Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
Titolo: “Reflection” (“Riflesso”)
Dati sul film: regia di Valentyn Vasyanovych, Ucraina, 2021, 125′
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=8yt4oPpeMSA
Genere: guerra, drammatico
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
(Fernando Pessoa)
Il cinema talvolta ci costringe a guardare quello che non vorremmo vedere, come accade con il film “Reflection”, proiettato in Concorso a Venezia, durante la scorsa 78esima Mostra d’Arte Cinematografica. Difficile tollerare la visione di alcune scene di estrema crudezza, che rimangono impresse nella memoria in modo indelebile. Tuttavia, se ne ricordano bene anche altre, di rara intensità e tenerezza. La forza della creatività e della riparazione si pone come fronte di resistenza alla forza della distruttività e dell’alienazione.
La guerra mostrata dal regista ucraino Valentyn Vasyanovych, che questo film lo ha girato, sceneggiato e montato, quella tra Russia e Ucraina orientale iniziata nel 2014 — preludio di quella scoppiata questo febbraio — con la violenza, le torture, la morte, l’angoscia e il dolore dei sopravvissuti, per me era stata fino a quel momento, lo scorso settembre, sconosciuta, un riflesso lontano, come tante altre nel mondo. Si combatte dalla Siria allo Yemen, dall’Etiopia al Mali, fino al Nagorno Karabakh e passando, fra gli altri, dalla Libia alla Somalia https://www.lastampa.it/esteri/2022/03/09/news/non_solo_l_ucraina_ecco_i_dieci_conflitti_dimenticati_nel_mondo-2870626/. Ma nella nostra quotidianità, anche se è tutto davanti agli occhi, si può diventare ciechi: le immagini che provengono dai programmi televisivi e dai social procurano un senso di irrealtà, arrivano a oscurare e confondere. La pervasività delle notizie sulla pandemia ha offuscato per mesi e mesi ogni altra notizia. Così, “la finzione” del cinema restituisce consistenza di realtà a ciò di cui vogliamo ignorare l’esistenza. Non solo quindi a questa guerra, ma a tutte quelle presenti e passate.
Le immagini di questo film infatti non danno scampo, nel loro susseguirsi lento ma inesorabilmente incalzante, piene di silenzi e rumori, suoni, grida, rare voci che dicono poche parole e nessuna melodia le accompagna. Impregnate della disumanità e di quanto c’è di profondamente umano nella guerra, la fanno sentire addosso allo spettatore.
In me quella prima visione avevano suscitato di “riflesso” sia un desiderio di conoscenza, sia l’istinto alla rimozione, rafforzato dal fatto che — durante la scorsa edizione della Mostra — sono stati presentati film con tematiche analoghe, tutti ucraini, polacchi, russi. E infatti ho archiviato, non ci ho più voluto pensare. Prova ne è che il report sulla Mostra che scrivo ogni anno e pubblico su www.spiweb.it per la prima volta è rimasto monco, ne prospettavo un seguito mai scritto. Tra i due grandi temi che avevo individuato — quello del femminile, che ruota intorno alla maternità nelle sue molteplici vicissitudini — e quello del maschile — fatto di padri scomparsi, guerra, torture, violenza implacabile — ho scelto di trattare solo il primo (https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/78-mostra-darte-cinematografica-di-venezia-report-di-e-marchiori/).
Oggi, a poche settimane dall’inizio dell'”operazione speciale” messa in atto da Putin, credo che le motivazioni che mi ha fatto allora propendere per quella scelta siano complesse e profonde. Prima fra tutte che i film “al femminile”, i temi della fecondità, della vita, della possibilità di autodeterminazione della donna sono per me familiari e conosciuti, anche nelle loro declinazioni di mistero e sofferenza. Gli altri, che ho definito gli difensivamente del “maschile”, mi avrebbero costretta a esplorare territori troppo oscuri, crudeli e dolorosi.
Ora, che la guerra è tanto vicina ed è impossibile volgere lo sguardo altrove, rivedere il film al cinema — è stato distribuito nelle sale in questi giorni — mette i brividi. Appare profetico, e necessario a incitare a tenere gli occhi e la mente aperti, a non smettere di pensare.
“Reflection” ferma il tempo della guerra in un presente infinito e estenuante, la rappresenta nel suo distruggere e condizionare le vite delle persone, la colloca nei corpi straziati e nelle profondità dell’essere umano, entrambi denudati e esposti. Le riflessioni di Einstein e Freud contenute nel famoso carteggio del 1932 “Perchè la guerra?” dicono quanto basta per rendere superflui i fiumi di parole e di inchiostro che ci travolgono in questo periodo per rispondere a questa domanda.
L’incipit di “Reflection” è la scena della festa di compleanno di Polina (Nika Myslyts), figlia del protagonista Serhyi (Roman Lutskyi) nella finzione e del regista nella realtà. I bambini giocano in una stanza a paintball, vestiti con tute bianche e colpendosi con palline di gelatina contenenti vernice colorata, sparate da armi giocattolo. Lo spettatore può assistere alla battaglia sullo schermo, al di qua di una parete di vetro, con la sensazione di poter essere colpito dalle munizioni che vi si spiaccicano in macchie colorate con un rumore sordo e inquietante, mentre i bambini fingono di cadere morti. Sono i primi riflessi della guerra, che trasforma il gioco in una carneficina, la vernice in sangue. Le sequenze in cui compaiono vetrate e vetri infranti ricorrono durante tutto il film, sia come il simbolo della distanza tra chi osserva e chi è osservato, sia della necessità umana di mettere in atto, di fronte all’orrore, meccanismi di difesa arcaici come la dissociazione e la derealizzazione, fino alla frammentazione.
Al di qua di quella vetrata ci sono entrambi i “padri” di Polina: Serhyi, chirurgo impegnato a salvare le vite dei soldati feriti, e l’amico Andriy (Andriy Rymaruk), ora compagno della ex-moglie Ohla (Nadiya Levchenko), che gli sta raccontando cosa accade al fronte dove sta combattendo. Serhiy, partito a sua volta volontario, viene catturato e risparmiato in quanto medico in grado di constatare la morte dei prigionieri torturati. Per la sua vita, paga il prezzo altissimo non solo di subire violenze e umiliazioni, ma anche di esserne testimone impotente, anche quando la vittima è Andriy. Lo spettatore assiste agghiacciato alle scene che si svolgono nei luoghi desolati attorno ai combattimenti: le inquadrature sono fisse, le immagini si congelano in quadri dai colori freddi, cupi; le scene lentissime sono girate negli spazi clustrofobici delle celle o all’aperto, in non-luoghi agorafobici.
Tornato a casa grazie a uno scambio di prigionieri, a Serhyi mancano le parole: non riesce a dire a Polina e a Ohla che Andry è stato ucciso. Tuttavia, riesce a far ritrovare — identificandosi in una versione maschile di Antigone — i resti dell’amico fraterno, perchè ne sia data degna sepoltura e sia possibile il lavoro del lutto. Con la sua presenza e la sua vicinanza affronta con Ohla, e soprattutto con Polina, la presa di coscienza della morte e il dolore della perdita.
La narrazione, in questa seconda parte del film, è più fluida, e si sviluppa attorno a un altro riflesso: l’impronta del corpo di un piccione schiantatosi con violenza — ingannato dal riflesso del cielo — sulla vetrata della finestra della casa di Serhyi.
Racconta il regista che anche questa, come quella della guerra, è una storia vera, vissuta da lui assieme alla figlia di dieci anni: “Le preoccupazioni di mia figlia, le sue domande, le sue aspettative per una miracolosa risurrezione, la negazione per l’irreversibilità di questo evento e i tentativi di capire la morte dal punto di vista di una bambina è ciò che mi ha spinto a scrivere una storia sul rapporto tra padre e figlia nel bel mezzo del lutto per una persona amata […]. È una storia sulla realizzazione, da parte di bambini, che la vita umana è limitata. Ma è anche una storia sulle responsabilità degli adulti nei confronti dei propri cari, di se stessi e del mondo intero in cui realizzano il loro potenziale. Il bambino e l’adulto si aiutano a vicenda per riuscire a capire questo mondo crudele e bellissimo, così simile all’impronta del piccione sul vetro” (https://www.ciakmagazine.it/news/reflection-trailer-del-film-di-valentyn-vasjanovyc-ambientato-durante-la-guerra-del-donbass-nel-2014/).
Quella sagoma alata “bellissima e terrificante” è anche il riflesso del trauma indelebile, che non si può tentare di cancellare, rischiando di espanderlo in una macchia informe. È necessario guardare in faccia la morte e la sofferenza — in questa “società senza dolore” — per poter provare dolore verso l’Altro e avere così accesso al dolore dell’Altro (Han, 2020).
Alla fine, sono altre ancora le impronte che contrastano la morte e la distruzione: sono quelle dei passi delle persone care e conosciute — quelle presenti e vive, e anche quelle assenti e morte — che si possono riconoscere grazie all’ascolto attento, alla cura e all’attenzione di cui sono impregnati quei legami affettivi che si consolidano nel dolore stesso e che consentono la sopravvivenza della vita psichica.
Bibliografia
Freud S. (1932). Perchè la guerra? (Carteggio con Einstein). O.S.F., 11.
Han B. (2020). La società senza dolore. Perchè abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite. Torino, Einaudi (2021).
Elisabetta Marchiori, Padova
Centro Veneto di Psicoanalisi
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