La speranza tra bisogno e desiderio

di Lucia Fattori

(Padova), Psicoanalista Membro Ordinario con funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Quello della speranza è un tema di grande portata che è stato molto trattato in ambito teologico, filosofico e letterario, mentre è recente l’interesse della psicoanalisi verso di esso. Io mi sono proposta di riflettere su un particolare aspetto relativo a questo amplissimo argomento, cioè sull’articolazione della speranza tra il bisogno narcisistico di una base sicura, una specie di necessario nucleo di speranza alla base del nostro stesso esistere, e la tensione desiderante verso l’oggetto, un oggetto speranzosamente ritenuto in partenza come una meta raggiungibile: potremmo dire un’articolazione del tema della speranza fra la dimensione dell’essere e quella dell’avere. Questo intreccio fra essere ed avere mi sembra ben espresso dalla poesia di Pessoa intitolata Voglio, avrò (1955)[1]: la poesia parte da un voglio iniziale, che costituisce nello stesso tempo un’autoaffermazione di esistenza e una dichiarazione di desiderio e si gioca fra un avrò in apertura e un sarò di chiusura.

Voglio, avrò

– desidero e quindi avrò –
se non qui,
in altro luogo che ancora non so.
Niente ho perduto.

Tutto sarò.

Il poeta ci dice che il desiderio soddisfatto nell’esperienza dell’avere (o meglio dell’avere avuto, dell’aver ottenuto l’amore dell’oggetto) è Fornarialla base del sentimento di esistenza, di consistenza, di completezza e di valore del Sé. Ma il processo si svolge anche all’incontrario: bisogna sentirsi “essere” nella pienezza di sé (cioè sicuri di sé, confermati nel proprio senso di esistere e di valere) per “avere”, cioè per osare desiderare l’oggetto e quindi chiedere fiduciosi di ottenere. Nella poesia di Pessoa compare anche il riferimento, in quel “nulla è perduto” ad un altro tema cui vorrei accennare in riferimento alla speranza, il tema della nostalgia, sentimento che si basa sulla speranza-fiducia che nulla sia perduto, pur nella dolorosa consapevolezza che nulla sarà più come prima: “avrò… in un altro luogo” dice Pessoa.

Quello di speranza è un concetto quasi assente nella teorizzazione di Freud. Il termine compare in un articolo sul “Trattamento psichico” dove Freud scrive: “l’attesa colma di speranza e fiduciosa è una forza attiva di cui dobbiamo tener conto in senso stretto in tutti i nostri tentativi di cura e di guarigione” (1890, 99). La speranza è in fondo il sentimento che porta il paziente al nostro studio nell’attesa fiduciosa di stare meglio attraverso l’affidamento ad un’altra persona e la speranza di poter aiutare una persona a raggiungere un maggiore benessere psichico è il sentimento che sostiene il nostro stesso operare. Vari autori hanno sottolineato come la speranza sia a fondamento del lavoro analitico. Cito per tutti Corsa e Monterosa che nel loro libro “Limite è speranza” (2015) osservano come la speranza accompagni in ogni suo passo il lavoro dell’analisi e Franco Fornari che riteneva l’analisi “la ripresa della speranza”, un tentativo di “riorganizzare la speranza… attraverso un’accensione d’anima capace di mobilitare la fiducia di base che fa parte della nostra dotazione vitale” (1985, 13).

Tornando a Freud, vorrei innanzitutto notare la stretta connessione, quasi l’equivalenza, che appare nella frase citata fra fiducia e speranza. Anche in s. Paolo (Ebrei 11,1) fede, nel senso di fiducia, e speranza sono strettamente correlate: “la fede è il fondamento delle cose che si sperano”. Del resto l’etimologia del termine ebraico speranza (tiqvàh) e quella del termine latino fede (fides dal greco peith, da cui pistis, fiducia) rimandano per entrambi alla corda, cioè al legame con una persona cui ci si affida legandosi ad essa con una corda.

In secondo luogo, in relazione al taglio che intendo dare a queste mie osservazioni sembra che nel succitato lavoro Freud accenni ad una specie di fiducia di base, leggibile in termini di narcisismo, laddove descrive la speranza come “ambizione sopita in ogni singolo uomo” (1890, 100) di essere il prescelto dalla grazia divina, attraverso una specie di convinzione di essere il preferito. La descrizione freudiana della speranza sembra giocata dunque sul registro della libido narcisistica e dell’essere, dove sembra venga anticipato il concetto winnicottiano di rispecchiamento del bambino negli occhi innamorati della mamma-Dio che lo fa sentire esistente e prezioso, pieno di valore. Infatti il sentirsi esistere come soggetti speciali ed unici, prescelti dall’oggetto, come afferma Freud nel passo citato, sembrerebbe fare riferimento ad un proto-oggetto idealizzato che non è l’oggetto del desiderio, ma il portatore di un’identificazione in quanto depositario della perfezione della diade originaria e dunque oggetto-specchio che conferma l’esistenza e il valore del soggetto, all’interno di una dinamica narcisistica. La mamma di un bambino down mutacico e completamente ritirato nel suo mondo, (un bambino disperato?), mi disse tanti anni fa “É un bambino che non ho potuto riempire di speranza”. Pensai con dolore che questa mamma ferita non aveva potuto infondere nel figlio, attraverso lo sguardo, nemmeno un poco di quello slancio vitale necessario perché un bambino si apra con fiducia al mondo e si senta importante nella sua unicità.

 Forse è proprio il bisogno di riconoscimento della propria esistenza e della propria preziosa unicità agli occhi della madre, quello che non è stato soddisfatto nei bambini che fanno ricorso alle difese autistiche: le continue disconferme e delusioni, causate dai malintendimenti da parte di una mamma o di suo poco empatica o disorientata di fronte ai bisogni particolari di un figlio con un funzionamento neurodivergente, potrebbero aver minato in lui la fiducia di base rendendolo un bambino disperato. In un recente lavoro suggerivo come con i bambini che presentano tratti autistici la contemplazione condivisa tra mamma e figlio di un oggetto terzo possa costituire un momento correttivo rispetto al mancato rispecchiamento. Una mia paziente il cui compagno sembra presentare i tipici tratti dell’autistico ad alto funzionamento mi dice: “Quando piango e cerco i suoi occhi o un abbraccio per essere consolata è come se sbattessi contro un muro, come se non ci fosse speranza. Invece stiamo anche un’ora beati a guardare le anitre nello stagno”.

Attraverso il contemplare insieme verrebbe in qualche modo rafforzato quel senso dell’“intendersi” che non è solo, come nel Progetto freudiano, la fiducia innata nell’Adulto Soccorritore, ma anche e soprattutto, nel vedere le stesse cose, una conferma del proprio esserci. Se questa speranza innata riceve dunque conferme dall’ambiente-mamma essa consente poi al bambino, in base al semplice fatto di esistere, di poter desiderare l’oggetto, riconosciuto in questo secondo momento come altro da sé, con la fiducia di poterlo raggiungere-avere.

La speranza, infatti, oltre che nucleo narcisistico è anche tensione, è movimento verso una meta per raggiungere-avere l’oggetto. Corsa la definisce come il corrispondente fenomenologico del desiderio, il motore stesso della vita psichica…

Pellizzari descrive la speranza come oscillante “tra la passività di un’attesa fiduciosa e l’attività di una ricerca appassionata” (2015, 158). L’oggetto creato-trovato di Winnicott credo che riassuma efficacemente l’intreccio di questi aspetti della speranza: c’è una disposizione innata al mettersi fiduciosamente in relazione, relazione con un oggetto che non è solo l’oggetto della pulsione, ma, che, se trovato nel luogo e nel momento opportuno, sostiene i bisogni narcisistici di onnipotenza e di valore.

Una mia paziente adulta che presenta dei tratti che rientrano nello spettro autistico, dopo il racconto di un sogno in cui si ritrova sola commenta: “Ero stata come dimenticata” dagli altri; e aggiunge: “In realtà io non mi sento degna di essere ricordata”. É il sentirsi senza valore, carente a livello narcisistico, non “giustificata”, per usare il termine di Sartre, ad esistere, e tanto meno a desiderare. Afferma che invece sta vivendo, grazie al covid che costringe il marito a casa, un senso di pienezza. Mi parla di nuovi progetti per la coppia, viaggi, una nuova casa. Avverto che il desiderio si sta facendo strada. Il coronavirus ha ricreato, costringendo il marito a lavorare da casa, la pienezza e la perfetta fusione della diade originaria. Scrive Fornari (1984) che è l’esperienza di fusionalità totale sperimentata durante la vita fetale a darci l’energia per vivere e per affrontare il mondo, ovvero gli oggetti che lo abitano e da cui dipende il nostro benessere e il nostro piacere.

In una seduta seguente racconta “Ieri ho chiesto a mio marito di fare ginnastica insieme, lui ha risposto in modo irritato. Poi si è addolcito ed è venuto. Ho trovato il coraggio per dirgli che c’ero rimasta male… Lui ha cominciato a ragionare in modo pacato sulle mie aspettative. Io invece volevo solo che mi consolasse e mi coccolasse… La risposta di mio marito è stata inaspettata. Ma devo capire che, anche se trovo il coraggio di chiedere, non è che quello che desidero si realizza”

Ma forse il coraggio in fondo sta proprio nell’affrontare il rischio non solo di una risposta negativa, ma anche di risposte inaspettate.

Credo infatti che ci sia un rapporto stretto fra speranza e capacità di tollerare il rischio, cioè “la possibilità” di risposte diverse, diverse da quella desiderata, ma anche diverse nel senso di varie, plurime.

Tiziana, una mia piccola paziente con un’importante chiusura autistica usava il linguaggio con grande rigidità come se le fosse impossibile immaginare un significato “altro” per una parola che lei intendeva solo in senso letterale, per l’incapacità di approdare alla metafora… Quando, passata alla scuola elementare, sente la mamma parlare della “scuola vecchia”, si sorprende perché dice che la scuola materna era tutta nuova e che è la scuola elementare ad essere vecchia. Tiziana evidentemente si riferisce allo stato dell’edificio, mentre la mamma chiama “vecchia” la scuola precedente in relazione alla storia personale della bambina. O ancora: il papà quarantenne ha smesso di fare pugilato perché, dice, “ormai sono vecchio”. Preoccupata Tiziana mi chiede se il papà andrà presto in cielo, non cogliendo l’aspetto relativo di “vecchio” cioè “troppo vecchio per…”. É come se fosse assente nella mente di questa bambina la “possibilità” di un significato diverso per quella parola o di un grado diverso da quello assoluto per quell’attributo. Se avesse il sospetto dell’esistenza di un’altra possibilità potrebbe essere aiutata dal contesto a scegliere, ma non c’è il problema della scelta perché non sono presenti nella sua mente più significati fra cui scegliere. Altre difficoltà riguardano la rappresentazione del tempo e la difficoltà ad immaginare-prefigurare- fantasticare il futuro. Il problema sembra quello di poter pensare “il possibile” in termini di variabilità, di alternativa. L’ipotesi è che i bambini autistici, che del resto usano oggetti meccanici prevedibili, vivono di rituali e spesso fuggono l’imprevedibile oggetto umano, temano in sostanza il rischio (Fattori e Benincasa, 1996) perché, essendo stati spesso disconfermati nelle loro attese, avvertono che le diverse possibilità, portate dalle parole, dal pensiero stesso, dall’incontro con l’altro, farebbero svanire le loro poche sicurezze. É la rinuncia al desiderio a favore di un bisogno di sicurezza che sostenga quel minimo di speranza necessario per sentirsi esistere, per sentirsi vivi, per non precipitare, come scrive Calandrone, poetessa che ha sperimentato un abbandono precoce, “nella terra dove il silenzio lascia cadere i non amati” (o comunque quelli che si sono sentiti non amati).

Invece laddove una buona esperienza di fusionalità e di intesa con la madre abbia consolidato la speranza come “essere”, come fiducia di base, è possibile partire da lì, dal background della sicurezza, come lo chiama Sandler (1960), per affrontare l’avventura del desiderio, sostenuti dalla speranza che “in altro luogo” l’oggetto originario verrà ritrovato e ri-avuto. Si tratta in fondo di fare il lutto dell’identità di percezione e di “immaginare” un’esperienza altra, sostitutiva di quella originaria, ma in cui trovare, insieme, qualcosa di nuovo e qualcosa dell’originaria esperienza gratificante. É il meccanismo che sta alla base del processo di simbolizzazione. L’oggetto simbolico non è altro che una possibile alternativa, “sufficientemente gratificante”, all’oggetto del desiderio: entra in campo l’apertura al “possibile”. La speranza, afferma ancora Pellizzari, ha a che fare con l’insaturo, tipico della metafora e in definitiva come scrive Bloch (1954-59) la speranza ha a che fare con la tolleranza del dubbio attraverso la sospensione di ogni certezza. Speranza dunque come immaginazione creativa, rappresentazione di alternative e possibilità di scelta. Si tratta di ritrovare e ri-avere l’oggetto per citare la poesia di Pessoa “in un altro luogo che ancora non so”.

É il tema della nostalgia come speranza. Accanto infatti ad una nostalgia mortifera, una specie di melanconia che imprigiona nel rimpianto del passato, possiamo individuare una nostalgia vitale, frutto di un lutto riuscito e carica di speranza. De Martis, sottolineando “la virtualità polisemica e metaforizzante connaturata all’esperienza nostalgica”, scrive riprendendo un passo di Freud (1907) ne Il Poeta e la fantasia: “sul filo del desiderio e della nostalgia si annodano le trame degli inesauribili sviluppi rappresentativo-simbolici che fanno capo al motivo centrale dell’esistenza dell’uomo: perdita, rinuncia, ritrovamento di un bene divenuto però inaccessibile se non nei suoi derivati e sostituti” (1989, 379). E ancora: “L’assenza viene trasformata in presenza, recuperabile nella rappresentazione e nel simbolo, piuttosto che essere il vuoto disperato dell’assenza in termini esclusivi di perdita” (ibidem, 326). E Masciangelo a proposito della nostalgia scrive: la nostalgia non porta il segno della disperazione; è un affetto “segnato sì dalla ferita della perdita…, ma nello stesso tempo acceso dal desiderio, più una speranza che un’illusione, verso il reinvestimento dell’oggetto attraverso il rappresentare … il simbolizzare, il fantasticare” (1989, 416).

Se volessimo chiederci quale tipo di speranza tra quella dell’essere e quella dell’avere sia base per l’altra, interrogativo che riprende quello che Freud si pone in Risultati, idee, problemi (1938), quando si chiede se nello sviluppo del bambino venga prima l’avere o l’essere, mi sembra che si possa individuare una risposta articolata. L’esperienza fetale di un rapporto fusionale con l’oggetto, non riconosciuto come differenziato, ma vissuto soggettivamente come parte di sé, costituirebbe il nucleo di una speranza innata e quindi sarebbe la pienezza dell’esserci, a costituire il punto di partenza, il fondamento della speranza. Dopo la nascita sarebbe poi l’esperienza reale dell’avere l’amore da parte di un oggetto sufficientemente buono, la premessa indispensabile prima per confermare l’innato fiducioso senso di esserci e più avanti per dar luogo ad un fiducioso cercare di avere l’oggetto stesso sul filo del desiderio, che in fondo è sempre nostalgia del bene originario. Forse nei bambini che non hanno potuto, nei primi mesi di vita, “essere riempiti di speranza” anche l’innata fiducia di base rischia di dissolversi, con conseguenti manovre difensive per conservarne almeno un po’.

 

 

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[1] Da Poesie inedite 1930-35, Edizioni Atica, Lisbona 1955.

Bibliografia

Bloch E. (1954-59). Il principio Speranza. Milano, Garzanti, 1994.

Calandrone M.G. (2022). Dove non mi hai portata. Torino, Einaudi.

Corsa R., Monterosa L. (2015). Limite è speranza, Roma, Alpes.

De Martis D. (1989). La perversione: aspetti generali. In Semi A. A., Trattato di psicoanalisi. Milano, Cortina.

Fattori L., Benincasa G. (1996). Psicoterapia Psicoanalitica e deficit cognitivo, Milano, Cortina.

Fornari F. (1984). La riscoperta dell’anima. Bari, Laterza.

Fornari F. (1985). Affetti e cancro. Milano, Cortina.

Freud S. (1880). Trattamento psichico. O.S.F., 1.

Freud S. (1895). Progetto di una psicologia. O.S.F., 2.

Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. O.S.F., 5.

Freud S. (1938). Risultati, idee, problemi. O.S.F., 11.

Masciangelo P.M. (1989). La perversione: aspetti, funzionamenti e relazioni perverse. Milano, Cortina.

Pellizzari G. (2015). Due aspetti dell’azione terapeutica: speranza e metafora, Riv. di Psicoanal., 61.

Sartre J.P. (1943). L’essere e il nulla, Milano, Mondadori, 1958.

 

Lucia Fattori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

fattori.lucia@libero.it

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