Presentazione di "Ce que le nazisme a fait à la psychanalyse"

di Laurence Kahn

Ce que le nazisme a fait à la psychanalyse si situa ad un bivio. Interrogandosi sulla traiettoria storica e teorica di una parte della psicoanalisi, in particolare i primi fondamenti dell’Egopsychology e la nascita del relativismo intersoggettivo, questo libro è come la prefazione al precedente Le psychanalyste apathique et le patient postmoderne. Ma si nutre, congiuntamente, di una riflessione sugli ideali e sulla terribile combinazione tra crimini e sublimazione – fucina della “cultura” del Terzo Reich e del suo riferimento al demoniaco – che scosse la psicoanalisi.

Era davvero immaginabile che la psicoanalisi sarebbe rimasta indenne dal disastro generato dal nazismo? Indubbiamente una delle prime conseguenze fu lo spostamento di sue parti vitali verso gli USA, cosa che comportò una modificazione molto profonda dell’orizzonte intellettuale in cui la psicoanalisi e la sua pratica avevano preso forma. Il positivismo logico che regnava dall’altra parte dell’Atlantico metteva duramente in discussione la presunta “metafisica” freudiana. Il colpo più duro, però, fu quello inferto dal venir meno della base linguistica e dal mutamento della funzione stessa del linguaggio su cui poggiava il mondo occidentale. Un solo esempio: la Selbsterhaltungstrieb, la pulsione di autoconservazione divenne, sotto la penna di Hitler, l’asse della politica dello spazio vitale. Questo terremoto fu talvolta percepito immediatamente dagli intellettuali: Klemperer, Cassirer, Adorno. E un certo numero di analisti dell’epoca si adoperò molto presto per combattere lo sviamento delle parole della psicoanalisi. Ma dopo l’immediato dopoguerra, l’attenzione fu catturata principalmente dall’ascolto delle vittime, portando alla teorizzazione del “trauma estremo” e dell’empatia. L’eredità freudiana di Psicologia delle masse e analisi dell’Io e de Il disagio della civiltà concernente il destino della civiltà e la distruttività collettiva passavano in secondo piano. Come mai?

Una questione tanto più cruciale in quanto lo sconvolgimento che ha fatto di “Auschwitz” non il nome di un campo né la designazione di un evento genocidario ma il paradigma di un nuovo stato della condizione umana, ha innanzi tutto intaccato la legge introducendo la natura nel quadro giuridico, vale a dire nel fondamento stesso della comunità. Dalla Natur goethiana alla “natura” secondo i nazisti, la biologizzazione del discorso ha ordito la “mistica di una mostruosa semplicità che – scriveva Klemperer – si insinua senza difficoltà nell’inconscio”: naturalità della razza, naturalità animale del parassita (l’ebreo), pulsione naturale in vista dell’unità razziale. Ora, la rottura del contratto, che mise così la legge fuori dalla legge, non solo fornì agli individui l’immenso guadagno narcisistico procurato dall’appartenenza a una massa fondamentalmente omogenea; ma si basò su una teoria del diritto “rinnovata” (das Recht) che contestava la concettualizzazione astratta necessaria per l’ordine giuridico, concettualizzazione ormai attribuita ai soli ebrei. Posto al servizio della concretezza razziale, questo diritto – a partire da quello organizzato sul pensiero di Carl Schmitt che contribuì all’elaborazione delle Leggi di Norimberga – si inseriva in una logica di incarnazione che rompeva con il principio della rappresentazione posto al centro della legge (das Gesetz).

Con la “ricaduta del popolo tedesco in una barbarie quasi preistorica” [Freud S., 1934-38, 379] la cultura si confrontò con il crollo delle figure della colpa. Questo è quanto Freud affronta in modo diretto quando, quindici anni dopo Psicologia delle masse, rimette mano alla questione del “capo”, del “Führer” ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Ed è di questo che tratta Thomas Mann in due testi: Fratello Hitler nel 1938 e La legge nel 1944, prendendo in contropiede le affermazioni di Goebbels che rivendicava il fatto che “la politica fosse un’arte”. Contro il ritorno dell’omicidio costruito su un apparato di identificazioni basato esplicitamente sull’odio proprio dell’animo ariano, si tratta di ripensare secondo il principio dell’aprés-coup il percorso che, da Atene a Gerusalemme, ha permesso di instaurare l’interdizione dell’assassinio e la fondazione dell’etica nel momento in cui poteva essere elaborata la formazione di un popolo.

È proprio in questa linea che si inserisce Imre Kertész. Rileggendo a suo modo Psicologia delle masse e analisi dell’Io e L’uomo Mosè, di cui fu traduttore in ungherese, egli prende atto della nuova universalità inaugurata dall’omicidio di massa: rivalutazione alla luce della posizione freudiana che legava l’origine del monoteismo al parricidio originario. Oltre alla definizione di quello che Kertész chiama “l’uomo funzionale”, si misura qui la profondità del divorzio di Freud da Jung, colui che nel 1934 celebrò la forza e i semi creativi dell’inconscio ariano capace di elaborare nuove forme culturali e sanitarie – in Journal pour la psychothérapie et ses domaines frontaliers, y compris la psychologie médicale et l’hygiène psychique – mentre le categorie ebraiche della psicologia, elaborate da Freud, avrebbero ignorato il fondo dell’anima germanica e dei suoi miti. Ma quali sono questi miti?

Di fatto, se Gestalt e Gestaltung sono diventate i tratti distintivi della messa in forma dello Stato sia come insieme vivente che come opera d’arte, il diritto è nel più profondo subordinato a un’estetica della forma. È questo “nazional-estetismo” che Adorno individua molto presto. Se, secondo lui, la barbarie non ha solo trionfato nonostante la cultura ma con questa cultura, se la malattia della civiltà fu di non poter uscire dalle idealità, è d’obbligo pensare al paradosso in cui ormai siamo presi: l’Io appare come l’ultimo baluardo contro l’annientamento, contro la dissoluzione delle singolarità, contro lo smantellamento della realtà. Ma il posto che gli viene poi assegnato non può che esasperare l’identità e ciò, a sua volta, costituisce il pericolo intrinseco di un narcisismo esacerbato.

Non è questa la domanda che gli analisti di lingua tedesca si pongono dal 1930? Tra il 1927 e il 1939 si assiste infatti al moltiplicarsi di testi psicoanalitici (ivi compresa la lezione XXXV di Freud) relativi sia al rapporto che l’analisi mantiene con le diverse “concezioni del mondo” (Weltanschauungen) allora in atto, sia al valore scientifico delle teorie. Ma di che scienza si tratta? La lettura accurata di due testi di Müller-Braunschweig – “Psychanalyse und Weltanschauung” del 1930, poi un secondo articolo del 1933 che portava lo stesso titolo, pubblicato sul Reichswart, Organe de l’Alliance Raciste Européenne – e la decifrazione della loro retorica sono illuminanti. In essi si assiste alla riabilitazione della psicoanalisi contro l’accusa di “essere disaggregante e non tedesca” purché serva a “una concezione eroica della vita rivolta alla realtà, costruttiva”, “le cui linee – precisa Müller-Braunschweig –   sono state appena rifondate” e di cui l’Io è la punta di diamante. È proprio contro questa deviazione della psicoanalisi che Hartmann si batte. Secondo lui, Freud “non approva semplicemente la vita, ma un certo orientamento nello sviluppo dei viventi”. Quando evoca il fatto che “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io” [Freud S., 1932, 190], considera l’Io come sede degli imperativi del logos e non semplicemente l’organo di un’energetica dell’azione radicata nel bios.

Se consideriamo la lettura critica che fu successivamente proposta da Hartmann e dall’Egopsychology, se misuriamo l’impatto che ebbero in seguito a tale critica il ritorno della teoria del trauma, la funzione dell’empatia e la funzione curativa della narrazione – in particolare nel contesto della “clinica del sopravvissuto” – c’è da chiedersi: che resa comporta il solo fatto di sussumere la Shoah sotto il termine di traumatismo? Si deve intendere che l’odio rivolto dalla barbarie nazista alla psicoanalisi avrebbe trovato qui una via di successo se non altro nella forma della revoca della complessità pulsionale?

Imre Kertész, Ruth Klüger, Günther Anders, Th. W. Adorno, Elias Canetti mi permettono in ultima analisi di esplorare la minaccia che grava sul destino della cultura dopo che Hitler ha celebrato insieme a Speer la “teoria del valore delle rovine”.

 

[Traduzione di Mariagrazia Capitanio]

 

 

 

 

Laurence Kahn, Parigi

Association Psychanalytique de France

laurence.kahn@wanadoo.fr

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