Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
Lavoro presentato al CVP nel corso dell’anno 1993-1994
di Martin Wangh, M.D.
“Solo nei limiti in cui riconosciamo quello che è successo e perché è successo, e confessiamo le vie attraverso le quali abbiamo partecipato alla sua programmazione, possiamo noi tedeschi essere guariti”, dichiarò Alexander Mitscherlich nel 1947, dopo aver assistito ai processi di Norimberga.
In quanto segue tenterò di tracciare il corso di tale processo di guarigione all’interno della comunità psicoanalitica tedesca.
Dopo un preambolo un po’ prolisso, parlerò anzitutto della “liquidazione della psicoanalisi” in Germania sotto il regime nazista e della soppressione di sensi di colpa e di vergogna da parte di quelli che vi hanno preso parte. Tratterò in seguito della trasmissione di tali sentimenti rimossi alla generazione successiva, che si è alla fine ribellata all’essere stata resa erede di tale cecità. A conclusione porterò una proposta che potrebbe promuovere un alleviamento del peso di colpa e vergogna che grava sulla generazione postbellica di psicoanalisti tedeschi, così come su quelli che sono i discendenti delle vittime del nazismo.
Tre avvenimenti mi incoraggiano a scegliere un argomento così sensibile per la mia conferenza. Primo, sono stato onorato di un invito a tenere la conferenza annuale organizzata dalla Freud Foundation tedesca all’Università di Francoforte. Ho sentito di essere stato scelto come rappresentante dei pochi di noi ancora in vita, che hanno vissuto l’ascesa del nazismo come giovani adulti politicamente consapevoli e che hanno avuto la fortuna di scampare alla sorte di sei milioni di ebrei trucidati.
Secondo, poco prima di ricevere tale invito, ho ricevuto una lettera di due insegnanti della Università di Amburgo nella quale mi chiedevano di dare un consiglio su come insegnare in maniera significativa, nel contesto del sistema educativo tedesco, la Shoah, il genocidio di ebrei e zingari.
Il terzo stimolo a scegliere questo argomento è stato l’allora recente contributo di Margarete Mitscherlich Nielsen, in cui una volta di più raccoglieva le idee espresse da lei e da suo marito nel loro libro del 1967 “L’incapacità di essere in lutto” [Die Unfaehigkeit zu trauern].
Al fine di giustificare cosa dia diritto a me, un estraneo, di parlare di un processo così intimo come il lutto degli psicoanalisti tedeschi per il passato nazista, dovrò rivelare alcuni aspetti della mia storia personale, i quali mi sono divenuti chiari solo attraverso uno sforzo penoso, e con l’aiuto di diverse analisi.
Guardando retrospettivamente, la sensazione di essere escluso e l’ardente desiderio di far parte sono state importanti costanti nella mia vita. Non mi soffermerò qui sulle loro radici puramente personali e familiari, ma tratterò solo di quelle che sono state sociali sin dall’origine, benché sia perfettamente consapevole che esse sono inestricabilmente intessute l’una con l’altra.
Sono nato a Lipsia in una famiglia ebraica proveniente dall’est europeo. I miei genitori e i miei nonni, come molti altri in questa comunità ristabilita, allora, abbastanza di recente, provenivano originariamente dalla Galizia, che faceva parte, a quel tempo, dell’impero austriaco. Piuttosto presto, nel 1915, all’età di tre anni circa, ci trasferimmo da un quartiere essenzialmente ebraico, in uno in cui la maggioranza era costituita da protestanti appartenenti alla basso-media borghesia. Il giorno in cui ci trasferirono mio fratello, di poco più vecchio di me, ed io portavamo per caso calzoncini rossi di maglia. Immediatamente i bambini del nuovo quartiere ci soprannominarono: “Franzosen mit den roten Hosen” (i francesi dai pantaloni rossi). In quel momento, il primo anno della prima guerra mondiale, ogni ricordo della vittoria tedesca del 1870 sui francesi, i cui soldati portavano allora pantaloni rossi come parte dell’uniforme, era gradito. Presto, però, si seppe che eravamo ebrei, e da quel momento, mentre eravamo liberi di giocare con i bambini in strada, non fummo mai invitati in nessuna delle loro case.
Lo stesso anno, 1915, mio padre fu arruolato nell’esercito austriaco, e da allora in poi fu lontano da casa per tre anni.
Ricordo come guardavo con gran diletto, dalla nostra finestra, i soldati marciare attraverso la città, accompagnati dalla fanfara che suonava la “Tschingdarassa Bumdarassa” (un motivo di marcia allora popolare), o un gruppo di prigionieri francesi che veniva fatto sfilare oltre la nostra casa. La carestia del 1917, che ebbe impatto su ogni città industriale tedesca, ci colpì duramente, come del resto colpì tutti i nostri vicini.
All’età di circa otto anni, seguendo le orme dei miei fratelli maggiori, entrai nel movimento giovanile sionista. Il “Blau-weiss“, come veniva chiamato, era stato creato nel 1909 come reazione al crescente antisemitismo dell’anti-borghese, all’origine ‘Wandervogel” (uccelli migratori). Come i movimenti giovanili tedeschi cristiani, facevamo escursioni per valli e colline della campagna tedesca; la maggior parte delle nostre canzoni venivano dal loro libro di canzoni, il Zupfgeigenhansel, solo qua e là una canzone ebraica o perfino jiddish trovava posto tra le nostre canzoni. Alla luce guizzante del falò i giovani membri adulti del nostro gruppo si “impegnavano” ad andare come pionieri in Palestina, e noi, i più giovani, “promettevamo” di fare io stesso una volta cresciuti.
Nel 1927, in conseguenza delle difficoltà economiche in Palestina e sotto la pressione dei tumulti arabi, il Blau-weiss cessò di esistere. Quanti di noi rimasero insieme fondarono il KADIMAH (avanti), prima, e più tardi il BRIT HAZOFIM HAIVRIM (l’Unione degli Scout Ebrei). Ma, come accadde alle organizzazioni giovanili tedesche, noi pure divenimmo sempre più politicizzati e sempre più militarizzati. Noi eravamo gli stramm (i forti) ragazzi ebraici. In mancanza di accettazione nella società germanica, noi creammo il nostro proprio nazionalismo per difetto. Esattamente come gli adolescenti tedeschi all’inizio degli anni trenta, anche noi desideravamo essere sotto un fermo comando. Uno dei miei compagni, con l’umorismo nero di un adolescente, propose perfino la creazione di un MENSCHEN – VERWERTUNGSGESELLSCHAFT (una società per l’utilizzo dei resti umani). Il mio compagno disse questo non soltanto come reazione al conscio Zeitgeist di efficienza e alla comune grossolanità di sentimenti, ma anche come una inconscia reazione di necrofilia alla fantasia di incorporazione dei corpi dei morti. (Incidentalmente, più tardi, in Palestina, e nel giovane stato d’Israele, questo stesso compagno divenne un eccellente archeologo). La sua proposta precedeva il più ripugnante degli atti nazisti, che stava per essere realizzato di lì a poco “en masse” in realtà, insieme alla loro infatuazione per l’idea di morire per la patria e alle loro fantasie di ricongiungimento con i loro eroi in un “wallhalliano” “Goetterdaemmerung” [crepuscolo degli dei].
Durante i miei nove anni di studi al Koenig Albert Gymnasiurn – una scuola superiore con indirizzo “umanistico” – ho avuto la sensazione che, come unico, e perciò rappresentativo, ebreo della classe, avevo il dovere di eccellere negli studi e negli sport. Durante il mio ultimo anno di studi ricevetti il Premio Bismarck per un saggio su “Bismarck e liberalismo”. Il premio mi fu consegnato dal nostro insegnante di tedesco con queste parole: “Dal momento che nessuno degli studenti tedeschi ha scritto un saggio sufficientemente buono, debbo consegnare il premio a Wangh”.
Al tempo della nostra licenza liceale nel 1931, almeno un terzo dei miei compagni di classe erano già attivi nella S.A. (le truppe d’assalto naziste, un’organizzazione paramilitare). Lo stesso anno venni accettato alla scuola di medicina dell’Università di Amburgo, ma appena due anni dopo, il primo di aprile 1933, interruppi gli studi; non volevo sottomettermi alla segregazione degli studenti ebrei pianificata dai loro colleghi tedeschi. Ritornai a Lipsia e per mezzo anno vissi in una penosa indecisione: dovevo continuare i miei studi di medicina altrove in Europa, o dovevo piuttosto, in qualità di accompagnatore adulto, condurre un gruppo di un centinaio di bambini in Palestina, come parte della Aliya dei giovani? (A quel tempo gli inglesi, depositari del mandato sulla Palestina, permettevano il libero ingresso solo a bambini al di sotto dei sedici anni; ebrei adulti erano ammessi solo entro una quota limitata). [Ndc.: Aliya – immigrazione ebraica in Palestina]
Ho impresso nella mente un episodio di questo periodo. Ero andato in bicicletta a un vicino campo aperto dove (al tempo della grande Fiera di Lipsia) veniva tenuta la “Piccola Fiera”. Il campo era in quel momento libero dalle baracche che lo ingombravano nel periodo della fiera. Mi imbattei in una colonna di uomini delle S.S. e S.A. in marcia. Essi si fermarono, io ero curioso, e avvicinandomi mi trovai inaspettatamente preso all’interno del quadrato da loro formato. Robert Ley, nominato di recente da Hitler capo del Fronte del Lavoro Tedesco, si fece avanti e parlò al gruppo. Egli terminò il suo discorso con ripetuti “Sieg Heil!”. Io ero in prima fila. Impaurito, alzai il braccio assieme a tutti gli altri intorno a me. Ma era solo paura quello che mi assalì? Non era anche vivo in me il desiderio di far parte? Non era, una volta di più, soprattutto la vecchia infantile immagine dei militari, che mi indusse a lasciarmi attirare all’interno di quel gruppo in uniforme?
Infine, dopo sei mesi di esitazioni, decisi di continuare i miei studi di medicina. Scelsi Bologna, nell’Italia fascista, soprattutto per motivi economici. Di lì, dopo aver passato gli esami per la licenza di Stato, emigrai nel 1938 negli Stati Uniti, dove ho vissuto fino al 1984.
Ritornai per la prima volta in Germania nel 1959. Mi accompagnò mia moglie, ebrea nata in America. Arrivammo a Francoforte. Ma ci trattenemmo solo un giorno. Cosa mi spinse a lasciare la città, e la Germania, così frettolosamente? Una introspezione mi rivelò che non era l’improvviso emergere di odio o paura a turbarmi – al contrario, era il risvegliarsi del patriottismo germanico. Mi trovai a voler mostrare a mia moglie con orgoglio ciò che il ‘Wirtschaftwunder” aveva realizzato nel breve spazio di tempo dalla fine della guerra. Le strade erano gaiamente illuminate, le vetrine dei negozi piene di merce. Tutto ciò era in forte contrasto con Parigi, da cui eravamo appena venuti, la quale era ancora buia e sporca. A Francoforte ogni segno visibile di distinzione era già svanito, a differenza di Londra e Ostenda, dove le rovine della guerra erano ancora considerevoli. Il mio conflitto interiore tra odio recente e antico amore divenne insopportabile, mi allontanai da esso quanto più in fretta potei.
Alquanto inaspettatamente tornai in Germania tre anni più tardi. Nel 1959 Rudolph Loewenstein, mio stimato maestro di psicoanalisi, era stato invitato a partecipare a un convegno della Deutsche Gesellschaft fuer Psychologie und Tiefenpsychologie (La Società Tedesca di Psicologia e Psicologia Profonda) che doveva tenersi nel 1961. Il tema del Convegno era l’antisemitismo. Essendo l’autore di un libro di gran valore sull’argomento, il Dott. Loewenstein era invitato a far parte del panel. Non essendo personalmente in grado di accettare l’invito, mi pregò di andare in sua vece. Ciò mi concesse due anni per vagliare, almeno a un certo livello, i miei sentimenti sulla Germania, il suo antisemitismo e il terrore nazista. Da quel convegno nel 1961 sono tornato in Germania piuttosto di frequente, ma mai semplicemente per diletto o per il piacere di girovagare; avevo sempre un incarico da portare a termine.
Passerò ora all’altro avvenimento che mi ha motivato a parlarvi sul tema: “elaborazione dell’esperienza nazista all’interno della comunità psicoanalitica tedesca”. Come ho accennato precedentemente, ho ricevuto una lettera da due docenti dell’Università di Amburgo, lettera che mi ha toccato moltissimo. I firmatari erano molto espliciti a proposito dei rispettivi anni di nascita: 1941 e 1945. Essi scrivevano che nel 1989 tennero un seminario su “antisemitismo ed educazione”. Cito qui parti della lettera: “(Noi avvertiamo) un’urgente necessità di occuparci più a fondo di questo argomento… gli studenti “nati tardi” (volevano) una guida su come far fronte al vivere in Germania dopo Auschwitz; come poter restare qui, volendo confrontarsi seriamente con il passato (tedesco). Noi ci troviamo a disagio con la seducente frase “la benedizione di essere nati tardi” (die Gnade der spaeten Geburt – frase usata dal cancelliere Kohl in un discorso pubblico) – (noi non vogliamo) ricorrere ad essa per noi stessi…. Il nostro punto di partenza è che dopo Auschwitz i tedeschi hanno una responsabilità particolare riguardo al loro passato e verso coloro che sono stati perseguitati e banditi. A nostro avviso questa responsabilità non perde nulla della sua validità, né al presente né per il futuro”.
Gli autori della lettera lamentavano poi come non ci fosse alcuna letteratura storica, sociologica o psicologica, inerente alla questione della responsabilità del ‘nato tardi’… Essi si chiedono: “Come si può giustificare tale responsabilità per chi è nato dopo la guerra? Cosa significa, in termini concreti, questa richiesta?”.
La mia risposta a queste domande fu, anzitutto, quella di uno psicoanalista che si occupa delle motivazioni inconsce nella psiche. Io scrissi che noi psicoanalisti non crediamo che un figlio – come individuo indipendente – debba soffrire di sentimenti di colpa, consci o inconsci che siano, per quanto abbia potuto commettere suo padre. Ciononostante, poiché questi sentimenti sono sempre presenti, la psicoanalisi potrebbe forse essere di aiuto nell’esplorare le origini inconsce del peso interiore rappresentato da questi sentimenti, e di conseguenza apportare un certo sollievo. Un’analisi deve rivelare cosa sia stato rimosso o negato. Deve penetrare la complessa struttura delle identificazioni, portarle alla superficie e rendere accessibili a una discussione i sentimenti ambivalenti che sempre esistono tra genitori e figli. La resistenza a tale esposizione è enorme. Può manifestarsi, come hanno mostrato i Mitscherlich, come “incapacità di essere in lutto” per i genitori eventualmente persi nella guerra, e anche per gli “ego-ideals” perduti.
Più tardi, scrissi che affinché i miei corrispondenti di Amburgo potessero conseguire un sollievo dalla colpa e dalla vergogna per il passato germanico che pesava sui loro studenti, essi stessi dovevano superare gli ostacoli interni che impedivano il fluire della curiosità naturale che porta uno a indagare su se stesso e sul passato della propria comunità.
Ma, come sappiamo, la psiche comprende non solo ciò che è inconscio, ma anche ciò che è conscio. Perciò la questione non è solo quella del “nato-tardi” che prende su di sé l’inconscia colpa trasmessagli dai genitori, ma anche della sua conscia accettazione di aver ereditato un paese completamente infetto da Auschwitz. Questa generazione si alimenta, per così dire, di questa eredità, la quale a sua volta dà sostegno al persistente senso di obbligo nei confronti di quanti furono trucidati durante l’Olocausto, di quanti sono sopravvissuti gravemente danneggiati, e dei loro discendenti che portano ancora le cicatrici delle sofferenze dei loro genitori. E un obbligo valido nei confronti di individui è efficace anche verso il popolo ebraico nel suo insieme, un terzo dei cui membri è stato cancellato, e che è stato così privato di almeno un terzo del suo potenziale spirituale, culturale ed economico. Aiutare questo popolo a rinnovarsi e a vivere in pace e sicurezza diviene una responsabilità per gli eredi tedeschi. Questo è quanto intese dire Richard von Weizsaecker, Presidente della Germania, parlando di responsabilità. Queste sono le concrete questioni di responsabilità di cui l’insegnante del “nato-tardi” in Germania deve essere consapevole.
Tuttavia, parte di quanto dovrebbe essere detto all’insegnante tedesco, è rilevante nello stesso modo per noi psicoanalisti. Siamo riusciti noi stessi a scoprire i nostri traumi e i conseguenti scotomi che la seconda guerra mondiale e la “Shoah” hanno posto entro di noi? Fino a che punto gli stessi psicoanalisti, specialmente in Germania – ma non solo lì – hanno superato l’incapacità di essere in lutto”? Siamo noi ora in grado di confrontarci con le nostre ambivalenze, e cioè di ammettere il nostro amore come il nostro odio – non solo per le vittime ma anche per i malfattori? Possiamo noi ammettere i nostri legami infantili e la nostra infantile identificazione con essi? Possiamo essere pienamente in lutto per loro, e poi serbarli unicamente come memorie? Possiamo prendere le distanze da essi e con ciò vederli come esseri umani distinti, e divenire così liberi di volgerci ad altri oggetti, di amore come di odio? Siamo in grado di sublimare in maniera creativa le nostre perdite?
Il libro dei Mitscherlich sulla “incapacità di essere in lutto” ci fornisce delle linee direttive per trattare di queste questioni. Per seguirle è necessario esaminare brevemente il corso del processo di lutto. Freud definisce l’essere in lutto come “la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne abbia preso il posto come Patria, Libertà, un Ideale e così via. L’essere in lutto “è straordinariamente doloroso”, porta con sé una “profonda diminuzione della stima per se stessi che si manifesta in auto-biasimo (come in malinconia). Il liberarsi dall’oggetto perduto può aver luogo solo contro una viva resistenza”.
Potete avvertire l’eco di questa descrizione, in particolare di tale umore depressivo, in quanto vi ho riferito della lettera dei miei corrispondenti di Amburgo. I Mitscherlich erano dell’opinione che la maniaca ricostruzione della Germania dell’Ovest, appoggiata dal piano Marshall, insieme alla formula negatrice della realtà, “il Terzo Reich è stato solo un sogno”, fu quello che salvò il popolo tedesco dal cadere in depressione.
Perfino prima della guerra, Helene Deutsch mostrò come “il processo di lutto, come reazione a una perdita reale deve essere realizzato fino in fondo. Se ciò non avviene, subentreranno altre reazioni estreme. Di frequente si manifestano depressioni persistenti e inaspettate, e spesso anche fenomeni psico-somatici”. Altri autori (Bowlby, Wolfenstein, Dietrich e altri) mettono in evidenza che un ego debole non può cimentarsi con l’azione di lutto. Questo fu, sicuramente, il caso di quanti, nei campi di concentramento, furono indeboliti dalla fame, degradati e intorpiditi dalla costante avvolgente presenza della morte; anche di quanti, da bambini, sopravvissero a bombardamenti e distruzione delle loro città, o perfino di quei soldati tedeschi che vissero per anni in prigionia russa. Come sappiamo, i sopravvissuti alla “Shoah” non hanno ancora la forza di passare attraverso il lutto, perfino ora, cinquant’anni dopo. Si è stabilita una congiura di silenzio dalle due parti, da quella del malfattore, come da quella delle vittime, oppresse da vergogna e colpa per il solo fatto di essere sopravvissute.
Come hanno messo a fuoco i Mitscherlich, “L’incapacità di essere in lutto per il Führer è il risultato di una forte difesa contro colpa, vergogna e ansietà, difesa conseguente alla brusca eliminazione di precedenti potenti cariche libidiche. I tedeschi hanno ricevuto un colpo proprio nel cuore della stima di se stessi e il lavoro più urgente è stato quello di respingere l’esperienza di un malinconico impoverimento dell’individuo”. (ibid. p. 2324 english).
I Mitscherlich ritenevano anche che il negare fosse una caratteristica predominante della personalità germanica dopo le due guerre mondiali. Dopo la prima guerra mondiale questo è stato senza dubbio un aspetto determinante dell’insegnamento della recente storia tedesca, come posso confermare personalmente. Nel mio “Gymnasium” la storia della prima guerra mondiale finiva con la vittoria di Tannenberg sui russi, nell’agosto del 1914. La necessità di chiudere gli occhi sulla realtà si è presentata anche in un altro modo nella mia scuola: copia della Costituzione di Weimar ci fu consegnata solo al momento della licenza liceale, e senza commento.
Trattando dell’argomento dell’esperienza nazista all’interno della comunità psicoanalitica tedesca, è estremamente importante ricordarci della prima guerra mondiale, perché ciò che accadde allora ha profondamente influenzato la generazione di coloro che divennero in seguito i leader di tale comunità.
Alla fine della guerra la Germania aveva subìto sei milioni di vittime, circa il dieci per cento della popolazione. Il Trattato di Pace di Versailles stabiliva perdita di terra, pagamenti enormi di riparazioni, occupazione del Rhineland e della industriale Ruhr, e così via. Il Trattato fu visto come una grande umiliazione. Per salvare l’orgoglio i tedeschi inventarono la leggenda della “coltellata alla schiena” (la Dolchstoss Legende). “Se non fosse stato per traditori come Erzberger (cattolico) e Rathenau (ebreo) – ambedue uccisi in seguito da estremisti di destra – la Germania non avrebbe perso la guerra”.
Quanto più si acuiva la crisi economica del dopo-guerra, tanto più gli appartenenti alla generazione di Hitler e mia, educati a tanta negazione, confluivano nel Movimento Nazional-Socialista, o in altri analoghi gruppi. La richiesta di rivincita riempiva le birrerie e i ranghi delle organizzazioni para-militari, che insieme la ispiravano e la promuovevano. La rivincita è la conversione in attività del Passivamente subito. La rivincita sostituisce il lutto. Essa eterna un conflitto, dal momento che incita indiscriminatamente la parte che ha subito le perdite maggiori a rinnovare le ostilità. Essa costituisce perciò la forma più nociva di difesa contro il lutto. Al livello più profondo, essa è alimentata da mito e fantasia, ed è perciò cieca alla realtà: è illimitata, e libera le emozioni e le forme di aggressività più regressive.
In Germania vi sono ovunque monumenti commemorativi ai soldati caduti nella guerra 1914-1918, ma alla caduta della grandiosa Germania di Bismarck e di Guglielmo, alla Germania sconfitta del 1918 non vi sono monumenti. Alla consapevolezza della degradazione dei padri e alla perdita del rispetto per se stessi subentrò un risentimento sempre più crescente contro l'”ingiustizia” del Trattato di Versailles. Un crescente fosco desiderio di rivincita favorì atteggiamenti sempre più crudi e crudeli. Non aveva affermato lo storico Treitschke, scrivendo ancora nel 1880, “Gli ebrei sono la nostra disgrazia”, proponendo perciò di usarli come capri espiatori? E fu così che dal 1939 in poi il mondo divenne spettatore di crimini mortali che venivano commessi contro gli ebrei per scoprire quanto prima, che esso stesso stava per essere inghiottito dallo smisurato appetito per la rivincita. Ora, benché io non creda che negazione e intolleranza per il passivamente subito, e la sua conversione in attività tramite la rivincita, siano attributi caratteristici esclusivi del popolo tedesco, bisogna tuttavia riconoscere che questo modo di respingere dolore e perdita ha permeato la storia tedesca per il secondo quarto del ventesimo secolo. La differenza tra l’esperienza della prima guerra mondiale della Germania e quella degli alleati sta non tanto nel numero di perdite subite – ciascuna delle parti perse quasi lo stesso numero di padri e fratelli dell’altra – quanto il fatto della sconfitta opposta alla vittoria. Questo causò in Germania un’enorme diminuzione di valore dei padri e dell’autorità, fatto che poteva essere superato solo tramite la negazione e il vivo bisogno di cancellare il passato con azioni di rivincita. Questi due metodi fornirono la materia prima all’ideologia e alla prassi naziste. Perdita, sconfitta, vergogna e umiliazione venivano cancellate attraverso l’identificazione con i padri e i fratelli maggiori in uniforme, che nel 1914 marciarono alla guerra con la Schinderassa [Ndc.: formule ritmate e fanfare] e le bandiere sventolanti.
Questi dati sulla prima guerra mondiale mi sembrano fondamentali per l’esperienza nazista all’interno della comunità psicoanalitica tedesca e per quanto seguì. Un lutto completo per i morti della seconda guerra mondiale, per i caduti aggressori come per le loro innumerevoli vittime, doveva realizzarsi contro una resistenza quasi invincibile. Ecco perché Mitscherlich parla di una “incapacità di essere in lutto”.
Cercherò ora di esaminare il modo in cui la comunità psicoanalitica tedesca si è avviata lungo questo lungo cammino del lutto. Eviterò quanto più possibile la confusione che si potrebbe creare col nominare i diversi autori che hanno qui avuto un utile ruolo. Farò solo rare eccezioni a questa intenzionale omissione. Desidero essenzialmente parlare delle tendenze e dei conflitti operanti in questo processo, come se stessi presentando i conflitti interni di un unico “corpus”.
La morte “ufficiale” della Società Psicoanalitica Tedesca – vale dire la cancellazione della sua registrazione nel bollettino delle associazioni autorizzate – ebbe luogo nel 1941. Tuttavia la “liquidazione” ufficiosa, come la definì Ernst Jones (come citato da Thomä p. 69), iniziò nel 1933 con le dimissioni di Max Eitington, il presidente ebreo dell’Istituto e della Società Psicoanalitica di Berlino. Dimettendosi, egli trasferì la direzione a due membri non ebrei. Poi venne la “Gleichschaltung“, l’esclusione di tutti i membri ebrei (un processo che ebbe luogo in tutte le istituzioni culturali tedesche). I due nuovi leader dell’Istituto e della Società Psicoanalitica di Berlino intrapresero viaggi separati a Vienna, cercando ognuno, per così dire, la benedizione di Freud per queste misure. La sua risposta sembrò loro non univoca. Uno di essi scrisse a Londra a Ernst Jones, il quale era allora presidente della Associazione Psicoanalitica Internazionale, raccontandogli di come sentisse pesante il cuore: “io sono devoto corpo e anima alla nostra scienza, e amo la mia patria” (p. 131). Va notato tuttavia che lo scrivente parla solo del suo attaccamento alla scienza della psicoanalisi e alla sua patria; non un accenno ad alcun sentimento per i suoi maestri ebrei, per i suoi colleghi ebrei e per gli aspiranti ebrei esclusi dalla Gleichschaltung.
In una precedente lettera lo scrivente si era lamentato con Jones che gli aspiranti ebrei, “probabilmente risentiti per i cambiamenti politici che stavano prendendo piede in Germania” (ibid. p. 69) non avevano pagato i loro contributi al fondo di istruzione delle Società.
Inevitabilmente nasce la domanda: cosa ha indotto i due leader e gli altri non ebrei nella comunità psicoanalitica tedesca a sottomettersi così di buon grado alle pressioni del regime nazista? Non poteva la Società sciogliersi di propria iniziativa, evitando la riorganizzazione forzata, come fecero in seguito la Società austriaca e quella olandese? Può essere il caso di far presente, a questo proposito, che i due non ebrei nominati a capo della Società di Berlino (allora l’unica Società psicoanalitica importante in Germania) nacquero nello stesso anno di Hitler. Essi appartenevano, perciò, alla generazione che visse durante quegli avvenimenti storici e politici che, come ho descritto, alimentarono il nazionalismo germanico e il desiderio di rivincita. In tre articoli, scritti nel 1962, nel 1964 e nel 1968, dissi quanto la generazione tedesca della prima guerra mondiale fosse stata colpita dal disastroso corso di quella guerra, e dalla miseria che ne segui. Per quanto mi risulta, nessuno dei nuovi leader del movimento psicoanalitico tedesco si poneva il minimo dubbio circa il proprio nazionalismo, così partecipi come erano dello Zeitgeist del loro tempo. Nel 1938 essi entrarono nello staff del Deutsche Institut für Psychologische Forschung di cui era a capo un cugino di Göring, Matthias Göring. Fu così che, con la loro collaborazione, l’Istituto Psicoanalitico di Berlino fu integrato in questa istituzione nazista come Sezione “A”.
Dopo la guerra, i leader della Sezione “A” litigarono fra di loro. Con la perdita del comune oggetto di amore, Hitler, si infranse il loro vincolo di fratellanza (Adorno 1951). Ciò divenne chiaro specialmente quando la ricostituita Società Psicoanalitica Tedesca cercò la riammissione alla Associazione Psicoanalitica Internazionale. Questo avvenne circa nel 1949, al tempo del primo congresso della Associazione del dopo-guerra a Zurigo. Ognuno dei collaboratori alla Sezione “A” cercò razionalizzazioni e giustificazioni ai propri atti, una delle quali era che, secondo loro, Freud aveva approvato la “Gleichschaltung“. La liquidazione della psicoanalisi in Germania passò quasi sotto silenzio, ma il bisogno di giustificarsi racchiudeva chiaramente un’inconscia confessione di colpa. Uno dei leader suggerì agli altri che era vano cercare la riammissione dal momento che “là c’è troppo ‘risentimento’ per la nostra collaborazione con l’Istituto Göring”. Mai i leader della Sezione “A” suggerirono un lutto comune. Essi non erano in grado di confessarsi l’un l’altro cosa provassero ad aver perso ciò che era stato caro ad ognuno di loro, e ciò che tutti avevano condiviso – cioè il loro amato Führer, Adolf Hitler, e il loro stimato leader, Matthias Göring fucilato dai russi dopo essere stato scoperto. Né potevano ricordare l’uno all’altro i loro precedenti legami con i loro modelli ebrei, Freud, Abraham e Eitingon. Non potevano rivelarsi a vicenda l’enorme quantità di dipendenza che questi legami implicavano. Né potevano confessare pubblicamente di essere vissuti nella paura di morire, paura che divenne vieppiù intensa dopo l’arresto e l’uccisione del loro collega Rittrneister. Questa paura si manifestava, per esempio, nell’umorismo da patibolo con cui diedero nome all’armadio dove erano chiusi a chiave gli scritti di Freud: “L’armadio del veleno”. Quanto fosse resistente la costrizione a negare e duratura la paura può essere illustrato con un esempio. In un articolo che trattava le origini dell’ansia, scritto cinque anni dopo la fine della guerra, il leader della Sezione “A”, Adolf Boehm descrisse, come esempio di ansia pubblica, la mania distruttiva di Savonarola e il suo incitamento alle masse, ma non fece nessun riferimento a Hitler e ai nazisti.
Vergogna per il proprio regresso spirituale e colpa per i propri atti, e, probabilmente, per essere sopravvissuti ad altri che furono assassinati, devono aver avuto gran parte nel loro bisogno di tacere. Ma vergogna, colpa o lutto che i genitori non possono consciamente provare vengono immancabilmente trasmessi alla generazione dei figli. Anch’essi acquisiscono in seguito la tendenza a tacere sui particolari del passato. I loro figli poi a loro volta vivono-sotto la costante pressione dell’esistenza di qualcosa che va cancellato. Il germanico “Suehnebewegung” (movimento di penitenza), i cui membri erano in gran parte figli di partecipanti alla guerra, ebbe origine da questa sequenza. Anche per tale ragione – benché con riluttanza – furono pagati i Wiedergutmachungsgelder tedeschi (pagamenti di riparazioni) ai sopravvissuti delle persecuzioni naziste. Tuttavia vi sono sempre anche sentimenti di rivolta contro questi fardelli trasmessi. Inoltre i figli, la cui curiosità resta insoddisfatta, riempiono inevitabilmente lo spazio lasciato libero dal silenzio dei loro genitori, con fantasie sadomasochistiche sui veri o presunti misfatti dei loro genitori. Ho visto di frequente casi di questo genere nei discendenti di figli i cui genitori scamparono all’Olocausto, che non sono mai stati in grado di raccontare ai loro figli i terribili particolari della loro esperienza.
Giungo ora specificamente allo sviluppo del processo di elaborazione nella comunità psicoanalitica tedesca. Anche qui, la trasmissione di sentimenti rimossi ha avuto un ruolo nei rapporti tra la nuova generazione di aspiranti psicoanalisti e i loro docenti analisti. Gli scotomi dei docenti analisti divennero gli scotomi degli analizzati. Dopo la fine della guerra e con il sollievo dalla miseria dell’immediato dopo-guerra, con il crescere della libertà e con il divenire più comune della franchezza, si allentò lentamente il corso rigoroso di questa sequenza. La seconda e la terza generazione di psicoanalisti del dopo-guerra cominciarono ad essere in grado di affrontare fatti rimossi fino allora, fatti riguardanti i legami interni con il regime nazista dei colleghi che avevano condiviso l’ideologia nazista e avevano preso parte agli atti nazisti. Eppure, ancora oggi – e ciò mi sembra particolarmente importante – parecchi appartenenti alla generazione più giovane di psicoanalisti tedeschi si sentono preoccupati e sulla difensiva in incontri con altri loro colleghi di altri paesi. (I tedeschi parlano di “Betroffenheit” o “Befangenheit“).
Durante gli anni del dopo-guerra, giovani psicoanalisti come Mitscherlich, Cremerius, Thomä e altri, cominciarono ad essere molto interessati alle malattie psicosomatiche, probabilmente in reazione all’estrema incidenza, a quel tempo, di tali malattie in Germania.
Noi sappiamo che la sintomatologia psicosomatica è una manovra primaria per tenere ansia e lutto lontani dalla portata della consapevolezza. Questi colleghi, ed in particolare un certo numero di psichiatri sotto la direzione di von Baeyer, osservarono e classificarono le diverse manifestazioni patologiche nei sopravvissuti alle persecuzioni.
Durante questi stessi anni, sociologi, come Horkheimer e Adorno che erano tornati in Germania dall’esilio e avevano riassunto l’insegnamento all’università di Francoforte, ricercarono risposte alla domanda: come, nel ventesimo secolo, il tradizionale antisemitismo tedesco – non molto differente, all’origine, da quello in Francia o in Inghilterra – si sia trasformato in un antisemitismo per cui, indelebilmente, Auschwitz significa terrore e vergogna.
Attraverso lo sforzo unito di questi psichiatri, psicologi, psicoanalisti e sociologi prese forma il simposio del 1962: “Die Psychologischen und sozialen Voraussetzungen des Antisemitismus” (I presupposti psicologici e sociali dell’antisemitismo). Tenuto a Wiesbaden, nel quadro del Quarto Congresso di “Psychoterapie und Tiefenpsychologie“, fu presieduto da Alexander Mitscherlich. Come ho accennato precedentemente, ebbi l’onore di essere uno dei partecipanti. Il simposio costituì un tentativo di raggiungere una certa comprensione di cosa abbia trasformato il tradizionale antisemitismo tedesco nel demoniaco antisemitismo nazista.
Poco dopo apparve il primo importante rapporto che chiarificava la storia della psicoanalisi in Germania sotto Hitler. Esso conteneva l’ampia ricerca di Helmut Thomä, precedentemente ricordata, che trattava della ‘Neo-analysis” di Schultz-Henke, una delle linee che facilitò la deviazione della psicoanalisi dalle sue origini. Vi era poi il lavoro fondamentale di Alexander e Margarete Mitscherlich, Die Unfaehigkeit zu Trauern (ibid.) (L’incapacità di essere in lutto), che studiò a fondo i problemi, sia intellettuali che affettivi, che si ridestarono nei postumi dell’esperienza nazista.
Durante il decennio che seguì, le dimensioni della comunità psicoanalitica tedesca crebbero enormemente. Probabilmente come reazione alla necessità della popolazione postbellica turbata, questa espansione fu alimentata e appoggiata dal fatto che, per lo meno nella Germania dell’Ovest, le compagnie di assicurazione della salute erano disposte ad assumersi una considerevole parte del costo delle cure psicoanalitiche – come fanno anche ora. E in quegli anni, come ha documentato il Professor Loch, si verificò anche un intenso adeguamento ai progressi fatti nel frattempo dalla psicoanalisi al di fuori della Germania.
Fu così che nel 1977, in occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Gerusalemme (e il fatto di essere tenuto lì aveva anche, probabilmente, un significato emotivo particolare), l’associazione Psicoanalitica ‘Tedesca fu motivata e si sentì sufficientemente sicura da proporre di tenere il successivo Congresso Internazionale ancora una volta in Germania, e cioè a Berlino.
I1 fatto che molti dei partecipanti ebrei al congresso di Gerusalemme si rifiutarono di andare là fu un duro colpo per i membri tedeschi dell’IPA. Con molta emotività essi ricordarono che Berlino era stata la capitale del Reich di Hitler, e che fu a Wannsee, un sobborgo di Berlino, che fu presa la decisione sulla Soluzione Finale della Judenfrage. Quarant’anni non avevano diminuito il dolore che quei posti evocavano. I membri tedeschi si sentirono addolorati da quel rifiuto in egual misura di come si sentirono a Zurigo nel 1949, quando la loro accettazione nell’IPA fu solamente condizionale.
In Germania seguì un intenso interrogarsi: abbiamo veramente elaborato la catastrofe nazista? Seguì quindi un periodo di grande agitazione interna. In un articolo scritto nel 1979, intitolato “Die Notwendigkeit zu Trauem” (La necessità del lutto), Margarete Mitscherlich-Nielsen (p. 983) pose l’accento sulla sua preoccupazione: “Noi tedeschi, che ci piaccia o meno, siamo ancora guardati nella prospettiva del passato. … I tedeschi non devono abbandonare la loro preoccupazione per il passato. Per sviluppare la capacità di essere in lutto è necessario un particolare lavoro di memoria, che deve includere il rivivere il nostro comportamento, i nostri sentimenti e le nostre fantasie di quel tempo. Va scoperto perché Hitler abbia avuto una tale incredibile influenza sulla maggior parte di noi, e perché sia stato in grado di sovvertire le nostre coscienze con i suoi falsi ideali. “[…]” (E’ necessaria) un’elaborazione di quanto condusse al Nazional-Socialismo … dell’identificazione psicologica e spirituale dell’individuo con quel tempo. … I ventenni di oggi, a cui i genitori hanno trasmesso il proprio respingere il passato, vivono anche loro all’ombra della negazione e della rimozione di avvenimenti che non possono essere cancellati. …I discendenti dei malfattori, come anche i loro compagni di viaggio, hanno, come sappiamo, seri problemi psicologici. La loro positiva identificazione con i loro genitori e i loro sentimenti di apprezzamento di se stessi sono profondamente turbati. Spesso la conseguenza è il negare questi problemi tramite freddezza di sentimenti e alienazione”.
I1 congresso di Gerusalemme ha fatto scattare tra gli analisti tedeschi più giovani una tempesta di sentimenti contro la loro istruzione e contro gli insegnanti analisti, che divenne palese in modo particolare nel 1980, al congresso della Associazione Mitteleuropea a Bamberg (Germania), dove vennero fatte aperte e aspre accuse alla muraglia di resistenza di questi ultimi. E’ interessante che il tema generale del congresso, “Die Wiederkehr von Krieg und Verfolgung” (11 ritorno di guerra e persecuzione) portò alla superficie, per la prima volta, il fatto che coloro che da bambini erano stati esposti a guerra e fuga nella stessa Germania, avevano la loro propria agenda: essi volevano parlare non solo delle vittime delle persecuzioni, ma anche di se stessi.
Circa in questo stesso periodo, specialmente in PSYCHE, comparvero molti articoli di ricerca che esponevano in dettaglio la sorte degli psicoanalisti tedeschi sotto i nazisti. Dopo alcune deliberazioni, la direzione dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale venne ad un compromesso: il congresso dell’IPA del 1985, e con questo il suo ritorno in Germania, si sarebbe tenuto nella libera città anseatica di Amburgo. Avendo una certa conoscenza dell’acuta e intensa preoccupazione all’interno della Associazione Psicoanalitica Tedesca per l’elaborazione della preistoria nazista, proposi, sia nel 1982 che nel 1983, che proprio questo soggetto costituisse il tema principale del congresso di Amburgo. Mentre i giovani colleghi tedeschi e molti dei più anziani furono vivamente d’accordo con questa proposta, con mia sorpresa il presidente dell’IPA, lui stesso un rifugiato ebreo italiano che vive in Inghilterra, si oppose pienamente all’idea e così il suo staff! “Come potremo andare ad Amburgo”, mi scrisse “ed essere così offensivi verso i nostri ospiti? Sarebbe privo di tatto. Cosa sarebbe successo se fosse venuto in Israele e avesse parlato là della guerra del Libano?”. Io fui scioccato dal suo porre la “shoah”- il genocidio degli ebrei e l’assassinio di così tanti inermi e indifesi alla pari con la lotta contro il pienamente armato e continuamente aggressivo PLO. In maniera del tutto antianalitica, il presidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale preferiva spazzare sotto il tappeto questa esperienza di portata mondiale e le sue profonde conseguenze psicopatologiche. Non avrei dovuto sorprendermi. Il desiderio di negare, di non aver a che fare con quello che è chiaramente un sovraccarico traumatico, si dimostra estendibile ai persecutori e ai perseguitati insieme. Con un ulteriore compromesso; la Commissione Programma per il congresso di Amburgo propose un solo giorno per la discussione sul “fenomeno nazista”. Io obietto anche a questa etichetta: un “fenomeno” è una manifestazione teorica che appare improvvisamente e altrettanto improvvisamente sparisce. La preparazione dell’ideologia e delle attività naziste prese molto tempo, e, come vediamo, le loro conseguenze psicologiche non sono ancora dissolte.
Ma, come quanti di voi che erano presenti al congresso di Amburgo ricorderanno, la discussione non seguì la restrizione prevista dal programma. In primo luogo, ai partecipanti fu presentata una straordinaria mostra “word-and picture” (Brecht e altri) che trattava dello sviluppo e della liquidazione della Società Psicoanalitica Tedesca. E in secondo luogo, il sindaco di Amburgo, Klaus van Dohnanyi nel suo discorso di benvenuto attirò vivamente la nostra attenzione sulla catastrofe nazista e sulle sue conseguenze. Egli criticò anche la psicoanalisi per il suo generale disimpegno politico nel passato, e per i suoi sforzi nel fare altrettanto nel presente. In armonia con la tesi di Mitscherlich sulla mancanza di lutto, egli dichiarò: “chiunque dica “il nostro Bach” e “Il nostro Beethoven” deve dire anche “il nostro Hitler”.”
Nel 1989 fu tenuto un altro convegno di psicoanalisi, di nuovo a Gerusalemme. Il tema fu: “Il significato dell’olocausto nazista per coloro che non furono direttamente colpiti: una prospettiva psicoanalitica”. Il convegno fu organizzato dal Freud Center dell’Università Ebraica, sotto la direzione di Raphael Moses, in collaborazione con la Società Psicoanalitica Israeliana. Qui il defunto Gottflied Appy a quel tempo presidente della Associazione Psicoanalitica Tedesca, prese le parole di Dohnanyi come motto per la sua prolusione, che intitolò “Colpa Collettiva e Responsabilità”. Seguendo le formulazioni di Melanie Klein, egli delineò le vie attraverso le quali la psicoanalisi tedesca avrebbe potuto pervenire al lutto per i perduti, e contemporaneamente odiati, ideali nazisti ‘Noi dobbiamo riappropriarci di tali ideali” disse, “vale a dire riconoscerli una volta di più come nostri oggetti interiori, dobbiamo ammettere che i rappresentanti di questi ideali furono da noi amati, sebbene anche odiati, e che essi fanno tuttora parte di noi. L’affermare che essi sono solo “là fuori” significa negare la nostra identificazione con essi. Solo dopo che avremo riconosciuto il conflitto interiore inerente ad essi, potrà aver luogo un rinnovato distacco”. E’ un processo a lunga scadenza. Il cammino verso la perdita di un ideale, per mezzo della depressione, passa per quello che Melanie Klein chiama la “fase paranoica” dello sviluppo. “La paranoia si manifesta in un’arroganza difensiva: noi ci consideriamo liberi da colpa o vergogna, trasferendole in altri”. Un trasferimento del genere avvenne, secondo Hermann Beland, quando l’Associazione Psicoanalitica Tedesca si scisse dalla Società Psicoanalitica Tedesca, ottenendo con ciò il riconoscimento dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
A mio avviso, la fenomenologia di una fase paranoica si presentò molto chiaramente attorno al 1980, durante e dopo il Congresso di Bamberg. Lì si verificarono gli aspri attacchi della giovane generazione degli analisti e degli aspiranti contro i loro insegnanti analisti per aver serbato il silenzio sul passato nazista dei loro insegnanti. Gli appartenenti a questa generazione stabilirono che tale silenzio aveva fissato in loro gli scotomi che si venivano rivelando loro soltanto ora. Si levarono altre voci che difendevano gli anziani e lodavano il loro “coraggio” per essere andati in una “emigrazione interiore” (Ehebald/Dahmer) durante il periodo nazista. Durante queste dispute a Bamberg divenne chiaro anche, che non erano solo i discendenti dei sopravvissuti alla “Shoah” che volevano essere sentiti, ma anche coloro che, dalla parte dei malfattori, erano vissuti nel terrore della guerra. Essi pure, pieni di autocommiserazione, accusavano i loro genitori. Tutte queste esplosioni erano, a mio avviso, segni di una fase paranoica-persecutoria. Tale fase, tuttavia, costituisce la soglia della fase depressiva che apre la via al vero lutto.
Per difficile che sia, per noi analisti, provare empatia per coloro che avvertiamo malvagi, oggetti esclusivamente esterni, che sono però anche riflesso di oggetti interni rimossi, noi abbiamo il dovere di esaminare il contesto storico in cui sono vissute queste persone, dobbiamo scoprire cosa li abbia indotti, volenti o nolenti, a diventare Nazional-Socialisti. Dobbiamo comprendere la paura costante all’ombra della quale sono vissuti; fino a che punto essi possano ancora aver segretamente voluto mantenere un’individualità contro il conformismo; dobbiamo tentare di indovinare l’umiliazione per la loro dipendenza da Freud, da cui cercarono di ottenere un’aprioristica approvazione del loro tradimento verso i loro colleghi ebrei, e dobbiamo seguire la degradazione interiore della loro sottomissione a Hitler e ai suoi emissari.
Noi tutti siamo tentati di adottare l’una o l’altra alternativa: idealizzazione o ripudio totale. Appy sostenne però, che noi dobbiamo vivere nella coesistenza di ambedue i sentimenti, provando contemporaneamente amore e odio verso oggetti interni immagini speculari di oggetti esterni – e che le sensazioni di depressione che ricorrono ogni qualvolta avviene una separazione devono essere anch’esse sopportate.
La discussione all’interno della Comunità Psicoanalitica Tedesca non è ancora terminata. Nel maggio 1992 Tilman Moser (1992), figlio di un ufficiale nazista di second’ordine, accusò i Mitscherlich, suoi genitori psicoanalisti, di non aver mostrato, nel loro libro del 1967, alcuna empatia clinica per i simili a suo padre, e di non essere stati in grado di riconoscere la “scissione” che si verificò a quel tempo. D’altro lato, Margarete Mitscherlich Nielsen, rifacendosi al suo lavoro precedente, sottolinea come ora si debba guardare alle precedenti idealizzazioni e continuare a soffrire per la sensazione di perdita – solo allora potrà essere conseguita una sofferenza creativa e una rinnovata umanità dell’individuo. Infine l’analista Dierk Juelich (1992) di Amburgo mette in evidenza, lo stesso anno, il circolo vizioso esistente nel pensiero psicoanalitico tedesco, e come esso venga trasmesso di generazione in generazione. Esso rimane fissato in una posizione schizo-paranoide, ove persistono scissione e negazione, ove ogni ridestarsi del senso di colpa porta alla creazione di un nemico – un nemico a cui si resta legati, rappresentando egli una parte distaccata di se stessi Qualora non si ridesti alcun senso di colpa, ricomincia il ciclo: silenzio, rimozione e regressione, scissione e negazione. (Egli cita l’israeliano “Zwi Rix” Oximoron “Auschwitz werden uns die Deutschen niemals verzeihen” (I tedeschi non ci perdoneranno mai Auschwitz). Solo lentamente possono venire assimilati nuovi ideali, e con essi ricostituirsi un’identità meno carica di conflitto. E’ probabile anche che dal lutto si possano sviluppare, allora, attività creative che ricomprendano ogni aspetto degli avvenimenti del passato.
Passo ora a una proposta che ha lo scopo di alleviare, entro certi limiti, il peso di vergogna e colpa, che grava sulle spalle delle generazioni post-naziste, post-Shoah, dei discendenti sia dei malfattori che delle loro vittime. Ho già parlato dell’imbarazzo e della preoccupazione con cui si incontrano l’uno con l’altro, se pure si incontrano. Il “mai più dovrà succedere ciò che è successo” su cui scrisse Adorno al suo ritorno in Germania, che si trova nella mente di molti tedeschi di oggi, e il “mai più” nella mente degli ebrei della colpa e della vergogna che grava sulle spalle di questa generazione più giovane di tedeschi e di ebrei, che impedisce loro di incontrarsi liberamente; un peso che è paradigmatico per quanti si trovino tra i loro due popoli.
Vi ringrazio per il vostro paziente ascolto.
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