Il Perturbante come motore della Speranza.

A proposito del 50esimo anniversario de “L’esorcista”, di William Friedkin (1973).

di Angelo A. Moroni

L'esorcista

“Padre Karras: ‘Dov’è Regan?’

Regan MacNeil [Voce da posseduta]: ‘Qui dentro. Con noi’”.

(Jason Miller/Padre Karras e Linda Blair/Regan MacNeil)

 

Fin dalle sue origini il Cinema si è presentato agli occhi dello spettatore come un “oggetto evocativo” (Bollas, 2007), cioè un oggetto di fruizione costituito e costruito attraverso una materia visivo-emotiva molto simile a quella con cui la nostra mente costruisce e fa esperienza dei sogni notturni. Possiamo altresì affermare che fin dalla sua nascita l’arte cinematografica si è mostrata come fenomeno perturbante, basti pensare al cortometraggio “Arrivée d’un train à la Ciotat”, proiettato al Salon Indien del Grand Cafè di Parigi il 6 gennaio 1896 dai fratelli Lumière: durante la proiezione del breve filmato che mostra una locomotiva che si muove verso la cinepresa, molti spettatori lo scambiano per un treno reale, e fuggono dalla sala terrorizzati. Nel corso della sua storia il Cinema ha continuato e tuttora continua ad agitare il sonno degli spettatori, a nutrirne l’immaginario, ad ampliarne la tavolozza emotiva, ad appassionarli, a farli innamorare. È in particolare quello horror il genere cinematografico che si è da sempre impegnato a ben rappresentare le nostre angosce personali e sociali, i più vari “terrori senza nome” (Bion, 1962) dello spettatore, e questo con prodotti artistici che, in molti casi, hanno attraversato la storia del Cinema mantenendo inalterato il loro impatto emotivo, transgenerazionalmente, potremmo dire. L’immagine perturbante, e la sua stessa percezione, ricostruiscono un confine che l’Io interpreta come “pelle psichica” (Anzieu, 1985), come frontiera familiare. Il Cinema del Perturbante sembra perciò condensare questo duplice movimento, intrinseco alle parti più primitive dell’Io del soggetto: da una parte evoca la morte dell’Io mediante una paventata-evocata frantumazione dei suoi confini intesi come “pelle psichica”; dall’altra genera significazione, cioè un nuovo confine psichico, attraverso il faticoso lavoro della raffigurabilità, per di più, nel punto di intersezione e relazione interumana tra l’inconscio del Sé-spettatore e quello del Sé-regista. Personalmente credo che il valore culturale e “transizionale” (Winnicott, 1971) del Perturbante cinematografico consista appunto in questa sua intrinseca potenzialità creativa che oscilla continuamente tra cotruzione e de-costruzione di un “confine” e di uno spazio mentale-gruppale-culturale (vedi Moroni, 2019).  Mirabile esempio di Perturbante che mantiene nel tempo una sua inossidabile tempra emotiva, nonché una permanenza del suo depositarsi nell’inconscio di chi guarda lasciandovi un’impronta indelebile, è certamente “L’’esorcista” (1973), di William Friedkin, film che quest’anno compie cinquant’anni. Potremmo ben dire, nel caso di quest’opera fondamentale, “cinquant’anni e non sentirli”. Il film è la trasposizione piuttosto fedele del romanzo di William Peter Blatty, che scrisse anche la sceneggiatura del film. Molto ben accolta dalla critica dell’epoca, quest’opera ricevette inoltre due Premi Oscar (1974, Miglior sceneggiatura non originale e Miglior colonna sonora), nonchè quattro Golden Globe (1974, Miglior film drammatico, Migliore Regia a William Friedkin, Miglior attrice non protagonista alla dodicenne Linda Blair). Il romanzo di Blatty era stato ispirato all’autore dalla lettura di un articolo del Washington Post, nel quale si descriveva un presunto esorcismo praticato ad una quattordicenne nel Maryland molti anni prima.

L’elemento che rende particolarmente inquietante il film di Friedkin è la subdola, graduale ma inesorabile irruzione del Male sotto forma di sovrannaturale inspiegabile nella vita quotidiana di una famiglia americana. Tutto il film gioca su un Perturbante  che trasforma il familiare in uno straniamento potente, mediato, in sottile filigrana, dal tema della sessualità preadolescenziale in statu nascendi della giovane Regan: una sessualità demoniaca, vissuta come morte e distruzione.

Protagoniste del film sono Chris MacNeil (Ellen Burstyn), una giovane attrice divorziata, e la sua figlia dodicenne Regan. Le due si sono da poco trasferite a Georgetown per le nuove riprese di un film a cui Chris partecipa. Di lì a breve, la loro tranquillità viene stravolta da una serie di inspiegabili fenomeni: il letto di Regan comincia a muoversi da solo e la ragazza inizia a dare segni di squilibrio psichico. Psichiatri e neurologi da cui viene esaminata non riescono però ad aiutarla, e la causa del suo malessere appare sempre più come una possessione demoniaca. A Chris non rimane allora altra scelta che sottoporre la bambina ad un esorcismo. Per compiere l’atto, viene chiamato il sacerdote Lankester Merrin (Max Von Sydow), poi sostituito da Padre Karras (Jason Miller) il quale sembra essere l’unico in grado di contrapporrsi al potere e alla distruttività del demone.

 

Direi che il nucleo organizzatore centrale del film lo ritroviamo nell’assenza del padre, oggetto traumaticamente abbondonico, a cui fa da pendant un assetto narcisistico materno che viene rotto dall’adolescenza di Regan, lasciata completamente sola a gestire il “demone” delle proprie fantasie incestuose e conflittuali. Si tratta di fantasie che rimangono compresse e sepolte, ma che nel film poi esplodono utilizzando un immaginario sovrannaturale visionario e polisensoriale per liberarsi selvaggiamente attraverso il corpo martoriato di Regan.

La sequenza della ragazzina posseduta che si percuote gli organi genitali con un crocifisso fino a sanguinare, possiede anche ai giorni nostri una potenza emotiva di fronte alla quale è impossibile non rimanere profondamente scossi.

Più sopra ho utilizzato l’aggettivo “polisensoriale” non a caso: l’opera di Friedkin obbliga infatti lo spettatore ad attivare tutti i suoi sensi, con l’intento di farlo sentire immerso in quella corporeità adolescenziale deflagrante e pantoclastica che Regan rappresenta.

L’architettura iconografica con cui è allestito il film ci fa percepire con immediatezza straniante l’organismico, il materico, il mestruale. Ma anche il sonoro, scelto e dislocato nei punti giusti a contrappunto delle immagini con maniacale attenzione da parte del regista, possiede un potere raggelante.

In particolare il tema musicale centrale del film, Tubular Bells, tratto dall’omonimo album di Mike Oldfield, fa risuonare in noi angoscianti sensazioni che rimandano ad un inanimato e metallico mondo emotivo che mai vorremmo conoscere, ma che siamo costretti ad incontrare.

A dispetto di quella piccola parte della critica cinematografica che ha voluto interpretare il film come una deriva cattolico-reazionaria volta a stigmatizzare i pericoli della rivoluzione sessuale dei movimenti hippies degli anni ’70, l’effetto complessivamente traumatico e perturbante del film lo rende un vero e proprio unicum del genere horror.

La magistrale regia di Friedkin riscrive infatti i canoni stilistici dell’horror stesso, e bisognerà arrivare ad altrettanti chiavi di volta del genere, come “A’ l’intérieur” di Alexander Bustillo e Jean Maury (2007) e “Martyrs” di Pascal Laugier (2008), per trovare opere capaci di eguagliare la spiazzante poetica perturbante del regista di Chicago.

 

Al di là dei suoi intrinseci pregi estetici, visto alla luce della contemporaneità e dopo cinquanta’anni, questo film può ancora farci riflettere sulla violenza esplosiva, psicotica, incontenibile che può albergare e amplificarsi nelle nuove generazioni, se alle loro sofferenze e al loro bisogno di riconoscimento non viene data la giusta voce da un mondo adulto completamente distratto dai propri specchi narcisistici, dai propri feticci consumistici, dalle proprie insoddisfazioni e paure.

In un articolo pubblicato su “La Repubblica” nel 2019 dal titolo emblematico “La speranza è l’unico esorcismo”, è proprio Friedkin a ritornare sul tema del futuro e sul fatto che possiamo ritrovare la speranza proprio nelle nuove generazioni: “Oggi trovo la speranza in alcuni piccoli dettagli della vita quotidiana. Un team di robotica di un liceo ha messo a punto una sedia a rotelle per un bambino quando i genitori non potevano permettersene una. Un adolescente africano ha costruito mulini a vento utilizzando materiale riciclabile come le biciclette per fornire l’elettricità al suo villaggio”.

Uno sguardo, quello del regista, che sposta la nostra attenzione dall’adolescenza come età di turbolenza, crisi, dolorosa rottura della “pelle psichica”, a momento fondamentale in cui ritrovare la speranza non solo per il soggetto, ma anche per l’intera umanità. Uno sguardo registico e insieme umano che riesce quindi a cogliere nel Perturbante il significato di motore della speranza stessa.

 

Bibliografia

Anzieu, D. (1985), L’Io pelle, Borla, Roma, 1987

Bion, W.R. (1962), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972

Bollas, C.(2007) Il mondo dell’oggetto evocativo, Astrolabio, Roma 2009

Friedkin, W. (2019), La speranza è l’unico esorcismo”, in “Robinson”, inserto de “La Repubblica”, 29/06/2019, pp. 20-21

Moroni, A.A. (2019), Sul Perturbante. Attualità e trasformazioni di un’idea freudiana nella società e nella clinica psicoanalitica di oggi, Mimesis Edizioni, Milano.

Winnicott, D.W. (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974

Angelo A. Moroni, Pavia

Centro Psicoanalitico di Pavia

moroni.angelo03@gmail.com

 

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