cui vengono spesso chiamati piccoli pianoforti a coda o a mezza coda con cui si esercitano cantanti, coro e ballerini.

Il concerto della vita

E così anni dopo in un’intervista Jarrett ebbe a dire: “…avevano tutto pronto. E ho iniziato a pensare: ‘Lo farò’. Ricordo di aver alzato il pugno in aria mentre uscivo dal backstage. Ho semplicemente guardato Manfred [Eicher] e [ho detto]: ‘Potere!’ o qualcosa di simile. Ciò che accadde con questo pianoforte fu che fui costretto a suonare in quello che all’epoca era un modo nuovo. In qualche modo sentivo che dovevo far emergere qualunque qualità avesse questo strumento”[1].

Questa fu una delle poche concessioni che il maestro fece su quel concerto, verso il quale mantenne sempre un misto di fastidio e risentimento, per non dire di odio. Credo che non potesse sopportare che qualcosa di mitico e grandioso fosse scaturito durante un suo concerto e che egli ne fosse stato solo in parte l’artefice. Insomma che qualcosa di inaspettato e pure un po’ casuale, avesse travalicato persino la sua tecnica sopraffina mettendo in ombra il personaggio e con esso l’aspetto più narcisistico della sua arte, sulla quale esigeva un controllo assoluto.   

Jarrett aveva all’epoca solo 29 anni, ma alle spalle già una carriera di grande successo, cominciata nientemeno che con la presenza nel sestetto di Miles Davis e proseguita poi tra collaborazioni eccellenti e progetti personali ugualmente importanti, come il suo trio, condiviso dal 1982 con i fedelissimi Gary Peacock e Jack DeJohnette. Al tempo del concerto di Colonia aveva già intrapreso esibizioni soliste interamente basate sull’improvvisazione, si sedeva al pianoforte e a partire da alcune note costruiva una frase musicale intorno alla quale cominciava a ruotare con delle variazioni, spesso molteplici che andavano a sovrapporsi con grande maestria. Nessuno spettacolo era mai uguale all’altro, alcuni erano limpido sfoggio di abilità tecnica estrema, altri erano frutto di una ricerca di ritmo prima ancora che di suono.

—-

[1] La leggenda del Koln Concert – Tracce di Jazz

L’Impromptu in musica e in psicoanalisi

Come analista, oltre che come appassionato di musica mi chiedo: cosa era successo quella particolare notte a Colonia? Che cosa ha reso quel concerto così speciale rispetto ad altri, comunque bellissimi, di quella tournée e di tutto il suo repertorio? La risposta che mi verrebbe da dare è che a volte, anche in un’attività basata sull’impromptu – sull’improvvisazione – come la musica, e in particolare il jazz, possono intervenire una quantità infinita di dettagli e “incidenti” totalmente imprevedibili a variarne estemporaneamente lo svolgimento.

Ma non succede forse lo stesso anche durante una seduta di psicoanalisi? Anzi, potremmo persino arrivare a chiederci: può esserci vera psicoanalisi senza improvvisazione?

La domanda, seppur provocatoria nella sua formulazione, mi pare di grande attualità, visto che mai come in questo momento la maggior parte degli indirizzi psicoterapici non psicoanalitici si pone come obiettivo la standardizzazione di un metodo che permetta l’applicazione di un protocollo clinico ripetibile ad ogni paziente. D’altro canto, attualmente, uno dei maggiori equivoci epistemologici, deriva proprio dall’idea di scientificità legato al paradigma della ripetibilità, e per contro relega il concetto di “improvvisazione” – nel migliore dei casi – all’ambito dell’arte.

Eppure non è sempre stato così, e se ora il termine improvvisazione sottende significati assai poco lusinghieri, come raffazzonato o allestito di fretta alla bell’e meglio, a guardare l’etimo della parola ciò che si scopre è semplicemente: “non visto prima” (dal lat. in pro e visus, part. pass. di vidēre). Mi sono chiesto: non è forse questo il modo in cui ogni analista si dispone all’ascolto del materiale portato dal paziente? Senza memoria, senza desiderio e senza comprensione era la sfida, l’iperbole tracciata da Bion (1970).

Prima di lui fu Freud ad indicare la strada del metodo delle libere associazioni e dell’attenzione liberamente fluttuante come unico ascolto possibile dello spettro comunicativo del paziente nella sua interezza, inconscio compreso. Ne L’Io e l’Es egli scrive che l’analista deve «arrendersi all’attività mentale inconscia, mettendosi in uno stato di attenzione fluttuante, per evitare, per quanto possibile, riflessioni e costruzioni di provenienza conscia, senza provare a fissare nei suoi ricordi qualcosa e, da questi significati, capire qualcosa dell’inconscio del paziente attraverso il proprio inconscio» (1923b, p. 239).

Prima che la musica conoscesse una sua forma di scrittura veniva tramandata oralmente e le composizioni si imparavano per esperienza diretta. Fin dalla Grecia Arcaica (I sec. A.C.) temi musicali venivano cantati dagli Aedi, questi ultimi per tradizione erano ciechi in quanto non dovevano essere distratti dalla realtà esterna concentrandosi esclusivamente su quella interna, imparando cioè a vedere con ‘gli occhi dell’anima’ (in analisi una soluzione – si spera – meno drastica della cecità, ma non meno efficace è l’uso del lettino, che permette al paziente di concentrarsi sul suo mondo interno).

Oltre gli Aedi vi erano anche i Rapsodi, i quali nel cantare usavano accompagnarsi con la lira, successivamente sostituita da un bastone. Quest’ultimo conferiva autorità alla figura del cantore il quale se ne serviva per battere un ritmo, oppure per indicare persone tra il pubblico e nel brandirlo, conferire ulteriore drammaticità alla scena. In altre culture ancora il bastone veniva chiamato scettro o bacchetta e presso i popoli celtici la figura che lo impugnava veniva chiamato Bardo.

Ciò che mi interessa sottolineare in questa sede è che la vera dote che accomunava tutte queste importanti figure mistiche era la capacità di improvvisazione. A partire da una storia più o meno nota il cantore poteva, a seconda delle occasioni e dell’uditorio, soffermarsi su certi aspetti della storia invece che su altri, variandone continuamente l’espressione. Nell’antichità, non solo la capacità di improvvisazione era tenuta in gran considerazione, ma veniva vista come simbolo di vicinanza con la divinità interna. Era in pratica una dote unica che nasceva da una conoscenza assoluta della materia in oggetto, che non si ripeteva mai identicamente grazie alle doti di estemporaneità dei cantori.

Hic et nunc e improvvisazione

Nel corso del tempo l’eredità musicale di questi ultimi è stata raccolta dal gospel, dal blues e infine dal jazz, che ha elevato l’improvvisazione musicale a stato dell’arte. Non ci deve sfuggire nemmeno per un momento infatti che, a dispetto degli attuali significati deteriori riferiti al termine “improvvisare”, occorrono invece una conoscenza pressoché assoluta della teoria e della tecnica musicale per poter interpretare una melodia allontanandosi dal suo tema fin quasi ad uscirne, per poi rientrarvi improvvisamente: un divagare e ‘perdersi’ per poi ritrovarsi. Un po’ come guizzi di delfini che si rincorrono lungo la scia di schiuma della prua di una nave, giocando intorno ad una rotta precisa ma senza compiere mai traiettorie prevedibili.

Non è questo il senso del lavoro analitico nell’hic et nunc della seduta? Una singolarità – come si direbbe in fisica – irripetibile ed unica. La possibilità all’interno del setting/standard di seguire le infinite traiettorie associative di analista e paziente come variazioni sul tema, fino ad afferrare un filo, un tema, ri-trovando un motivo.

Jarret era già un improvvisatore eccelso, ma la sua rigida struttura di personalità e il suo non proprio trascurabile ego, durante queste esibizioni lo facevano sprofondare in una dimensione che potremmo definire ‘autistica’, chiamato a cimento unicamente dal suo stesso narcisismo, in simbiosi con la sua estensione musicale – il pianoforte – e spesso completamente ignaro del pubblico.

Quella sera di settembre del 1975, però per la prima volta si trovò di fronte all’inaspettato: lui che non lasciava mai niente al caso e che amava – usiamo questo eufemismo – avere un controllo totale sull’evento, si era ritrovato invece in balia di una ‘serie di sfortunati eventi’.
C’è un bell’articolo di Giovanni Berti Ceroni intitolato Interruzioni fortuite del setting, nel quale l’autore prende in esame le variazioni del setting causate da avvenimenti accidentali e imprevedibili che si insinuano nella trama del lavoro psicoanalitico, spesso alterando il corso di una o più sedute, destinate a diventare – col senno di poi – autentici momenti di svolta.

Quel venerdì sera molto probabilmente ha rappresentato una sliding door nella carriera di Jarrett, quando alla fine si è seduto sul panchetto e ha appoggiato le mani sulla tastiera è successo qualcosa. Di quel concerto non esistono foto, per l’ovvio motivo che oramai nessuno si aspettava che si sarebbe tenuto, e dobbiamo unicamente all’intuito di Manfred Eicher e alla sua pervicacia che ne esista una registrazione, il che fa sorridere visto che il disco del concerto ha venduto più di 3 milioni e mezzo di copie, ed è uno dei più venduti dell’intera storia del jazz.

Ascoltare per sentire

Ciò che è possibile sentire – e sottolineo sentire, non soltanto ascoltare, tra le note – è l’inizio di un dialogo tra l’artista e il suo strumento: le prime battute sono caute, quasi incerte e fanno pensare all’incipit di una conversazione tra sconosciuti. Il pianoforte non è una mera protesi del musicista, una sua estensione narcisistica, ma è un altro-da-sé, coi suoi difetti – molti – ma anche qualche pregio.

Jarrett si siede e suona qualche nota, 3 o 4, qualcuno nelle prime file ride essendosi reso conto che sono le stesse note di cui è composto il jingle del teatro che pochi istanti prima aveva invitato gli spettatori a sedersi ai propri posti perché il concerto stava per iniziare. Restando sulla parte centrale della tastiera di quel pianoforte, voleva evitare i registri della gamma bassa e di quella alta, i meno performanti dello strumento, ma per farlo doveva cambiare il suo modo di suonare, ricco di escursioni tecniche e tonali.

Col lento progredire delle note aumenta anche la capacità di dialogo tra i due, fin quando col suo inconfondibile stile (odioso per qualcuno) Jarrett comincia a cantare “sopra” alle note suonate, ormai un tutt’uno col pianoforte, come se le corde di quest’ultimo fossero diventate le sue corde vocali, e come se il suo piede – che dal minuto 7 e 20” comincia a battere sul palco – fosse diventato il battito di un cuore.

Quel che segue va solo ascoltato e sentito, non ci sono parole che possano descriverlo, come accade a volte quando ci destiamo dal sonno con un sogno in testa e sappiamo che le parole che abbiamo non basteranno a raccontare l’inconscio.

Mi piace pensare che questo possa anche essere il suono di una buona seduta di psicoanalisi, magari funestata da contrattempi e difficoltà ma nella quale – infine, anche adattandosi e improvvisando – per analista e paziente diventa possibile trovare un filo, il “motivo” di un in-tendersi reciproco.

 

 

Bibliografia

Uno dei più famosi concerti della storia del jazz rischiò di non farsi – Il Post

Come nacque una leggenda: il Köln Concert di Keith Jarrett | Il Bo Live UniPD

La leggenda del Koln Concert – Tracce di Jazz

Bion, W. R. (1970). Attenzione e interpretazione. Roma, Armando editore, 2010.

Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.

Cristiano Lombardo, Padova e Conegliano

Centro Veneto di Psicoanalisi

cristiano.iphone@gmail.com

Condividi questa pagina:

Centro Veneto di Psicoanalisi
Vicolo dei Conti 14
35122 Padova
Tel. 049 659711
P.I. 03323130280

Servizio di Consultazione