Rapsodia in Blue

di Cristiano Lombardo

Jacob Gershowitz aveva soltanto 24 anni quando uno dei più famosi direttori d’orchestra da ballo dell’epoca, Paul Whiteman, gli commissionò un’opera jazzistica orchestrale la cui prima si sarebbe tenuta il 12 febbraio del 1924, cioè solo 4 settimane dopo. Whiteman all’epoca era già noto come “re del jazz” e sebbene molti storici e critici musicali oggi non siano d’accordo con questa definizione, mi sento di dire che invece quel soprannome spontaneo avesse in sé qualcosa di vero. La scena musicale degli anni 20 negli Stati Uniti era in grande fermento, almeno tanto quanto lo era la società americana di allora, Whiteman aveva fondato una di quelle che poi sarebbero state chiamate big band, formazioni musicali a metà tra una band propriamente detta e un’orchestra classica. Anche il repertorio era a cavallo tra le due, non solo da band e non propriamente orchestrale ma, almeno nelle intenzioni, con il meglio di entrambe.

Ritornando al nostro Jacob, come si evince dal cognome, suo padre Moishe era uno dei tanti emigrati che erano arrivati nella terra dei sogni con il miraggio di una vita migliore[1], là aveva conosciuto un’altra emigrata, Rose e dal loro matrimonio erano nati quattro figli, di cui il nostro era il secondogenito. Jacob cominciò a mostrare interesse verso il pianoforte a circa dieci anni, iniziando a suonarlo da autodidatta, a quindici lasciò la scuola per dedicarsi alla carriera di musicista presso la Jerome H. Remick and Co. meglio nota come Tin Pan Alley.

 

 

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[1] La famiglia paterna, Moishe compreso, proveniva da San Pietroburgo, egli conobbe la sua futura moglie Rose, anch’ella immigrata russa, a Brooklyn. Dalla loro unione nasceranno: Ira, George, Frances e Arthur.

 

Vorrei aprire qui un inciso riguardo all’uso dei nomi in America, allora come ora[1]: Jerome H. Remick and Co. era la ragione sociale dell’azienda in questione, ma suonava tremendamente male, Tin Pan Alley era molto più eufonico, anzi, quasi onomatopeico. Gli “alley” sono infatti i tipici vicoli delle città costiere statunitensi come New York, caratterizzate da un brulicare incontrollato e disordinato di ogni sorta di attività e di persone. All’epoca era facilissimo sentire attraverso le finestre aperte delle sale prove il suono dei pianoforti che si mescolavano insieme ai più vari rumori provenienti dalla strada, questo dava luogo a una stramba cacofonia riassumibile proprio nell’espressione “Tin Pan Alley”, letteralmente “vicolo della padella stagnata”, alludendo con ciò al suono prodotto percuotendo questo tipo di padelle con un mestolo di legno. Nella terra dei sogni più che altrove: nomen omen. Se non si ha un nome “che funziona”, o se la tua canzone, il tuo libro, il tuo film, non hanno un titolo degno di nota, sarai probabilmente destinato all’oblio.

 

La Tin Pan Alley si occupava di musica “popolare”, una musica che rifletteva le mode e le influenze dell’epoca, miscelando il gusto europeo a quello nordamericano. Ma non era soltanto questo il retaggio del neoassunto Gershowitz, nonostante avesse appena quindici anni e fosse un autodidatta all’inizio della sua carriera, Jacob conosceva ed era in grado di suonare tutti i generi più in voga all’epoca, come il jazz e il blues senza disdegnare affatto escursioni nel campo classico. When You Want ‘Em You Can’t Get ‘Em fu la sua prima canzone originale ad essere pubblicata e ad ottenere una certa notorietà, così – forte di quel successo – a soli diciotto anni cominciò a lavorare come compositore nei musical di Broadway per la ragguardevole cifra di trentacinque dollari a settimana.

 

Nel frattempo Whiteman che era già a modo suo un innovatore, aveva cominciato a introdurre nella scrittura orchestrale variazioni ritmiche improvvise e modulazioni, ibridandole con gli stilemi tipici di un certo jazz dell’epoca. Ascoltando un’operetta dal titolo di Blue Monday volle conoscerne il giovane autore, dopodiché gli commissionò la scrittura di una composizione orchestrale ben più ambiziosa, con l’imperativo di terminarla al massimo entro un mese, data in cui si sarebbe tenuta la prima assoluta all’Aeolian Hall di New York.

 

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[1] Naturalmente stiamo parlando di un vezzo tipicamente statunitense, al quale però ho preferito il più generico America intendendo così ricordare l’immagine indistinta e idealizzata di “terra promessa” che gli Stati Uniti hanno a lungo esercitato soprattutto tra le genti povere provenienti da tutto il mondo, Italia compresa.

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Secondo inciso: il compositore in questione ora si faceva chiamare George Gershwin. Aveva rinunciato al suo vero nome, Jacob Bruskin Gershowitz, per assumerne uno che suonasse meglio, che fosse più di successo, più… “americano” – qualunque cosa possa significare questo – visto che gli Stati Uniti d’America sono sempre stati terra di migranti e necessario crogiolo di razze. Ritornando a noi non intendo minimamente stigmatizzare l’operato del giovane Gershwin, si trattava di una pratica adottata dalla quasi totalità degli artisti e dei musicisti dell’epoca, soprattutto quando la lingua d’origine indicava così chiaramente la provenienza di un’etnia[1], in fondo non dobbiamo dimenticarci quello che sarebbe accaduto da lì a poco nella civilissima Europa con le leggi e le relative persecuzioni razziali adottate dai regimi totalitari dell’epoca.

 

Quel che si sa è che dopo circa tre settimane dalla commessa Gershwin aveva già scritto quasi interamente l’opera, la chiamò Rhapsody in Blue. Al di là del genio di Gershwin che lo portò a una scrittura “di getto”, quello che possiamo aggiungere è che l’autore probabilmente lavorò a partire da una sua composizione preesistente, American Rhapsody, scritta per due pianoforti, la quale successivamente, anche grazie alla partecipazione di Ferde Grofé – arrangiatore di fiducia di Whiteman – sarebbe diventata una rapsodia per pianoforte e orchestra. È un compito impossibile descrivere a parole una delle massime opere musicali di tutti i tempi senza dire cose già dette o banali, ma giusto per dare l’idea della grandezza della composizione si può dire che essa è stata oggetto di centinaia se non migliaia di esecuzioni, elaborazioni, citazioni, studi e improvvisazioni. La troviamo come pezzo di apertura e di chiusura della colonna sonora di Manhattan di Woody Allen del 1979, su di essa si basa un intero episodio del film Fantasia 2000 della Disney ed è anche utilizzata per l’entrata in scena di Leonardo Di Caprio ne Il grande Gatsby, la si può ascoltare in diverse serie televisive come Glee o I Simpson e Paolo Villaggio ne campionò l’intro per il tema principale della saga di Fantozzi.

 

La varietà delle citazioni mette in luce qualcosa di affatto scontato, ovvero l’eterogeneità dei possibili utilizzatori e fruitori dell’opera che spaziano da autori e pubblico “colti”, a registi e platee molto più commerciali e popolari. Ma in fondo è questa la cifra e la grandezza dell’opera di Gershwin, essa è stata concepita fin dall’inizio a partire da stimoli che potremmo definire ordinari. Da analista mi verrebbe da dire “nell’hic et nunc” e attraverso libere associazioni sinestesiche scaturite dal suo ascolto del quotidiano, nelle sue parole: «la udii come una sorta di multicroma fantasia, un caleidoscopio musicale dell’America, col nostro miscuglio di razze, il nostro incomparabile brio nazionale, i nostri blues, la nostra pazzia metropolitana».

 

 

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[1] È praticamente impossibile compilare una lista degli attori Hollywoodiani che hanno cambiato nome, per il semplice fatto che questa è stata la norma fin dagli anni 20, come ad esempio con Fred Astaire e Ginger Rogers, passando per Marilyn Monroe fino ad arrivare ai giorni nostri. E se stupisce fino a un certo punto che questo accada nell’ambito cinematografico dove è difficile distinguere tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, colpisce di più che molti cantanti, anche “impegnati” abbiano compiuto la stessa scelta (ad esempio Bob Dylan, anch’egli ebreo come Gershwin).

Siamo nella Grande Mela, nel bel mezzo dei roaring twenties, gli anni ruggenti della bella vita e dell’edonismo sfrenato, la città è tutto un brulicare di vita e godimento, l’economia corre e alla faccia del proibizionismo, per chi sa dove cercarlo l’alcol scorre. Hollywood e Broadway diventano la Mecca del cinema e la musica, complice il moltiplicarsi di teatri, club e locali di ogni genere, si diffonde come mai prima d’ora. A grandi compositori ed esecutori classici si affiancano ora musicisti e scrittori di diversa estrazione e formazione per i quali la contaminazione musicale non rappresenta solo una mera operazione culturale, ma è il punto di partenza di una nuova via artistica, in cui ritmi e sonorità provenienti dalle comunità nere, dal Blues al Jazz, si mescolano con quelle della musica popolare e classica occidentale.

Bianco e nero insieme come sulla tastiera del pianoforte che Gershwin avrebbe suonato personalmente la sera della prima. La locandina dell’evento recitava: “An Experiment In Modern Music” e in prima fila sedevano nientemeno che Fritz Kreisler, Jascha Heifetz, Igor Stravinsky, Sergej Rachmaninov e Leopold Stokowski! Il tempo a disposizione dell’autore fu così poco che non fece in tempo a terminare la propria partitura per pianoforte, alla quale – si dice – apportò continui ritocchi fino a pochi giorni dalla prima, quando iniziarono le prove. Nonostante questo Whiteman dopo aver diretto il concerto pare abbia esclamato: “ma cosa diavolo pensava di migliorare ancora?!?”.

La musica nasceva dal respiro stesso della città, dai suoni delle sirene e dallo sbuffo delle ciminiere dei treni, dal rumore e dalle vibrazioni dei martelli pneumatici frammisti a quello del traffico delle auto e al vociare delle persone, tutte le persone, di tutte le razze, di tutti i luoghi. Lo stesso Gershwin in seguito dirà: «È stato sul treno, con i suoi ritmi d’acciaio, il suo rumore secco e violento che è così spesso stimolante per un compositore (mi capita frequentemente di sentire la musica proprio quando sono immerso nel rumore) che all’improvviso ho sentito – persino visto sul foglio – l’intera Rhapsody, dall’inizio alla fine».

Questa affermazione mi ha colpito molto e per associazione mi è subito venuta in mente un’altra nota composizione per pianoforte e orchestra, solo dopo mi sono reso conto che anche in questo caso si trattava di rapsodie, sto parlando delle Hungarian Rhapsodies di Franz Liszt.
Interrogatomi sulla mia associazione spontanea, mi sono poi ricordato di aver letto che Liszt aveva cominciato a comporle su un suo taccuino di appunti durante i numerosi viaggi in treno effettuati tra il 1839 e il 1840 in terra ungherese. Dal treno e dagli spostamenti in carrozza aveva potuto udire ed essere affascinato, da molta musica popolare suonata da ambulanti e piccole orchestrine lungo le strade cittadine brulicanti di vita, un panorama in fondo non troppo dissimile da quello che aveva ispirato Gershwin.

 

Curiosamente, o forse anche no, proprio come con la Rhapsody in blue, le sue rapsodie creeranno un certo malcontento. Ovvio, a nessuna delle due composizioni si può imputare nulla da un punto di vista tecnico e musicale, oltretutto le due partiture per pianoforte necessitavano di un virtuosismo fuori dal comune per poter essere eseguite, cionondimeno entrambe diverranno oggetto di accesi dibattiti. A Listz non fu perdonato dagli stessi ungheresi di avere “frainteso” l’eredità sonora dei magiari con le musiche popolari zigane e qualche critico si spinse fino a chiedersi che senso potesse avere tollerare contaminazioni di generi musicali così differenti tra di loro[1]. Liszt, nel suo saggio Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie semplicemente spiega: «Ho voluto fare una specie di epopea nazionale della musica zigana. Con la parola “rapsodia” ho inteso alludere all’elemento fantasticamente epico che ho creduto di riconoscere in questa musica. Ognuno di questi frammenti non narra alcun fatto, è vero, ma chi sa intenderlo vi coglie l’espressione di alcuni degli stati d’animo nei quali si compendia l’ideale d’una lezione. I Magiari hanno adottato gli zigani come loro musicisti nazionali. L’Ungheria può dunque a buon diritto avocare a sé quest’arte, nutrita del suo pane e del suo vino, maturata al suo sole e alla sua ombra, e tanto strettamente penetrata nelle sue abitudini da legarsi alle più gloriose memorie della patria».

 

La musica, linguaggio universale, travalica i confini. La sua essenza porta al piacere e alla ricchezza dell’ascolto e del “sentire”. Non stupisce affatto però, ahimè, che né il messaggio di Listz né quello di Gershwin saranno ascoltati. Poco dopo la morte del primo in Europa si attueranno gli scenari politici a partire dai quali si scatenerà la Prima Guerra Mondiale, dopo la morte del secondo, invece – avvenuta purtroppo a soli 39 anni – il mondo dovrà difendersi dalla minaccia nazista, che porterà alla Seconda Guerra Mondiale.

 

Per concludere ora mi piace ritornare su quel treno dove erano nate le ispirazioni delle rapsodie di Gershwin e Listz, metafora di viaggio e di incontro con il nuovo. L’ultima delle mie associazioni, nata mentre ascoltavo Rhapsody in Blue e scrivevo questo testo, è stata con il viaggio analitico.

 

Chiunque abbia fatto un’analisi, magari in un’altra città – e il mio pensiero può andare indifferentemente alla mia, come a quella di molti miei pazienti – sa che cosa intendo: una seduta può cominciare molto prima di avere messo piede nello studio del proprio analista, oserei quasi dire che è una sorta di stato mentale. Può sopravvenire mentre siamo assorti nella contemplazione del panorama dai finestrini del treno, oppure mentre osserviamo distrattamente i passeggeri dell’autobus che ci conduce in seduta, ma di fatto è uno stato della mente sempre attivo, magari in background, come certi processi dei sistemi operativi. Thomas Ogden lo chiama terzo analitico intersoggettivo, ed è creato dall’incontro della mente del paziente e dell’analista, una sorta di spazio virtuale dove si depositano tutte le cose dette e rievocate in analisi ma anche tutte le fantasie inconsce della coppia analitica. Sono sorpreso, e forse amareggiato, del fatto che sempre più l’analisi rischi di diventare il luogo dove i pazienti vengono per parlare solo dei propri problemi, nella speranza quasi magica di essere guariti come da sciamani. Questo problema, a mio avviso legato anche a questioni di setting, come la riduzione del numero di sedute, rende difficoltoso portare la vita stessa nella sua interezza dentro stanza d’analisi – certo, coi suoi dolori – ma anche con i suoi colori, le sue gioie, i piccoli piaceri e gli incontri inaspettati. Insomma, il “rumore” del quotidiano dentro a cui possiamo scorgere la musica, come in una rapsodia.

 

 

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[1] Il compositore americano Arthur Walter Kramer ebbe a dire: «Perché non lasciare il jazz all’ambito cui appartiene? Lì ha dato a milioni di persone il piacere più grande che esse conoscano. Ne sentiranno la mancanza se esso se ne va in cerca di un’altra dimora. Mentre l’arte della musica non ne sentirà affatto la mancanza se il jazz la smette di invadere inutilmente un territorio che è al di là dei suoi limiti oltre che totalmente estraneo alla sua natura».

Cristiano Lombardo, Conegliano e Padova

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