"La solitudine della maternità. Riflessioni a partire dal film Quando la notte".

Dal XX Congresso della Società Psicoanalitica Italiana (SPI)
'Oltre Narciso e le solitudini: quale sogno per il futuro?'
Napoli dal 26-29 maggio 2022

di Elisabetta Marchiori

Valdrè, Comencini, Marchiori

Durante il XX Congresso della SPI si è svolto un panel che, nonostante fosse l’ultimo della giornata del venerdì 27, ha catturato l’attenzione e il coinvolgimento del pubblico: “La solitudine della maternità. Riflessioni a partire dal film Quando la notte“. Abbiamo avuto il l’onore e il piacere di conversare attorno a questo tema quanto mai attuale assieme a Cristina Comencini, che ha generosamente accettato l’invito del “Gruppo Cinema e Psicoanalisi” della SPI, di cui Rossella Valdrè e io siamo tra i referenti.

Tutte e tre ci occupiamo da tempo sia del rapporto tra cinema e psicoanalisi, sia del femminile e del materno, da prospettive diverse, che non si sovrappongono, non si confondono ma si intersecano e si arricchiscono vicendevolmente.

 

Quando la notte (2011)

Cristina Comencini è una regista e scrittrice italiana di fama internazionale, cui lo scorso anno è stato attribuito il “Premio Musatti”, tradizionalmente conferito a personaggi del mondo della cultura che abbiano contribuito con le loro opere alla diffusione della psicoanalisi. A Comencini sono state riconosciute in particolare l’acuta sensibilità e la capacità di approfondimento delle tematiche del trauma e del dolore, soprattutto in riferimento al mondo femminile. Attraverso la creatività espressa con il cinema Comencini, con una attitudine psicoanalitica naturale e innata, disvela segreti indicibili, evoca situazioni interiori da cui si tende a distogliere lo sguardo, quelle che si potrebbero definire con il titolo del libro di Zolla (1990) “verità segrete esposte in evidenza”.

Molti suoi film seguono questo fil rouge, tra cui i più conosciuti sono “Il più bel giorno della mia vita” (202), “La bestia nel cuore” (2006), candidato all’Oscar per miglior film straniero e “Quando la notte” (2011), tratto dall’omonimo romanzo (2009) e presentato alla 68esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.

È proprio da una potente sequenza di quattro minuti tratta da quest’ultimo film che ha preso avvio la vivace conversazione attorno al tema del panel — la solitudine della maternità appunto — declinata secondo le sue molteplici implicazioni. È un tema molto caro a Comencini, che lo ha affrontato anche in una lunga e interessante intervista pubblicata sul sito della SPI, inserita nel dossier “Donne/madri/cattivi pensieri“.

La trama del film “Quando la notte” si può sintetizzare come la narrazione della nascita della protagonista come madre, immergendo lo spettatore nei vissuti ambivalenti della maternità con una forza a tratti brutale.

Marina (Claudia Pandolfi) è una giovane madre che deve trascorrere un mese di vacanza in montagna assieme al figlio Marco di due anni — lo ha prescritto il dottore —-, ma è evidente che lo scopo è dimostrare a se stessa e agli altri che è in grado di prendersi cura  da sola di lui. La vediamo stanca, smarrita, angosciata, aggrappata a un figlio che non sa contenere emotivamente, che “lagna” (verbo appropriatissimo che usa Comencini nel romanzo) senza sosta e di notte non dorme, sopraffatto dall’ansia di una madre che non sembra aver superato la fase della “preoccupazione materna primaria” di cui parla Winnicott (1958).

Marina abita in un appartamento affittatole da Manfred (Filippo Timi), che vive al piano di sotto, un uomo silenzioso e burbero, perennemente accigliato, sofferente per un duplice trauma: nell’infanzia, è stato abbandonato dalla madre e, di recente, dalla moglie, che ha portato con sé i figli. Anche lui è solo, pieno di rabbia, ed è fatalmente attratto da quella coppia madre-figlio in evidente difficoltà.

Quando, una notte di pioggia, Manfred sente il solito irritante pianto disperato di Marco e poi un tonfo, seguito da un profondo e innaturale silenzio. Comprende che è accaduto qualcosa di terribile e si precipita a sfondare la porta, trovando il bimbo ferito e privo di sensi tra cocci di bottiglia, la madre riversa a terra, nascosta. Li porta in ospedale, mantenendo un comportamento duro e quasi spietato con Marina. Il bambino si riprende velocemente e Manfred, qualche giorno dopo, offre a Marina di accompagnarli insieme al rifugio dove è nato, gestito dal fratello e sua moglie, che hanno tre figli, con l’intento di far confessare alla giovane madre la sua “colpa” indicibile, a conferma che “non c’è da fidarsi delle donne”.

La salita faticosa verso il rifugio appare come la metafora evocativa dell’inizio del percorso di consapevolezza e di assunzione e riappropriazione di ruoli, l’esperienza che è possibile per Marina un graduale distacco da Marco. L’incontro con un’altra donna e madre, la moglie del fratello di Manfred, premette la condivisione di esperienze e sentimenti che consentono a Marina di sentirsi compresa nella sua ambivalenza nei confronti del figlio, confermando l’affermazione di Winnicott che “è necessario che una madre possa tollerare di odiare il suo bambino senza farvi niente” (1947, p. 243), a fronte della realtà e del potere del suo amore.

La scena proiettata riguarda un momento poco precedente all’agito che Marina perpetra nei confronti del figlio: la macchina da presa inquadra prima un pendolo — si ode lo scoccare dei minuti che passano — e poi Marina che parla al figlio, fantasticando di tornare al lavoro, di riavere la sua vita. È esasperata, sembra in uno stato quasi ipnotico dopo tanto tempo trascorso da sola con lui e gli canta quella ninna nanna popolare che, come una fiaba, fa emergere sentimenti altrimenti negati, che possono trasformarsi in comportamenti aggressivi se rimangono tali: “Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do?”.

È una scena che mette a fuoco quanto profonda può essere la solitudine di una madre e anche di chi ha il coraggio di mostrarla, come ha spiegato Comencini, raccontando di come questo suo film sia stato oggetto di critiche feroci quando è uscito, e di come sia stato rivalutato solo nel tempo. Con grande sincerità, ha ammesso che in quel periodo era in analisi e questo le ha permesso di fronteggiare quel momento difficile di solitudine, comprendendo solo a posteriori di aver toccato temi tabù cui il pubblico e la critica non erano ancora pronti. Il discorso si è quindi aperto sulla necessità, perché una madre tolleri i propri sentimenti di odio, di mantenere altri oggetti di investimento, per non essere paralizzata in una relazione simbiotica potenzialmente mortifera e permettere al figlio di separarsi e crescere autonomamente. Questo è possibile se, nell’esperienza della maternità, è presente “il terzo”, che appare simbolicamente rappresentato dal pendolo: anche l’uomo, durante il percorso verso la genitorialità, affronta una serie di cambiamenti che richiedono il superamento di sentimenti di esclusione, gelosia e rivalità. Si sono esplorate anche le potenzialità creative della maternità, cui la solitudine, quando non è senso di abbandono, può consentire di avere accesso e di svilupparsi, per comprendere e curare la profonda ferita narcisistica del sentirsi una madre incapace.

Foto di Giovanni Sinico

Quindi, “oltre Narciso e le solitudini, quale sogno per il futuro” riguardo la maternità? I cambiamenti sociali e culturali degli ultimi decenni hanno portato nelle donne una maggiore consapevolezza dei propri desideri e delle proprie possibilità, ma il sistema non si è altrettanto evoluto. l’Italia non è un paese per madri: il tasso di occupazione femminile e quello di natalità sono tra i più bassi in Europa.

Comencini, tre giorni dopo questo prezioso incontro, il 30 maggio, ha pubblicato a questo proposito un articolo su la Repubblica dal titolo “La libertà di essere madre”,  individuando nella “sparizione dei bambini in Italia” un cruciale “fattore non visto “: “fare un bambino non ha mai avuto un vero valore pubblico riconosciuto, non ha più un valore privato”. La domanda che ci si deve porre, secondo Comencini è se “esiste ancora un rapporto tra il reciproco desiderio dell’uomo e della donna e il desiderio di generare”. Se la risposta è sì,  è “potente ma inespresso, castrato, negato da numerosi imperativi sociali, culturali, estetici”. Mancano i mezzi, i servizi e, soprattutto, fanno da padrone le angosce e le paure: di dover rinunciare al lavoro e a un corpo perfetto, di sentirsi inadeguate e di esse lasciate sole, dell’incertezza del futuro e della perdita della speranza. È senza dubbio necessario  e urgente che siano “messe in pratica tutte le azioni non solo per ‘assistere’ le donne ma per mettere al centro dell’agenda il diritto alla procreazione” ma, soprattutto, che si proponga “un’idea nuova di maternità” e di procreazione alle giovani generazioni. Questa è una sfida che anche noi psicoanalisti dobbiamo cogliere, non solo nel lavoro quotidiano delle nostre stanze di analisi, non solo nel dare eco a voci come quella di artisti politicamente impegnati come Comencini, ma nel contribuire, con il nostro pensiero, a fare del sogno uno strumento di trasformazione culturale e sociale.

 

 

 

Bibliografia

Comencini F. (1990). Quando la notte. Feltrinelli, Milano.

Winnicott D.W. (1947). L’odio nel controtransfert. In Dalla pediatria alla psicoanalisi,  234-246. Martinelli, Firenze (1975)

Winnicott D.W. (1958). La preoccupazione materna primaria. In Dalla pediatria alla psicoanalisi, 357-364. Martinelli, Firenze (1975).

Zolla E. (1990). Verità segrete esposte in evidenza. Marsilio, Venezia.

Elisabetta Marchiori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

lisbeth.marchiori@gmail.com

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