Melanie Klein: attualità di un pensiero inattuale

di Diomira Petrelli

Melanie Klein è stata, ed è ancora, una figura controversa del movimento psicoanalitico.

In un intervento che risale ormai a molti anni fa (era il 1982, in occasione della giornata di studio organizzata in Francia per celebrare l’anniversario della sua nascita) e intitolato “Quando è troppo è troppo” André Green, che per la verità non è mai stato troppo “tenero” con lei, dichiarava che era giunta l’ora di “rendere giustizia” a M Klein, alla cui opera – scrive Green – ci si era riferiti “solo per criticarla” (Green, 1985, 94). Ciò che avrebbe dovuto renderlo possibile era, a suo avviso, il necessario lavoro del lutto successivo alla morte di M Klein che avrebbe dovuto smussare l’eccesso di idealizzazione e di denigrazione che l’aveva circondata in vita.

Oggi, a quarant’anni di distanza, dobbiamo purtroppo confermare questa constatazione, che cioè all’opera di M Klein ci si continui a riferire quasi sempre soprattutto per criticarla. Siamo passati infatti da iniziali adesioni entusiastiche ad una sorta di ostracismo che non fa giustizia all’originalità del suo pensiero. In particolare, in Italia, dopo un breve periodo di forse anche troppo entusiastica adesione, starei per dire idealizzante e di superficie, abbiamo assistito ad una dura reazione a quello che, forse a ragione, è stato definito il “kleinismo”.

Sarebbe invece molto importante, a più di 60 anni dalla sua morte, provare a collocare l’opera di M Klein in una prospettiva storica, cioè all’interno della storia del movimento psicoanalitico e di quella dei suoi concetti, tenendo conto delle “filiazioni” analitiche, sia di quelle più esplicite che di quelle implicite, o, per dirla con Green, dei suoi figli “legittimi” e di quelli “bastardi”.

L’influenza di alcune delle sue idee è probabilmente più grande di quanto oggi non si sia disposti a riconoscere. Alcuni concetti da lei formulati hanno avuto negli anni una grandissima diffusione ma, estrapolati dal contesto del modello teorico clinico di riferimento, hanno finito per assumere un significato molto o, a volte, del tutto diverso rispetto a quello originario. In alcuni casi si è quasi persa traccia della loro prima ed originale formulazione da parte di M Klein. Valga per tutti l’esempio del concetto di identificazione proiettiva che, come scrivono Spillius e O’Shaughnessy, “ha sollevato un inusuale interesse tra gli psicoanalisti” che hanno fatto di esso “usi complessi, a volte confusivi o anche contraddittori” (Spillius, O’Shaughnessy, 2012, 8).

La domanda che ci viene posta riguarda l’attualità del suo pensiero, anzi più precisamente la sua attualità clinica: che cosa della sua teorizzazione reputiamo “indispensabile nel nostro lavoro”, “cosa nella originalità del suo pensiero continua a stimolare la nostra riflessione clinica e tecnica”. È con gli occhi dell’oggi quindi che mi propongo di guardare all’opera di M. Klein interrogandomi, come scrive Derrida, su “quale risposta, quale promessa e responsabilità” possiamo trarne (Derrida, 1995, 49).

Sarebbe impossibile ovviamente parlare del significato dell’intera opera di M. Klein, ho scelto perciò di soffermarmi soltanto su alcuni aspetti che mi sono sembrati “nodi” caratterizzanti sia per novità che per fecondità teorico-clinica.

Vorrei ribadire, prima di tutto, l’originalità del suo pensiero che, a mio avviso, ha rappresentato, dopo Freud, uno dei più importanti cambiamenti del modello di funzionamento della mente. Un cambiamento la cui portata non è stata forse sufficientemente apprezzata, anche per ragioni storico-politiche. Mentre Freud era ancora in vita e negli anni immediatamente successivi alla sua morte, nel clima di dispersione e smarrimento determinato nel movimento psicoanalitico dalle tragiche vicende della Seconda Guerra Mondiale, non era facile evidenziare questa novità e M. Klein stessa nella maggior parte dei casi ha teso piuttosto a sottolineare la continuità del proprio pensiero rispetto a quello di Freud e molto meno a mettere in evidenza diversità, cambiamenti o rotture, salvo che in rari casi, sebbene importanti (la precocità del Super-io e del complesso edipico, l’esistenza dell’Io fin dalla nascita, l’interpretazione della femminilità).

 

Il nuovo modello della mente che emerge nella stanza da gioco: la fantasia inconscia

L’estensione dell’analisi a bambini anche molto piccoli e spesso molto gravi, a volte non in grado né di parlare né di giocare, ha rappresentato per M. Klein una sfida che non solo ha implicato la necessità di inventare una nuova tecnica ma ha anche contribuito a modificare significativamente il suo modello di funzionamento della mente e, di conseguenza, quello del processo psicoanalitico, anche se furono necessari molti anni prima che ciò potesse essere affermato con chiarezza nelle Discussioni Controverse (1943).[1]

La tecnica psicoanalitica del gioco non si intende, a mio avviso, nel suo vero significato se non la si considera nella sua intrinseca correlazione con il concetto di fantasia inconscia. È il concetto di fantasia inconscia che fa del gioco uno strumento psicoanalitico, sul modello del sogno, ed è la drammatizzazione nel gioco che costituisce lo sfondo e il modello della nuova rappresentazione del mondo interno e dei suoi oggetti.

Nel nuovo setting rappresentato dalla stanza da gioco secondo M. Klein tutte le attività del bambino, anche quelle più stereotipate e silenziose, esprimono e drammatizzano i molteplici e mutevoli contenuti del suo mondo interno e possono essere lette come l’esteriorizzazione di fantasie, spesso anche molto articolate, che riguardano la relazione con oggetti, interni ed esterni. Se prescindiamo da questo riferimento clinico e osservativo sarebbe probabilmente difficile comprendere come M. Klein sia potuta giungere a formulare il suo nuovo modello di funzionamento mentale. L’aver considerato il gioco alla stregua del sogno come spontanea, continua e inconsapevole attività rappresentativa di contenuti mentali inconsci segna una svolta fondamentale. Porta infatti M. Klein a mettere l’accento sul flusso ininterrotto di contenuti mentali inconsci che, come “il sogno della veglia” (Bion), accompagna con vivida concretezza fin dall’inizio della vita tutte le attività, dai movimenti più semplici e involontari alle manifestazioni più evolute o razionali.

Sul modello di quanto avviene nel gioco il mondo interno le appare popolato e costituito da una caleidoscopica dinamica tra molteplici oggetti interni – “personaggi”, “parti degli oggetti e del Sé” – che subiscono alterne vicende, in un continuo movimento di scissioni e aggregazioni, espulsioni e interiorizzazioni, che si modellano sul funzionamento corporeo. Vicende drammatiche, accompagnate da fantasie inconsce onnipresenti che sottostanno a tutte le manifestazioni della vita psichica e del comportamento. Questo flusso ininterrotto – una sorta di film nella mente – si rivela non solo attraverso le parole ed il gioco ma anche attraverso tutto il comportamento, la postura corporea e ogni forma di azione.

Si tratta di un diverso modo di concepire la vita mentale ed il suo sviluppo: il bambino piccolo già da molto presto, per M. Klein dalla nascita, “fa esperienza” non solo di sensazioni, percezioni e tracce mnestiche, ma anche di vivide e concrete fantasie, il che fa di lui una persona con un’attività psichica già strutturata, per quanto rudimentale; questa primitiva attività mentale, fatta di fantasie corporee e concrete, permane nelle fasi successive come inconscio sottofondo di tutte le attività mentali, anche di quelle più evolute, che non la soppiantano ma sono in effetti da essa profondamente permeate e che da essa traggono la propria sotterranea forza emotiva. La fantasia inconscia è un’attività continua, ubiquitaria, una sorta di sottofondo inconscio costante.

  1. Klein evidenzia la permanenza di questo mondo di forme interiori, intensamente investite affettivamente, anche nella vita mentale adulta, non solo nel sogno ma anche nella veglia. La riformulazione del concetto di fantasia inconscia esprime quindi il tentativo di rappresentarsi il funzionamento mentale, nelle sue forme più precoci ma anche in quelle più evolute e, soprattutto, la sua vivida concretezza. Queste forme mentali organizzano l’esperienza, sia quella che il bambino fa del proprio corpo, attraverso le sensazioni legate ai suoi organi e al loro funzionamento, sia quella relativa all’ambiente esterno. La fantasia è cioè ritrascrizione e reinterpretazione delle sensazioni e percezioni primitive e immediata e primaria relazione “agita” con l’oggetto. Le prime fantasie sono intessute e nascono da sensazioni e percezioni corporee. È qualcosa che è vividamente vissuto come molto reale e concreto e collocato per lo più nel corpo. Si tratta di vivide fantasie psicosomatiche in cui avviene una prima messa in forma, una “interpretazione affettiva” dei dati sensoriali e percettivi che richiede perciò di postulare già l’esistenza di un Io, per quanto precoce e rudimentale.

Si comprende che questo modello porti a sviluppare una visione più globale del paziente in cui tutto ciò che egli fa, e non solo quello che dice, diventa importante e comunicativo in quanto portatore di significati emotivi spesso inconsci. L’azione delle fantasie può essere colta a 360 gradi da tutto il comportamento e anche dal modo in cui il paziente gestisce il corpo: come entra e come esce dalla stanza, dove si colloca, cosa fa, dalle particolarità del suo gestire o del suo modo di parlare o di rimanere in silenzio.

Va sottolineato che per M. Klein, come esplicita con chiarezza S. Isaacs (1948), la fantasia inconscia non è confinata ad alcuni momenti della vita mentale ma è il modo di essere – proto-rappresentativo – della vita mentale stessa. L’ipotesi – e la sfida – è quella di ritenere che sia possibile inferire, e quindi gradualmente comprendere, il significato emotivo di queste fantasie non soltanto attraverso la comunicazione verbale ma anche attraverso altri canali comunicativi, non verbali e preverbali.

Si tratta di un importante cambiamento epistemologico che ha avuto sviluppi significativi. L’uso “esteso” del concetto di identificazione proiettiva – che per M. Klein era appunto una “fantasia inconscia” –, associato a quello di controtransfert, ha avuto, dopo Bion, una vasta applicazione, contribuendo ad affinare le capacità di osservazione, ricezione ed ascolto delle molteplici forme primitive di espressione/comunicazione, preverbale e non verbale, presenti in bambini e adulti, anche molto gravi o molto regrediti.

Il concetto kleiniano di fantasia inconscia ha prodotto un radicale mutamento anche nel modo di intendere i processi di transfert. L’osservazione minuta e dettagliata dei cambiamenti che avvengono nel transfert, anche nel corso di una singola seduta, diventa lo strumento che, più di ogni altro, può permettere di cogliere il carattere delle fantasie che sono attive in quel momento e che si ricollegano alla parte infantile della personalità del paziente e alla sua storia passata, benché, ovviamente, la nostra conoscenza del passato vissuto dal paziente possa essere molto spesso solo ipotetica ed inferenziale. D’altra parte è proprio la comprensione di queste fantasie che ci permette di cogliere gli aspetti più profondi del transfert.

Secondo M. Klein le fantasie inconsce derivano da sensazioni fisiche interpretate come relazioni con oggetti che causano tali sensazioni. La fantasia è cioè l’interpretazione che il bambino dà alle proprie sensazioni e percezioni alla luce degli affetti che in quel momento prova. Sono vissute come fenomeni sia somatici che mentali, intrisi di sensazioni ed affetti. In quanto percezioni sono in rapporto non solo con il corpo ma anche con la realtà esterna. Il funzionamento degli organi del corpo viene tradotto in fantasie mentali, intrise di affetti, che lo collegano all’oggetto e che danno al bambino una primitiva e rudimentale sensazione di sé (me-ness).

Queste ipotesi presupponevano da parte di M. Klein una maggiore fiducia nella permeabilità esistente tra i diversi livelli di funzionamento mentale, come rileva R. Steiner (2007), e una maggiore continuità tra il bambino e l’adulto, cosa che ha spesso determinato l’accusa rivolta agli psicoanalisti kleiniani di infantilizzare i pazienti adulti. Tuttavia, al di là di alcune estremizzazioni che hanno portato a concretizzare eccessivamente fantasie inconsce e oggetti interni, un uso attento di questi concetti può consentire una lettura più vivida ed efficace dei derivati dell’inconscio, che miri a tenere presente da un lato il loro profondo radicamento nel somatico e dall’altro l’intrinseca relazionalità affettiva del Sé con gli oggetti, come un qualcosa che profondamente costituisce il senso di sé[2].

 

Il punto di massima urgenza, l’angoscia

Un secondo punto nodale riguarda la particolare attenzione e sensibilità nei confronti dell’angoscia che ha caratterizzato tutta l’opera di M. Klein fin dagli esordi.

Si tratta di una grande capacità di sintonizzarsi sulla qualità dell’angoscia di pazienti anche molto gravi, come ad esempio il piccolo Dick, accompagnata da una straordinaria fiducia nella possibilità di entrare in comunicazione profonda con loro, proprio a partire da quello che lei stessa definisce “il punto di massima urgenza”. Lo descrive così: “Fin dall’inizio, era il 1919, ho ritenuto che la prima cosa da considerare quando mi avvicinavo ad un bambino fossero le sue angosce. Mi sono sentita subito attratta da questo, e quando mi è stato chiesto il perché non sono riuscita a dare una risposta. Tuttavia, interpretavo ogni volta che incontravo l’angoscia, naturalmente, senza attenermi minimamente al principio secondo cui non avrei dovuto interpretare troppo, o troppo in profondità. […] si potrebbe dire che i cambiamenti nella tecnica sono stati fondamentali e hanno comportato effettivamente un approccio diverso. L’approccio all’angoscia e l’approccio al transfert sono due aspetti interconnessi; credo che soltanto focalizzando l’approccio sulle emozioni, in particolare sull’angoscia, sia stato possibile sviluppare la tecnica” (Klein, 2017, 114-5).

Dick era un bambino di quattro anni, non parlava e non giocava, sembrava ignorare la presenza di M. Klein in quanto essere umano diverso dai mobili della stanza, ma lei, coraggiosamente, istituì un setting, dette nome agli oggetti e avviò un gioco che era una forma di comunicazione sulla sua angoscia più profonda. Al bambino che era corso a rinchiudersi nell’andito tra due porte della stanza esclamando: “Buio!” dice: “E’ buio dentro la mamma. Dick è dentro il buio della mamma” (Klein, 1930, 256).

Più tardi parlando della sofferenza dello schizofrenico scriverà che la mancanza di emotività che rende i pazienti schizoidi incapaci di reazione, la loro apparente assenza di angoscia, deriva in realtà dall’uso massiccio di meccanismi schizoidi che amputano gravemente il Sé e che implicano la dispersione delle emozioni che però, “pur disperse, sussistono sempre nei pazienti”. “In essi l’angoscia latente ha una forma particolare; ed è tenuta latente proprio dal meccanismo speciale della dispersione. Il senso di disintegrazione, di incapacità a provare emozioni, di perdita dei propri oggetti è in effetti l’equivalente dell’angoscia” (Klein, 1946, 430). “Le emozioni erano assenti, le relazioni erano vaghe e incerte, e parti della personalità erano sentite come perdute, tutto pareva morto” (ivi, 431).

Nel Saggio Sul senso di solitudine (1959) tornerà a descrivere gli stati emotivi di questi pazienti che, sebbene apparentemente insensibili, le sembrano mostrare i segni di un’intensa sofferenza. La loro condizione le appare intrisa di disperazione e di rammarico per non poter ristabilire il contatto emotivo con sé stessi e con l’altro. Le scissioni schizoidi portano infatti alla solitudine più profonda: quella di essere tagliati fuori dal proprio Sé. Parlare del loro senso di solitudine significa sottolineare che provano emozioni, profondissime angosce di frammentazione, di perdita di sé, di isolamento, ma anche intravedere la possibilità che ci sia comunque anche in essi una spinta all’integrazione e che su questa base sia possibile agganciarli in un processo terapeutico entrando in contatto con la loro angoscia latente.

Nella comunicazione allo stesso Congresso di Copenaghen del 1959 – Una nota sulla depressione nello schizofrenico – avrebbe parlato della solitudine dello schizofrenico, mettendo in discussione le distinzioni che aveva in precedenza cercato di stabilire, per evidenziare che anche questi pazienti provavano una qualche forma di angoscia depressiva. Mette in evidenza alcuni aspetti di continuità tra le due condizioni (schizoparanoide e depressiva)[3] e riconosce la presenza di sentimenti di depressione e di colpa anche nella posizione schizoparanoide: “Ora – scrive – io considero questa differenziazione troppo schematica. […] una certa internalizzazione dell’oggetto buono avviene anche nello schizofrenico paranoide” (Klein, 1960, 6), anche se essa differisce per qualità e forza da quella che avviene nel maniaco-depressivo. In questo senso l’angoscia paranoide, relativa allo stato dell’Io, “è costretta ad includere una certa preoccupazione per l’oggetto” (ivi, 7). L’angoscia depressiva e la colpa in questo caso si riferiscono a quella parte dell’Io che è sentita contenere l’oggetto buono e che è vissuta come la parte buona. Angoscia depressiva e colpa vengono però allontanate in modo violento dallo schizofrenico e sono sperimentate solo in alcune aree, da lui sentite come irraggiungibili.

Questa fiducia nella possibilità di stabilire un contatto emotivo profondo, proprio a partire dal contatto con l’angoscia e dalla sedimentazione di un qualche rapporto con l’oggetto buono anche nei pazienti più chiusi e apparentemente insensibili, piccoli o grandi che siano, mi sembra un aspetto importantissimo che ha comportato una significativa modificazione nella tecnica, aprendo la strada a nuove aree di ricerca.

Proprio a partire da questo senso di solitudine e di disperazione M. Klein pensa che sia possibile trovare, nel transfert, un aggancio che permetta di ristabilire il contatto con una qualche traccia, seppur dispersa, dell’oggetto buono.

 

Il Super-io sadico e le forze distruttive interne

  1. Klein ha sempre sottolineato di considerare la propria convinzione dell’esistenza di una forza distruttiva interna come basata su considerazioni ed osservazioni prevalentemente cliniche.[4]

Ciò che le interessa in effetti non è l’aspetto quantitativo o biologico delle pulsioni ma il loro aspetto psicologico; parla infatti del “conflitto psicologico tra moti pulsionali aggressivi e libidici”, tra amore e odio, che ha, a suo avviso, grande rilevanza clinica (Klein, 1958, 541). Si tratta di una minaccia interna contro cui l’Io combatte e che è la vera fonte dell’angoscia, sentita come “paura dell’annientamento (morte)” (ivi, 540-1, nota 2).

Questa forza distruttiva interna influisce fortemente sulla formazione del Super-io che nasce proprio, secondo M. Klein, dalla proiezione di una porzione della pulsione di morte in una parte scissa di sé che viene così a trovarsi in opposizione con il resto dell’Io, andando a costituire il nucleo di base del Super-io. Va ricordato tuttavia che con questa porzione della pulsione di morte viene deviata (proiettata) anche quella porzione della pulsione di vita che vi è commista e parti degli oggetti buoni e cattivi ad esse associati (ivi, 544).

Come M. Klein ribadisce a più riprese alla base di questa teorizzazione ci sono le osservazioni cliniche fatte fin dall’inizio del suo lavoro con bambini molto piccoli nelle quali si trovò “di fronte a fenomeni inattesi, uno dei quali era costituto dal fatto che in questi bambini era sempre presente un Super-io estremamente primitivo e crudele” (ivi, 545) sotto forma di “oggetti interiorizzati” che si caratterizzano come “figure terrificanti”, “spaventosamente pericolose” che fanno insorgere “conflitto e angoscia”, motivo per cui vengono scisse e “relegate negli strati più profondi dell’inconscio.” In alcune condizioni estreme, come negli schizofrenici, “il Super-io è indistinguibile dai loro impulsi distruttivi e dai loro persecutori interni” (ivi, 547). Tuttavia, anche nelle circostanze più favorevoli, “le figure terrificanti esistenti negli strati più profondi dell’inconscio tornano a far sentire la loro presenza ogni volta che la pressione interna o esterna diventa estrema” (ivi, 547). Si tratta in realtà di un conflitto permanente e mai interamente risolvibile.

La presenza di queste figure interne terrificanti sta a rappresentare in termini concreti l’esistenza di forze interne che si oppongono alla vita, quei “sabotatori interni” contro cui altre parti, collegate alla vita e agli oggetti buoni, sono eternamente in lotta.

Mi sembra molto importante e clinicamente utile l’aver sottolineato che questo conflitto si configura come un aspetto particolarmente doloroso dei processi di integrazione, e quindi anche del processo analitico, in quanto il tentativo di ricomposizione porta inevitabilmente il soggetto a confrontarsi con i propri impulsi distruttivi e con le parti odiate del Sé, cioè con l’odio per le proprie parti che nutrono odio e che talvolta sembrano incontrollabili. Soprattutto negli scritti dell’ultimo periodo M. Klein esprime infatti la sua profonda comprensione del fatto che la solitudine del soggetto è anche quella che ognuno prova di fronte alla propria distruttività.

Particolarmente rilevante dal punto di vista clinico è, a mio avviso, non soltanto il continuo riferimento da parte di M. Klein al conflitto tra odio e amore e il rilievo da lei dato alla presenza di aspetti distruttivi, ma anche la raccomandazione che questi vadano “visti” sempre insieme agli aspetti che invece esprimono amore e legame con l’oggetto.

 

Il Sé frammentato e i processi di integrazione

Negli scritti della metà degli anni ’40 M. Klein descrive l’esistenza di fantasie in cui l’Io – o più tardi il Sé – sembra privo di interezza, come se alcune sue parti o funzioni venissero a mancare. I pazienti di cui parla vivono stati di frammentazione, confusione e perdita della capacità di provare emozioni, condizione che viene da loro stessi percepita come una mutilazione, una concreta perdita di parti di sé che restano estraniate, seppellite in oggetti esterni e perciò non più disponibili, irraggiungibili, affette dallo stesso senso di solitudine che prova il soggetto. M. Klein interpreta queste fantasie come frutto di difese molto primitive, rispetto ad angosce avvertite come intollerabili, che operano sia immaginando di espellere oggetti cattivi e cattive parti del Sé, sia aggredendo la psiche stessa del soggetto e le parti di essa più consapevoli dell’esperienza emotiva e per questo responsabili dell’angoscia. La contropartita emotiva di queste difese è “un indebolimento eccessivo dell’Io, la sensazione che non vi sia nulla a sostenerlo, e il senso di solitudine” (Klein, 1946, 422), in quanto l’automutilazione conduce sì ad un allontanamento e alla dispersione dell’esperienza emotiva, ma anche a penose sensazioni di confusione e frammentazione, ad angosce per la propria integrità e per la distruzione della capacità di provare emozioni.[5]

Nel saggio Sul senso di solitudine M. Klein collega il senso di dispersione e di perdita prodotto dalla sensazione di non potersi più ricongiungere con le “parti perdute” ad una menomazione, quasi un danno, del senso di appartenenza: le “parti perdute” hanno subito un processo di scissione e “vengono proiettate in altre persone, contribuendo così al sentimento di non godere del pieno possesso del proprio sé, cioè di non appartenere completamente a sé stessi, né, quindi, a nessun altro.” (Klein, 1959, 144). Queste mutilazioni del senso di sé (“le parti perdute”) si traducono in un’impossibilità per il soggetto di sperimentare l’appartenenza all’altro, sia esso un singolo o un gruppo. Il senso di solitudine e di mancanza inficia l’appartenenza e la capacità di affidarsi.

La ricerca di M. Klein sui processi di scissione contiene osservazioni importanti ed innovative. Accanto ai processi di scissione “normali” e necessari per lo sviluppo ella ne individua altri che conducono alla frammentazione del Sé che ne risulta gravemente danneggiato, in forza e coesione.

Di grande rilievo clinico è l’osservazione della stretta interrelazione esistente tra l’Io e l’oggetto anche a proposito della scissione: l’Io, infatti, non può scindere l’oggetto senza scindersi a sua volta di conseguenza. In questo senso la scissione-frammentazione, nata come difesa dall’angoscia, rappresenta anche una forza mortifera che produce disintegrazione, non solo dell’oggetto ma anche dell’Io. Di fatto la scissione rigida ed estrema dell’oggetto, la negazione completa dell’esistenza dell’oggetto cattivo, implica che vengano denegate e scisse, cioè distrutte, anche le parti dell’Io che sono in rapporto con questo oggetto.

Ciò porta M. Klein ad interpretare la difesa schizoide come un movimento attivo che rivolge le pulsioni distruttive all’interno, cioè contro l’Io stesso, dando luogo alla fantasia di annichilimento di una parte della propria personalità. In questo senso la scissione dell’Io (o del Sé) è sempre inevitabilmente anche una distruzione immaginaria di parti del Sé. Vale a dire che la scissione frammentante, meccanismo di difesa dell’Io contro la pulsione di morte, si rivela essa stessa permeata dalla pulsione di morte e sfocia in un sentimento affine alla morte, la disintegrazione, la confusione e il caos.

L’avere così profondamente compreso i processi di scissione e alcuni loro esiti disastrosi (disintegrazione, frammentazione e confusione) rende ragione della grande importanza data da M. Klein ai processi di integrazione, sia nella teoria che nella tecnica.

In particolare di grande rilievo clinico è la sua comprensione di come la frammentazione, derivante da processi disgreganti di scissione, conduca a stati di confusione estrema (“essere a pezzi e confusi”) la cui profonda dolorosità caratterizza, ad esempio, la condizione degli stati schizofrenici.

In questo senso diventa centrale sia nel suo modello di funzionamento mentale che nel suo modo di intendere il processo psicoanalitico il concetto di integrazione.

Negli scritti compresi nelle Lezioni sulla tecnica (sia nei seminari tenuti nel 1936 che nelle lezioni del 1958) M. Klein ribadisce a più riprese l’importanza e la necessità di tenere insieme, cioè di integrare, sia nella teoria che – soprattutto – nella tecnica, aspetti diversi ed opposti e di vederne la complessa articolazione: amore e odio, transfert positivo e negativo, ma anche transfert e storia, mondo esterno e mondo interno, esperienze reali e fantasie, schemi generali e situazioni particolari. Penso che questo sforzo abbia caratterizzato tutta la sua opera. Si coglie nelle brevi illustrazioni cliniche che quello che più la interessa è rintracciare le connessioni, i collegamenti, l’aspetto dinamico del funzionamento mentale, a partire dalla necessità di tenere presenti anche gli aspetti distruttivi e l’odio, fino alla considerazione dell’importanza di rimandare al paziente sempre anche la sua capacità di amare. Questo “stabilire legami […] è uno degli aspetti più importanti dell’interpretazione e della tecnica” (Klein, 2017, 105). L’interpretazione è un modo di mettere insieme i dati, di stabilire connessioni che possono generare un significato. Il suo intento veramente terapeutico è mettere insieme i pezzi, stabilire i collegamenti – tra emozioni diverse così come tra presente e passato – e farli vivere al paziente nell’attualità del transfert. Ciò – sottolinea – può essere avvertito dal paziente come un’esperienza concreta, qualcosa che accade concretamente dentro di lui, gli “fa sentire che l’interno del proprio corpo è stato trattato adeguatamente da un oggetto buono e soccorrevole” (ivi, p. 100).

Le parole che ricorrono di più nelle Lezioni sono legame, correlazione, articolazione ed indicano la sua attenzione per il mobile punto di unione tra aspetti differenti. Non l’amore e/o l’odio ma il rapporto tra l’amore e l’odio, cioè la correlazione, la fluttuazione: “Credo che la difficoltà di rendere piena giustizia sia al transfert positivo sia a quello negativo non sorga dalla sopravvalutazione dell’uno o dell’altro, ma da un’insufficiente comprensione della connessione profonda esistente tra sentimenti positivi e negativi” (ivi, 42).

Tutto ciò implica una visione dinamica del funzionamento mentale, non nel senso di rapporti quantitativi tra forze diverse, ma di un continuo movimento, una fluttuazione e trasformazione tra stati della mente differenti. Il modello genetico è di fatto abbandonato in favore di un modello oscillatorio, continuamente reversibile. I termini opposti non vanno verso una sintesi ma permangono distinti, in tensione, esprimendo diverse polarità, sempre potenzialmente presenti. Il suo sforzo conoscitivo ed interpretativo è quello di tenere insieme tutti questi aspetti che si presentano sparsi e frammentati, spezzettati. La preoccupa recuperare “il filo inconscio” (ivi, 132), il collegamento tra vari “pezzi” del materiale, in una stessa seduta ma anche tra più sedute, espressione ed esteriorizzazione di aspetti scissi e frammentati della mente del paziente e delle sue oscillazioni tra stati mentali differenti.

Proprio la sua capacità di essere così a contatto con un funzionamento mentale fluido, inarrestabile, scoordinato, eppure rigido e violento, come quello che caratterizza i pazienti più gravi, le fa sentire come un pericolo incombente quello della confusione che deriva da un eccesso di frammentazione.

L’integrazione non nasce quindi da un’attitudine intellettuale o intellettualistica ma da uno sforzo di contenimento e di creazione di legami, alla ricerca di un senso della sofferenza, che fa sentire l’altro concretamente “tenuto insieme”, contenuto nella mente.

Il pensiero espresso da M. Klein negli ultimi scritti e specialmente nel saggio incompiuto Sul senso di solitudine ha un carattere particolare, non ben definito e, in qualche modo, sfuggente, ma proprio per questo ha una grande capacità di suscitare interrogativi, di porre domande, di stimolare a pensare.

La riflessione sull’incolmabilità del senso di solitudine è forse il suo aspetto più toccante e profondo, che apre al pensiero e al suo continuo interrogarsi sulla condizione umana, per cui più cerchiamo di vincere il senso di mancanza, più incontriamo il senso del nostro limite e il limite del nostro conoscere. Il paradosso è che proprio dall’accettazione di questi limiti il senso di solitudine, forse, appare acquetato.

 

Bibliografia

Derrida J. (1995). Mal d’archive une impression freudienne. Paris, Edition Galilée. Trad. it. Napoli, Filema Edizioni, 1996.

Green A. (1985). Trop c’est trop, in Mélanie Klein Aujourd’hui. Lyon, Césura Lyon Edition.

Isaacs S. (1948). Natura e funzione della fantasia. Trad. it. in: (a cura di D. Petrelli) Fantasia inconscia. Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007.

Klein M. (1930). L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io. Trad. it in: M. Klein Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri, 1978.

Klein M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi. Trad. it in: M Klein Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri, 1978.

Klein M. (1953). La tecnica psicoanalitica del gioco: sua storia e suo significato. In: Nuove vie della psicoanalisi. Trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1966.

Klein M. (1958). Sullo sviluppo dell’attività psichica. Trad. it in: M Klein Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri, 1978.

Klein M. (1959). Sul senso di solitudine. Trad. it. in: Il nostro mondo adulto ed altri saggi. Firenze, Martinelli, 1972.

Klein M. (1960). A Note on Depression in the Schizophrenic. In M. Klein, Envy and Gratitude and Other Works 1946-1963, 1984. Trad. it. in Richard e Piggle, 1/96, 3-8.

Klein M. (2017). Lezioni sulla tecnica. Trad. it., Milano, Cortina, 2020.

Spillius E., O’Shaughnessy E. (2012). Il concetto di identificazione proiettiva. Trad. it. Roma, Astrolabio, 2014.

Steiner R. (2007). Nota storico-critica. In: (a cura di D. Petrelli) Fantasia inconscia, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007.

 

 

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[1] M. Klein non ha mai mancato di ribadire “il lungo e duraturo influsso” dell’analisi infantile sul suo lavoro; scriveva infatti nel 1953: “Il mio lavoro, sia con i bambini che con gli adulti, e i miei contributi alla teoria psicoanalitica nel complesso, derivano, in definitiva dalla tecnica del gioco sviluppata con bambini piccoli” (Klein, 1953, 29).

[2] “Queste sensazioni (e immagini) sono una esperienza corporea, all’inizio scarsamente in grado di essere collegata ad un oggetto esterno e spaziale. Esse danno alla fantasia una concreta qualità corporea, una condizione me (me-ness) sperimentata nel corpo. A questo livello le immagini sono scarsamente, se non affatto, distinguibili dalle sensazioni reali e dalle percezioni esterne” (Isaacs, 1948, 41).

[3]“Sentimenti di depressione e di colpa, che hanno la loro più ampia espressione nella fase in cui si presenta la posizione depressiva, sono già operativi (secondo le mie più recenti convinzioni) nella fase schizo-paranoide” (Klein, 1960, 6).

[4] Riferendosi alla scoperta di Freud della polarità e dell’impasto delle pulsioni di vita e di morte, operanti fin dalla nascita scrive infatti: “Io ho potuto riconoscere l’operare di queste forze primordiali in conflitto tra loro osservando nei processi psichici dei bambini in tenera età la costante presenza della lotta tra la spinta irrefrenabile a distruggersi e quella a proteggersi, tra l’impulso ad aggredire gli oggetti e quello a salvaguardarli. Ciò mi ha consentito di comprendere più a fondo l’essenziale importanza clinica della concezione di Freud delle pulsioni di vita e di morte” (Klein, 1958, 540).

[5]“Nei pazienti schizoidi l’assenza di angoscia è solo apparente. I meccanismi schizoidi implicano infatti la dispersione delle emozioni, e quindi anche dell’angoscia, ma pur disperse esse sussistono sempre nei pazienti. […] allorché le emozioni erano assenti, le relazioni erano vaghe e incerte, e parti della personalità erano sentite come perdute, tutto pareva morto. Ora questo è appunto l’equivalente di un’angoscia gravissima. Essa è tenuta latente dalla dispersione ed è provata continuamente” (Klein, 1946, 431).

Diomira Petrelli, Napoli

Centro Napoletano di Psicoanalisi

mh5389@mclink.it

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