Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Luca Mesiano
[Una produzione di Spotify Studios in collaborazione con Chora Media.
Scritto da Pablo Trincia con Debora Campanella.]
Venerdì 6 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia lascia il porto di Savona per cominciare il suo tour del Mediterraneo. Sette giorni più tardi, il 13 gennaio 2012, farà naufragio per un’imprudenza e una concatenazione di errori che costeranno la vita a 32 persone. Mario Calabresi presenta così nella sua newsletter questo documentario di Pablo Trincia, suddiviso in nove puntate podcast, l’ultima delle quali messa in onda proprio il giorno del decimo anniversario, da poco trascorso, del tragico incidente avvenuta di fronte all’isola del Giglio: “Un anno fa decidemmo che valeva la pena riaccendere la luce su quel naufragio incomprensibile e Pablo mi disse che aveva bisogno di trovare un filo da cui partire, una persona che gli facesse da guida e gli aprisse la porta della narrazione: «La prima cosa che ho fatto è stata di provare a cercare il fratello dell’ultima vittima recuperata sulla nave [..]Ascoltando questa serie podcast si ha la sensazione di essere partecipi della tragedia, di essere lì, con le donne e gli uomini che quella notte vennero travolti da un evento non immaginabile.”
Trincia, interrogandosi sul senso del tener vivo il ricordo e sottolineando come spesso il tempo intercorso abbia un effetto perturbante al punto da far risaltare più il medesimo che la vicenda, si augura che nella possibilità di raccontare e rinominare fatti, persone e storie ci possa essere la possibilità di arginare l’azione rimovente che la mente attua di fronte a ad eventi come questo; per far sì che in situazioni simili si attivi una maggior consapevolezza e le persone sappiano prendere decisioni diverse e migliori.
Prima di essere psicoanalisti siamo stati pazienti e conosciamo bene la difficoltà a raggiungere questa “consapevolezza” e di quanto questa sia inevitabilmente transitoria. Abbiamo imparato a disporci all’ascolto della storia che la persona ci porta, fatta di esperienze reali ma anche delle relazioni che questa si porta dentro per come ha potuto e saputo comprenderle nel tempo, coinvolgendoci in un lavoro di ricostruzione e al tempo stesso di costruzione di significati circa ciò che di traumatico è avvenuto nella sua vita.
La tragedia della Costa Concordia parla di un trauma reale e questo documentario lo fa a distanza di dieci anni, dando voce ad alcuni dei suoi protagonisti. Aggiungerei un dettaglio importante: permette loro di parlarne non solo con l’intento di ricostruire i fatti ma permettendo agli affetti che li stavano accompagnando allora di riaffiorare fino a permetterci di scorgere il difficile lavoro interno di elaborazione che hanno dovuto fare arrivando al presente. Significativo a questo proposito anche il ricordo che riaffiora nella mente del marito che aveva deciso di non accompagnare la moglie in crociera in vista di un altro viaggio ancor più desiderato assieme. L’ulteriore pregio di questo lavoro sta non solo nel “trovare un filo” ma anche nel far luce sul filo che queste persone si sono trovate a ripercorrere, ad intrecciare e tessere nuovamente per dare un senso all’accaduto.
Per quanto intensa sia l’angoscia e la disperazione trasmessa in alcuni punti di questi podcast, essi meritano di essere ascoltati per vari motivi.
Innanzitutto, per la capacità di evocare e rievocare sensazioni e percezioni che le persone sperimentano durante e dopo eventi traumatici di questa portata, siano esse direttamente coinvolte o spettatrici, come ad esempio gli isolani o le squadre di soccorso che hanno fornito i primi aiuti. La ricostruzione e l’intreccio delle vicende individuali riesce magistralmente a far “toccare con mano” i meccanismi difensivi e al tempo stesso protettivi di una psiche prima, e di un corpo poi, sotto assedio. Un equipaggio che asseconda una manovra sconsiderata, o che a fronte dell’incidente avvenuto insinua il dubbio che non sia reale nei passeggeri preoccupati, mentre altri chiedevano nello stesso frangente di poter tornare al loro tavolo o intrattenimento, o ancora più tardi avevano deciso di rimanere in cabina.
Un ascolto psicoanalitico, che guarda alle dinamiche interne assieme a quelle “situazionali” tra il singolo e il gruppo, prova a comprendere come quella che definiamo “identificazione” possa aver operato, a vari livelli intra e inter-psichici, muovendo l’individuo nella concatenazione di azioni intraprese. Il comandante asseconda la richiesta di un maître che voleva “salutare” i propri familiari residenti sull’isola, in una notte d’inverno e al tempo stesso cerca il contatto con un altro comandante col quale aveva lavorato e che sapeva risiedere al Giglio. In forme diverse, direi quasi capovolte, è possibile vedere come alcuni passeggeri e altri membri dell’equipaggio meno qualificati si trasformino in preziosi soccorritori; altri invece, nel buio “primitivo” della nave, tentano di sopraffare l’altro per la propria sopravvivenza negando così non solo il proprio ruolo e funzione ma anche la propria e altrui umanità.
Continua Calabresi: “Il viaggio nella storia del naufragio, delle vite che si sono incontrate su quella nave, nelle coincidenze del prima e nel dolore del dopo, sono stati un’esperienza straordinaria per Pablo [..] mi è venuto spontaneo chiedergli cosa gli abbia lasciato questo lavoro: rabbia, frustrazione, sconforto? «No, grande ottimismo, è una brutta storia di bugie, omissioni, egoismo e di un comandante che abbandona una nave, ma c’è anche tanto bene. Ricostruendola ho scoperto una forza positiva incredibile: persone che superano ogni ostacolo, gesti di eroismo e altruismo così belli che mi hanno fatto vedere tutto sotto una luce completamente diversa. Mi è rimasta dentro una grande sensazione di fiducia negli esseri umani» “.
Questa ricostruzione, potremmo dire, del naufragio della modernità e della tecnica non solo si collega ad alcune configurazioni del narcisismo ma è in grado di riportarci ad altri eventi simili spesso percepiti distanti fino a perdersi nell’indifferenza. Basti pensare all’altra vicenda della Norman Atlantic citata da Trincia o ai naufragi di migranti che sempre più in questi anni avvengono nel Mediterraneo. Eventi che non sembrano riguardarci da vicino complice il fatto che non c’è il relitto di una nave di fronte a noi a ricordarcelo per quasi due anni; e dove il rischio di perdere la nostra capacità e necessità di creare legami con l’altro, che in un momento diverso potremmo essere noi, è all’ordine del giorno.
Sono propri questi a risaltare di contro in questo tragico racconto segnato da lutti e mancanze, i legami, minacciati, persi, ritrovati o ri-costruiti e con essi la possibilità di ricucire le ferite di un trauma. Il legame tra i superstiti ma anche tra loro e le persone che hanno prestato aiuto come potevano, con cibo, coperte, alloggio, abbracci, parole, sguardi. L’uomo che viene cercato a distanza di tempo dalla coppia di genitori il cui figlio aveva tenuto in braccio nelle fasi di recupero dei passeggeri perché affidato per primo ai soccorritori, e di cui si era subito preoccupato perché separato da loro, mi sembra possa rappresentare come e più di altre immagini l’essenza del nostro “essere solo in presenza di un altro” che ci può tenere, in questo caso che tiene una parte di noi, un figlio, e così anche contenere emotivamente l’angoscia provata al pensiero di non potersi più ritrovare e perdere.
L’importanza di quel gesto era stata ricambiata con la sua ricerca e lo stesso, a testimoniare che il corpo ha una memoria, è stato certo che quel bambino ora cresciuto fosse proprio lui potendolo tenere in braccio e guardandolo nuovamente negli occhi. Di nuovo, ritrovarsi con lo sguardo, come forse aveva preso avvio questa vicenda.
Luca Mesiano, Vicenza
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