Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori e Angela Ciani
Titolo:L’heure de l’ours (L’ora dell’Orso)
Dati sul film: regia di Agnese Patrono, Francia, 2019, 13′
Corto di animazione, senza dialoghi.
Nelle notti nei boschi
i bambini persi chiamavano
per essere trovati.
Non c’erano le stelle?
Le stelle erano gli occhi dei lupi
non c’era la luna?
La luna era le fauci dei lupi
i bambini persi erano spaventati?
Sì, chiamavano tanto.
Svegliavano gli animali addormentati.
(“I bambini persi”, Vivian Lamarque 1992)
“L’heure de l’ours” (2019) è un cortometraggio della regista francese Agnès Patron, presentato al 72esimo Festival del Cinema di Cannes, vincitore di prestigiosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio César come miglior cortometraggio d’animazione. La sceneggiatura è stata scritta assieme alla scrittrice Johanna Krawczyk ed è stato realizzato con acquerelli colorati su carta nera. Le immagini sono accompagnate da una musica incalzante, ripetitiva e avvolgente, molto suggestiva, del compositore e sound designer Pierre Oberkampf.
Ne vogliamo condividere la visione (necessaria prima della lettura) perché, in poco più di una decina di minuti, il film riesce a far cogliere e riconoscere allo spettatore alcuni aspetti fondamentali dei sentimenti di rabbia vissuti nell’infanzia, che tanti studi scientifici hanno affrontato[1]. Non ci soffermeremo su quelli, quanto piuttosto sul sottolineare la capacità delle immagini di far esperire emozioni, smuovere ricordi e stimolare affetti che possono essere trasformati in pensiero e sollecitare riflessioni. Le abbiamo associate alla toccante poesia di Vivian Lamarque (1992), posta in esergo, i cui versi sembra trovino parole che risuonano quasi magicamente con le immagini del film, amplificandone il senso.
Lamarque usa un linguaggio limpido e deciso, con rime semplici e verbi coniugati dell’imperfetto, conferendo ai versi connotazioni fiabesche che colgono il senso di smarrimento e di paura dei bambini che si sono persi[2]. Sullo stesso registro giocano le immagini di questo film, che richiamano le fiabe tradizionali studiate da Bettelheim (1976, 12-13), secondo il quale esse “hanno un valore senza pari: offrono nuove dimensioni all’immaginazione del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso”. Ponendo il bambino di fronte a passaggi evolutivi fondamentali nel processo di crescita (dall’integrazione di aspetti buoni e cattivi dell’oggetto, all’angoscia di separazione, al superamento dell’Edipo, solo per citare i principali) lo aiutano a “comprendere quanto avviene nella sua individualità cosciente in modo da poter affrontare anche quanto accade nel suo inconscio […] non attraverso una comprensione razionale della natura e del contenuto del suo inconscio, ma familiarizzandosi con esso, intessendo sogni ad occhi aperti: meditando, rielaborando e fantasticando intorno ad adeguati elementi narrativi in risposta a questioni inconsce”.
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[1] Questo scritto è frutto della revisione e dell’elaborazione, da parte delle autrici, della relazione “La rabbia infantile”, presentato da Angela Ciani durante il Seminario “Rabbia e aggressività nel ciclo della vita”, organizzato nel novembre 2023 dall’Associazione per la Ricerca e Formazione sulle Psicoterapie Brevi.
[2] https://www.treccani.it/magazine/chiasmo/lettere_e_arti/Paura/Vivian_Lamarque_Pilati_Paura.html
Ma le fiabe, raccontate o guardate, sono fonte di conoscenza di se stessi in tutte le età della vita. “L’heure de l’ours” trasporta infatti anche lo spettatore adulto, accompagnato dal bambino protagonista della storia, nel territorio di quell’infanzia che è stata anche sua, dove l’immaginazione e la fantasia prendono il sopravvento sulla realtà. I disegni compongono e scompongono personaggi e situazioni enigmatiche, perturbanti, dalla consistenza onirica.
Il critico cinematografico Adrien Corbeel[1] sintetizza come meglio non si potrebbe tutti gli elementi salienti di quest’opera. Afferma che qui si tratta di “un’immaginazione che non ha nulla di innocente: le case bruciano, gli adulti si accoppiano e un orso gigantesco si aggira. Su uno sfondo nero emerge tutta la rabbia di un ragazzino che osserva gelosamente la madre con un uomo. Incubo edipico? Tra gli altri. Svolgendo un susseguirsi di sequenze oniriche e sorprendenti, la regista Agnès Patron ci immerge nella tempesta interiore del suo piccolo personaggio, ignorando la linearità o la plausibilità. Il suo approccio affascina tanto quanto sconcerta: le sue magnifiche immagini le cui linee colorate bruciano nell’oscurità, seducono, poi creano ansia. Un disturbo rafforzato dalla colonna sonora che ripete instancabile una melodia inebriante mista a suoni discordanti. Dopo averci resi prigionieri della crudele agitazione di un bambino per una dozzina di minuti, il cortometraggio ci libera dal suo giogo, non senza aver lasciato un segno indelebile nelle nostre menti con visioni sconcertanti. Chi ha detto che l’immaginazione infantile non è altro che dolcezza?”.
L’orso, come rappresentazione e proiezione all’esterno degli aspetti più arcaici e istintuali del bambino, sembra assume una funzione difensiva e nel contempo protettiva del Sè.
L’intento dichiarato della regista è che “qualcosa di selvaggio, prezioso e bello rimanga”[2], penetrando nello spettatore e fluendo attraverso il processo primario del sogno, (Freud, 1899). Sono “ sensazioni” e “strappi di ricordi” a guidare la mano dell’artista, che voleva “rendere giustizia alla rabbia infantile che può abitarci, anche da adulti”. Racconta di avere un figlio e che “la sua crescita ha contribuito a ispirare la sceneggiatura. A un certo punto del suo sviluppo ha avuto grandi scoppi di rabbia”. Questi comportamenti hanno avuto su di lei un grande impatto, ricordandole stati d’animo vissuti da bambina e portandola a immedesimarsi nel figlio. Svela inoltre[3] di non essersi lei stessa del tutto lasciata alle spalle il “crudele mondo dell’infanzia, meno ideale di quanto spesso cerchiamo di raccontarci” e di aver fatto del suo meglio per “evocare il vortice di emozioni contraddittorie che abitano il piccolo protagonista”.
Sappiamo che l’espressione artistica può fungere da veicolo per esplorare, elaborare e condividere esperienze personali e stati d’animo complessi. Costruendo, come in questo cortometraggio, una narrazione visiva della propria storia, la regista può anche aver sperimentato un’esperienza catartica, liberando proprie emozioni altrimenti inesprimibili.
Tuttavia il cinema è in primis luogo di incontro e scambio tra le immagini e il suo spettatore, entrambi con la propria e, nello stesso tempo, unica e molteplice identità. Il film è quello che si riceve e nel contempo quello che si fa emergere e l’intensità emotiva che impregna la percezione dipende da come e quanto le immagini si incontrano con le rappresentazioni mentali, con i bisogni profondi e con la storia di ogni spettatore (Marchiori, 2006, 79). Questo cortometraggio si rivolge direttamente all’inconscio dello spettatore, che solo in après coup può ricostruire una narrazione secondo il processo secondario, attraverso le libere associazioni, proprio come nella stanza d’analisi con il racconto del sogno e con la sua interpretazione.
Nella presentazione del libro di Dina Vallino Raccontami una storia (1998) Antonino Ferro scrive che in ogni operazione interpretativa sarebbe necessario assumere quanto proviene dal paziente, trasformarlo, renderlo visibile, operare quindi delle trasformazioni del non pensabile. Questo film ha la capacità di rendere visivamente, trasformandoli in immagini, affetti e sentimenti profondi, permettendo allo spettatore di farne esperienza e aprire alla pensabilità.
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[1] https://www.rtbf.be/article/decouvrez-l-heure-de-l-ours-cesar-du-court-metrage-d-animation-2021-10721265
https://www.shortoftheweek.com/2021/02/19/and-then-the-bear/
Secondo Vallino (1998, 58) “l’essere capito per un bambino piccolo è tutt’uno con il suo sentimento di esistere”. La regista rende bene il sentimento di “non esistere”, di non essere visto, nella scena in cui un cowboy spara al bambino, che rappresenta forse anche la proiezione del suo desiderio omicida nei confronti degli adulti che lo escludono.
Questo bambino improvvisamente non è solo, ma si trova con altri bambini a cavalcare orsi che corrono in modo selvaggio. Oppure è sempre lui, che cerca di domare le tante pulsioni che abitano caoticamente il suo mondo interno? Tanto caoticamente da portarlo all’esplosione, alla frammentazione?
Come afferma Marcoli (1996, 21) “restituire un senso alle nostre rabbie può allora essere un tentativo di recupero delle emozioni che ci stanno dietro, anche quando sono faticose da gestire e da tollerare, sapendo che anch’esse hanno un inizio, un evoluzione e una fine come in genere tutte le cose del vivere”, in modo da “recuperare noi stessi e la nostra storia”. Al protagonista del film manca quello che questo stesso autore definisce “un testimone soccorrevole”, ovvero “un adulto che capisca il bambino e stia davvero dalla sua parte, aiutandolo a usare le sue risorse in modo evolutivo” (ibidem, 11).
Non c’è qualcuno ad accogliere il suo sentimento di abbandono, di tradimento, di rabbia, a proteggerlo dall’esposizione a una scena primaria violenta. È lui stesso ad incarnare tutto ciò nell’orso, animale feroce e spaventoso che, da solo, si trova ad addomesticare per sopravvivere psichicamente.
Bibliografia
Betteleheim B. (1976). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano: Feltrinelli, 2013.
Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni. O.S.F. 3.
Ferro A. (1998). Introduzione. In: Vallino D., Raccontami una storia. Dalla consultazione all’analisi dei bambini, 11-13. Roma: Borla.
Lamarque V. (1992). Il signore degli spaventati. Forte dei Marmi: Pegaso.
Marchiori E. (2006). Io chi? Riflessioni sull’identità attraverso il cinema. In (M. De Mari, E. Marchiori,L. Pavan, a cura di), La mente altrove. La sofferenza mentale al cinema. Milano: Franco Angeli, 66-78.
Marcoli A. (1996). Il bambino arrabbiato. Favole per capire le rabbie infantili. Milano: Mondadori.
Vallino D. (1998). Raccontami una storia. Dalla consultazione all’analisi dei bambini. Roma: Borla.
Elisabetta Marchiori, Padova
Centro Veneto di Psicoanalisi
Angela Ciani, Padova
Psicoterapeuta
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