Qualche considerazione psicoanalitica sul suicidio assistito

di Franco De Masi

Presentazione di Patrizia Montagner

Nei giorni scorsi in Italia è accaduto un evento che non aveva precedenti nella storia del nostro Paese: una persona che si trovava in condizione di sofferenza psicofisica intollerabile, ma in grado di “intendere e volere”, ha chiesto e ottenuto il suicidio assistito. Federico Carboni, questo è il suo nome, di 44 anni ha potuto così lasciare questo mondo a casa sua, con le persone che amava vicino a lui.

Che cosa avrà sentito, che cosa avrà provato? Che cosa avranno sentito coloro che gli stavano intorno e lo hanno amato? Che segno lascia tutto questo in loro, e in tutti noi che ne siamo indirettamenteb testimoni?

L’opinione pubblica si è schierata, naturalmente, contro o a favore, a volte con proclami altisonanti, altre, fortunatamente, parlando di dolore e di umanità.

Lo psicoanalista Franco De Masi ci apre ad una riflessione diversa. Non schieramenti e nemmeno interpretazioni che ci porterebbero forse a prendere distanza da un fatto prima di tutto umano. In questo suo scritto egli ci aiuta a pensare , mettendo in primo piano e consentendoci di avvicinarci ad una realtà, quella della perdita delle persone care, ma soprattutto della morte: fatto ineludibile a cui è tanto difficile dare uno spazio di pensiero nella nostra mente.

Lo fa affiancandoci a guardare questa realtà, aiutandoci a sentirne la presenza, suggerendoci forse anche di ascoltare l’eco che essa crea nel quotidiano, come risuona in noi e come fa da accompagnamento armonico al racconto della vita.

Qualche considerazione psicoanalitica sul suicidio assistito

di Franco De Masi

Il punto di vista che voglio illustrare non ha nulla a che fare con il desiderio di schierarsi pro o contro la necessità di arrivare, anche in Italia, a una legge che permetta di lasciare la vita quando, per ragioni oggettive, questa diventa impossibile.

Da psicoanalista voglio solo considerare alcune ragioni che rendono difficile a livello personale accettare un tale atto perché si tratta della morte, un’esperienza difficilmente pensabile dalla mente umana.

 

La vita, che sia la nostra o quella di un altro, è un dono sacro che mantiene vivo il significato dell’esistenza. La morte priva il mondo di significato e per questo è temuta. Quando sopravviene la morte, la perdita riguarda la persona come un tutto. Non sentiamo più la sua voce, non possiamo condividere con lei emozioni o sentimenti, non possiamo più scorgere la sua figura, vederla muoversi, sorridere o piangere. La morte porta via insieme corpo e anima, i pensieri e i movimenti.

A chi subisce la perdita il mondo sembra vuoto, il piacere di partecipare alla vita degli altri viene meno. È come se la morte della persona cara si portasse via un pezzo di noi.  

Se le cose vanno bene, gradualmente riprendiamo il contatto con la vita. Il pensiero della persona perduta non si presenta più come un vuoto che cerchiamo di colmare rievocandola continuamente nei sogni.

Che cosa è avvenuto? È successo che il processo del lutto si è compiuto. La persona amata e perduta, che non esiste più nella realtà esterna, è entrata di nuovo nella nostra realtà interna, nella nostra memoria. Diventa una parte di noi perché le abbiamo perdonato il fatto che ci ha lasciato per sempre e  senza il nostro consenso.

In altre parole, si è indebolito, sino a scomparire, il risentimento inconscio per l’oggetto d’amore che ci ha abbandonato. Se la morte crea un trauma doloroso, l’unica riparazione possibile è quella del processo del lutto che consiste nel far rivivere la persona morta dentro di noi.

 

Finora ho parlato della morte naturale, precoce o tardiva, di una persona cara.

 

Ma che succede quando l’oggetto d’amore è martoriato dalla sofferenza e destinato a scomparire tra limitazioni o dolori impensabili?

 Nel lutto normale sembra esserci una situazione apparentemente più semplice, perché il dolore riguarda solo uno dei protagonisti. Nel caso invece del suicidio assistito lo strazio riguarda entrambi, sia chi ama sia chi viene amato.

Il trauma agisce non solo nell’animo di chi decide di accommiatarsi e di lasciare il mondo, ma anche in chi deve accettare questa impensabile necessità.

Il compito in chi resta consiste nel comprendere e identificarsi con le sofferenze altrui, nel comprendere che senza il corpo, o con un corpo paralizzato, mutilato e dolorante anche la vita psichica diventa impossibile.

Come dicono coloro che chiedono il suicidio assistito, l’anima ha bisogno di volare e non può rimanere imbrigliata in una bara o in un sarcofago.

 

Il suicidio assistito fa parte del DNA del movimento psicoanalitico. Il suo fondatore, Sigmund Freud, aveva stabilito un patto con Max Schur, un medico diventato poi analista, che quando sarebbe venuto il momento, cioè quando il cancro alla bocca l’avesse portato in condizioni estreme, Schur doveva aiutarlo a morire. E così è stato.

Il 21 Settembre 1939 le sue condizioni precipitarono e Freud, che aveva lottato sino alla fine, chiamò Schur, gli disse che era giunto il momento. Il medico gli praticò un’alta dose di morfina e Freud gli raccomandò di avvertire la figlia Anna.

C’è una dignità del morire che Freud ha sempre avuto in mente.

In una lettera al pastore Pfster del 6 marzo 1910 aveva dichiarato che lui sperava di morire con l’armatura addosso come aveva detto e fatto Macbet, morto in combattimento.

E così è stato per lui come dovrebbe avvenire oggi per coloro che vogliono morire con dignità mediante il suicidio assistito.

 

 

Bibliografia

Freud, Pfister. 1909-1939. Psicoanalisi e Fede: Lettere tra Freud ed il pastore Pfister. Torino: Bollati Boringhieri, 1990.

 

Schur. 1972.   Freud in Vita e in Morte. Torino: Bollati Boringhieri, 2006.

 

Franco de Masi, Milano

Centro Milanese di Psicoanalisi

franco.demasi01@gmail.com

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