La vita delle donne nei campi profughi

di Claudia Campos

La vita delle donne nei campi profughi
Fotografia Fonte UNRWA

Presentazione di Anna Cordioli

La dottoressa Claudia Campos è assistente sociale per il comune di Limena (Pd), è docente a contratto dell’università Ca’ Foscari di Venezia e da anni si occupa di interculturalità, migrazione e condizione delle donne. 
Il suo impegno personale e professionale l’hanno portata a prestare servizio sulle navi della Croce Rossa Italiana nelle missioni di salvataggio in mare e ha partecipato a progetti della Nazioni Unite in vari campi profughi in Libano.

La sua testimonianza, potente e puntuale, ci porta a conoscenza delle condizioni in cui scorre la vita di donne, bambine, adolescenti e madri nei meandri di campi profughi.

Ad esempio, Beddawi è un campo  in cui sono stipate 30.000 persone in 5 kilometri quadrati ed è popolato da siriani e palestinesi in fuga dalla guerra. In posti come questo, la vita è talmente dura che il tasso di suicidi tra gli adolescenti è in continuo aumento.

Chi si chiede come mai delle madri accettino di salire sulle carrette del mare, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri figli, forse non conosce le sofferenze che queste persone patiscono ogni giorno.

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I campi profughi e la condizione delle donne

di Claudia Campos

Nel 2018 ho avuto la possibilità di svolgere un internship presso il Dipartimento di Infrastrutture e Miglioramento dei Campi profughi dell’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Medio Oriente (UNRWA) con sede a Beirut in Libano. Questa esperienza mi ha permesso di raccogliere osservazioni e dati che esaminano lo stato angosciante in cui vivono i rifugiati in Libano. Vorrei quindi condividere con voi una panoramica della loro situazione con particolare attenzione alla condizione delle donne rifugiate.

Nonostante il Libano non sia coinvolto in conflitti armati attivi, è stato gravemente colpito dalla guerra in Siria e in altri paesi del Medio Oriente. Considerati i legami storici e la vicinanza geografica, un numero considerevole di siriani e palestinesi provenienti dalla Siria è stato costretto a cercare rifugio in Libano dopo lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011.

Pur non avendo ratificato la convenzione sui rifugiati del 1951 e il suo protocollo del 1967, nel 2011, all’inizio della crisi siriana, il Libano ha adottato una politica di “frontiera aperta”, permettendo ai rifugiati di entrare nel paese, senza però autorizzare l’istituzione di campi profughi ufficiali. Il governo libanese, infatti, ha una politica consolidata non permissiva di istituzione di nuovi campi profughi formali sul suo territorio.

 

Tuttavia, con il proseguimento del conflitto siriano, l’approccio del Libano ai rifugiati è mutato. Nel 2015, lo Stato libanese ha effettivamente chiuso il confine a tutti gli rifugiati. Conseguentemente, le persone hanno cercato di entrare in Libano con attraversamenti irregolari delle frontiere, introducendo così il rischio supplementare di sfruttamento e abuso dei profughi. In base alle normative libanesi vigenti, l’ingresso irregolare rappresenta un ostacolo aggiuntivo per la regolarizzazione del proprio status giuridico.

 

 Sebbene il Libano abbia ratificato una serie di trattati che garantiscono il diritto alla salute, tra cui il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR), la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) e la Convenzione sui diritti del fanciullo (CRC), tuttavia, tali diritti vengono raramente garantiti.

Il campo di Shatila. Foto di Claudia Campos

Libertà di movimento e migrazione

 

I rifugiati siriani, senza un permesso di soggiorno valido, infrangono la legge libanese. Di conseguenza, ciò li espone al rischio di una serie di violazioni dei diritti umani, come l’arresto arbitrario, la detenzione e il rimpatrio, l’impossibilità di essere risarciti dalle autorità se sono vittime di reati, le limitazioni alla circolazione e la difficoltà nell’accesso a servizi come l’istruzione o la salute. Inoltre, senza validi permessi di soggiorno i rifugiati non sono in grado di accedere a processi amministrativi come, ad esempio, la registrazione di matrimoni o nascite di bambini (diventando conseguentemente apolidi) e persino delle morti.

 

 

I rifugiati in Libano, pertanto, devono affrontare sfide sostanziali per il pieno godimento dei loro diritti umani. La presenza di un gran numero di rifugiati siriani ha messo sotto ulteriore tensione le risorse, infrastrutture e servizi per i rifugiati palestinesi già presenti in territorio libanese.  Negli ultimi anni, l’arrivo dei rifugiati siriani, ha avuto un grosso impatto sull’economia e sulla società libanese, ha esacerbato le condizioni già precarie della “comunità ospitante” ed incrementato la discriminazione nei confronti dei rifugiati stessi.

 

Infatti, il Libano, che ha circa 5 milioni di abitanti, riscontra il più alto numero di rifugiati pro capite di qualsiasi paese del mondo. Si stima che 1 milione di rifugiati siriani siano registrati presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)[1] ed altri  500.000 siano le presenze non registrate, oltre ai 175.000 rifugiati palestinesi che già vivono in Libano.  Più della metà della popolazione siriana che ha cercato protezione in Libano è rappresentata da donne e minori sotto i 15 anni. Quasi un terzo delle famiglie sono gestite da sole donne.[2]

 

Una grande percentuale di profughi siriani ha trovato rifugio nei 12 campi profughi palestinesi ufficiali presenti in tutto il Libano, mentre il restante vive in aree adiacenti intorno ai campi o in insediamenti informali.

Ci sono alcuni motivi principali che spiegano la scelta dei rifugiati siriani di trasferirsi nei campi profughi palestinesi in Libano. Una spiegazione è legata alla storia degli insediamenti di rifugiati palestinesi nella regione durante l’esodo del 1948, che aveva dato vita ad una rete di relazioni familiari che si sono sviluppate e mantenute attraverso i confini. Una seconda ragione è legata alla presenza di lavoratori siriani in Libano già prima della guerra. Qui, i siriani in genere affittavano case nelle zone più economiche della città, principalmente nei campi profughi palestinesi o negli insediamenti informali. Non è da trascurare inoltre il fatto che i rifugiati privi di documenti o permessi di soggiorno cerchino rifugio in campi in cui le forze governative non siano presenti come avviene in Libano. 

 

[1] “Risposta regionale per i rifugiati in Siria”. Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

[2]https://www.unrwa.org/sites/default/files/final2_6_october_final_version_profiling_the_vulnerability_of_prs_in_lebanon_-_assesment.pdf  accessibile il 12 luglio 2018

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Meccanismi di coping negativi

Con la persistenza della crisi siriana, le strategie di gestione socioeconomica delle famiglie sono diventate meno efficaci. La percezione che le minacce esterne stiano crescendo, aggravate da rigide norme sociali, aumenta i rischi e l’esposizione delle donne alla violenza domestica, al survival sex, ai matrimoni precoci e forzati e alle molestie e alle pressioni sociali affinché esse svolgano ruoli di genere tradizionali, limitando al contempo le loro opportunità.

L’insufficiente finanziamento internazionale e sostegno ha condotto i rifugiati a adottare strategie di gestione e sopravvivenza familiare negative (come, ad esempio, la riduzione dell’assunzione di cibo, l’aumento di prestiti, la riduzione delle spese per l’istruzione e la salute, lavoro infantile, l’aumento dell’elemosina). L’UNRWA ha riferito che la quasi totalità delle famiglie di rifugiati siriani ha sperimentato “la mancanza di cibo o denaro per comprare cibo” portando i membri della famiglia a ridurne il consumo. Infatti, la maggior parte delle famiglie siriane basa la propria economia sull’assistenza umanitaria come principale fonte di sostentamento. A causa del massiccio sottofinanziamento dell’UNRWA, nel maggio 2015, l’importo mensile fornito ai profughi per il cibo è stato ridotto da 30 dollari a 27 dollari per persona al mese. Nonostante ciò, l’UNRWA ha riferito che la loro assistenza monetaria risulta essere la principale fonte di reddito per la quasi totalità dei rifugiati.

Come conseguenza, l’instabilità sociale e finanziaria dei rifugiati aumenta i rischi di violenza di genere, lo sfruttamento, gli abusi ed i meccanismi di coping negativi. Per quanto riguarda le donne possiamo menzionare come principali meccanismi il survival sex, il matrimonio precoce, il lavoro minorile e lo sfruttamento lavorativo.

Tradizionalmente, nella cultura siriana, il sostentamento economico della famiglia è responsabilità del marito. Per le famiglie (sia quelle che hanno come capofamiglia un uomo sia quelli dove il capofamiglia è una donna) che stanno lottando per comprare cibo, sostenere cure sanitarie e/o mediche, pagare l’affitto, il survival sex (“sesso di sopravvivenza”) e il matrimonio di una figlia può essere interpretato come un modo per ridurre le loro difficoltà finanziarie. Il “sesso di sopravvivenza” è legato alla disperata necessità delle donne di accedere ad un reddito per coprire l’aumento del costo della vita in Libano, comprese le spese per il cibo, spese sanitarie e il pagamento degli affitti (spesso gli sfruttatori sono i proprietari della casa / terreno dove le donne rifugiate risiedono, datori di lavoro, ed anche operatori umanitari).

Il matrimonio è talvolta ritenuto un mezzo per “proteggere” le ragazze dalle molestie sessuali e dalla violenza.   Infatti, il 13% delle ragazze adolescenti e delle giovani donne di età compresa tra i 15 e i 19 anni sono attualmente sposate o in un’unione, e il 25% di quelle di età compresa tra i 20 e i 24 anni si è sposato prima del compimento del diciottesimo compleanno.[1] Nell’ambiente dei campi profughi, lo stupro, la prostituzione e i matrimoni forzati minorili sono dilaganti. Centinaia di donne e ragazze sono state vendute sotto le spoglie di “matrimonio temporaneo”. Questo fenomeno è anche una via usata da organizzazioni criminali per la tratta di esseri umani e per lo sfruttamento sessuale e schiavitù.

 

[1] Le principali cause del matrimonio tra bambini negli sfollamenti e nelle crisi umanitarie possono essere l’aumento della povertà; aumento dei sentimenti di ansia e insicurezza; mancanza di servizi; paura dello stupro e della violenza sessuale; paura di gravidanze prematrimoniali indesiderate. Il matrimonio precoce può essere una strategia di meccanismo di gestione familiare: ridurre gli oneri finanziari per la famiglia; proteggere le ragazze dalle avances azioni sessuali; preservare l’onore della famiglia.

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Foto fonte UNRWA

Vulnerabilità delle donne rifugiate

Vivere in Libano è come morire ogni giorno un po’… quello che fai è sopravvivere. Se lo avessi saputo prima, avrei preferito rimanere in Siria e morire lì“. Queste le parole di una donna siriana rifugiata palestinese nel campo profughi di Beddawi, nel nord del Libano

Le donne siriane profughe, il cui status giuridico nel paese rimane precario e spesso di illegalità, hanno sottolineato la paura scatenata all’interno e all’esterno dei campi profughi, come molestie fisiche e verbali da parte di sconosciuti e ai posti di blocco militari, rapine e rapimenti. Inoltre, le difficili condizioni sociali ed abitative, tra cui povertà e affollamento dei campi, contribuiscono all’aumento della violenza.

 La percezione di estrema tristezza, paura, frustrazione e ansia, è spesso frequente poiché le donne rifugiate lottano per adattarsi alla vita all’interno dei campi libanesi, subendo continuamente discriminazioni; le tensioni sociali che ne scaturiscono, contribuiscono ad intensificare l’isolamento e lo stress. Inoltre, molte donne rifugiate soffrono perché non hanno nessuno con cui parlare del proprio sentimento e delle loro preoccupazioni. D’altra parte, il fatto che molti uomini ritengano di non poter garantire i bisogni fondamentali della loro famiglia e di disattendere le aspettative della società nei loro confronti, genera un aumento dei sentimenti di insicurezza e frustrazione che possono poi manifestarsi in violenza (specialmente in quella domestica).  Le sfide di tutti i giorni per garantire la soddisfazione dei bisogni primari, la disoccupazione e la restrizione di mobilità sono segnalate come le principali fonti di stress, che portano a tensioni e violenze familiari.

Foto Fonte UNRWA
Foto fonte UNRWA

Incapacità di segnalazione e di accedere a servizi

 

La segnalazione della violenza domestica da parte di una donna profuga, evento comunque raro poiché non sono chiari alle donne i meccanismi di segnalazione, genera comunemente la ritorsione della famiglia e del marito. Ciò sottolinea come la gerarchia di genere governi ancora il rapporto tra uomini e donne e come sia racchiusa nei principali aspetti strutturali della società. Le donne temono di denunciare la violenza a causa di fattori che sono incorporati in leggi formali e informali che governano i campi e creano l’intersezionalità della violenza. Ritengono, infatti, che denunciare la violenza abbia come conseguenza la propria ri-vittimizzazione.

Lo stigma sociale associato alla violenza sessuale e di genere crea doppia vittimizzazione e doppia traumatizzazione nelle donne[1]. Le norme culturali e lo stigma sociale, insieme al fatto che molto spesso i responsabili di violenze siano imparentati o comunque noti alla vittima, complica ulteriormente il processo di segnalazione e aumenta l’invisibilità di questi casi e la vulnerabilità delle donne.

 

Le donne rifugiate non sono in grado di segnalare la violenza domestica o altre forme di violenza e abusi che subiscono perché temono che la segnalazione alle autorità avrà conseguenze negative, compresa la loro detenzione per mancanza di un permesso di soggiorno valido.

 

In assenza di strutture governative nella maggior parte dei 12 campi profughi palestinesi, le fazioni politiche palestinesi e i gruppi armati esercitano una qualche forma di controllo. Ciò ha creato un ambiente insicuro, con minacce fisiche ricorrenti, sporadici combattimenti tra nuclei armati con conseguente accesso limitato alla sicurezza e alla giustizia per tutti gli abitanti del campo.

Inoltre, i problemi di sicurezza e stigmatizzazione, nonché la mancanza di riservatezza all’interno dei campi ostacolano l’accesso delle donne ai servizi esistenti. Allo stesso modo, l’accesso ai servizi al di fuori del campo è difficile a causa delle restrizioni di mobilità delle donne e delle ragazze e della scarsa disponibilità economica per pagare i costi degli spostamenti. Questo limita la capacità delle donne e delle ragazze di raggiungere beni e servizi e, di conseguenza, le rende meno disposte a partecipare ad attività sociali ed economiche e a raggiungere un buon livello di istruzione. La mancanza di istruzione per le ragazze ha un enorme effetto sulla società, alimentando un ciclo di povertà e vulnerabilità che si traduce in una minore partecipazione decisionale delle donne nella sfera pubblica.

In situazioni di sfollamento le donne hanno esigenze pratiche come la necessità di cibo, riparo, acqua e sicurezza, ma anche esigenze di un maggiore controllo sulla loro vita, necessità di sostegno psicosociale, e di autonomia.

 

[1] Le donne possono sopravvivere alla violenza sessuale, ma molte volte non sopravvivono a stigmatizzazione sociale come il rifiuto familiare che spesso può portare al suicidio.

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Foto fonte UNRWA

A dispetto di quanto detto, vi propongo un esempio vincente: Il progetto Soufra

Soufra (che significa ‘festa’ in arabo) è un progetto del 2013 realizzato in collaborazione con l’Associazione del Programma delle Donne (WPA) [1] nel campo di Burj el Barajneh (Beirut) e con il sostegno dell’organizzazione Alfanar, rivolto alle donne rifugiate.[2]

Prima di proporre ad Alfanar di aiutare le donne rifugiate ad avviare un’attività di catering, la direttrice della WPA nel campo di Burj el Barajneh, Mariam Shaar, aveva già condotto un’indagine sociale sulle donne presenti nel campo profughi per determinare come avrebbero voluto migliorare le loro condizioni di vita. Il risultato è stato che molte donne hanno espresso il desiderio di essere autonome economicamente e l’interesse a sviluppare le loro abilità culinarie.   Alfanar ha inizialmente aiutato WPA a creare una nuova unità di ristorazione, chiamata Soufra, sponsorizzando le loro attività e fornendo così occupazione ad alcune donne del campo (circa 44 donne stanno lavorando nel progetto). In effetti, l’obiettivo principale di questo progetto è quello di responsabilizzare le donne le donne palestinesi, siriane ed irachene consentendo di evocare ed esplorare la loro cultura attraverso il cibo, e di creare una linea di catering con furgone adibito a cucina e vendita dei prodotti. Soufra è un progetto pionieristico, dal momento che è la prima organizzazione guidata da donne rifugiate a ottenere una licenza dallo stato libanese.

Il progetto offre, inoltre, diverse ed interessanti opportunità di lavoro per le donne anche al di fuori dei campi, eliminando i rigidi confini sociali imposti dallo stato libanese, sfidando la discriminazione e combattendo l’isolamento sociale. Prima della fondazione di Soufra, queste donne non avevano mezzi sufficienti per sostenere le loro famiglie (e spesso ricorrevano a meccanismi di coping negativi) e raramente uscivano dal campo. Come ci riferisce Miriam “ora queste donne si sentono trasformate da membri passivi della società a leader attivi nella loro comunità”. Inoltre, Soufra ha dato loro un posto dove poter lavorare mentre condividono le loro storie.

Alla domanda ” Pensi che il progetto Soufra potrebbe essere proposto in altri campi profughi in Libano o nel mondo?  “, Mariam Shaar risponde che “costruire un progetto di impresa sociale sostenibile ha solo il rischio di avere successo“.

 

[1] Le Donne Program Association è un’organizzazione indipendente non governativa e senza scopo di lucro. La WPA è stata fondata nel 1970 con la creazione di centri di cucito creati da (UNRWA).
Nel 2008, la strategia di gestione dei programmi dell’UNRWA ha sostenuto il WPA a diventare un’organizzazione completamente autosostenibile basata sulla comunità, conosciuta ora come Women’s Program Association (WPA). Attualmente WPA serve 9 dei 12 campi profughi e i suoi programmi e attività includono fornire alle donne una formazione professionale e professionale, un orientamento professionale, attività di leadership e imprenditorialità di costruzione delle competenze.

[2] Alfanar, fondata nel 2004 è la prima impresa filantropica che lavora esclusivamente nella regione del medio oriente. L’obiettivo principale è quello di aiutare le imprese sociali a migliorare la vita di un maggior numero di persone, aumentando al contempo la loro sostenibilità finanziaria.

 

2018_05_11 Beirut, Libanon - Mariam Al Shaar, Women's Program Association (WPA), führt uns durchs Flüchtlingslager.
Link al trailer del documentario "Soufra"

In conclusione, le donne rifugiate hanno subito la violenza dei conflitti armati e altre forme di persecuzione nei loro paesi d’origine e continuano a subire la violazione dei loro diritti umani nei paesi in cui cercano protezione. Esiste un notevole divario tra la dimensione giuridica e la realtà che evidenzia una vulnerabilità intrinseca e la sfiducia nei confronti dei trattati, delle convenzioni e delle dichiarazioni sui diritti umani come strumento giuridico. L’attuazione dei diritti delle donne deve essere vista come un obbligo e non come una mera pretesa retorica e moralistica di simpatia o dichiarazioni. Inoltre, la privazione sociale alla quale i rifugiati palestinese sono soggetti e la sottomissione alla violenza, potrebbero costituire in futuro un importante fattore destabilizzante all’interno dei campi, aggravato dall’impatto della guerra siriana.

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Campo di Shatila. Foto di Claudia Campos.

Claudia Campos, Padova

Assistente Sociale

claudiamncampos@gmail.com

 

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