Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Roberta Amadi
“Le grandi catastrofi storiche si riconoscono dal silenzio di pietra che si lasciano dietro” R. Ronsenblum
“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre.” P.Levi
Si è svolta a Trieste presso il Museo della Comunità ebraica ‘Carlo e Vera Wagner’ la presentazione de ‘La cura tradita – La deportazione dei ricoverati ebrei dagli Ospedali di Trieste durante l’occupazione nazista’, un programma di iniziative volto a commemorare e ad approfondire la conoscenza di quanto accadde ai degenti ebrei durante il periodo del controllo del territorio triestino da parte dei tedeschi.
A partire da quanto avvenne nel pomeriggio del 28 marzo 1944, quando un gruppo di SS irruppe nei padiglioni dell’Ospedale psichiatrico e dell’Ospedale ‘dei cronici’ all’interno del comprensorio di San Giovanni, per prelevare i pazienti di religione ebraica caricandoli a forza su un autobus che li condusse dapprima alla Risiera di San Sabba, e deportarli poi il giorno successivo ad Auschwitz, dove trovarono presto la morte nelle camere a gas. Un’azione rapida e precisa, messa a punto da un commando speciale precedentemente attivo e addestrato all’interno del programma T4[1] in Germania, già pertanto portatore di una logica di sterminio nei confronti delle persone fragili e malate, e che potè far leva -come ha ricordato Tullia Catalan storica del Dipartimento di Studi Umanistici e referente scientifica del Museo della Comunità ebraica- sulla particolare e drammatica condizione di Trieste, che in quel momento si trovava ad essere zona di diretto interesse del Terzo Reich e su cui la Repubblica Sociale Italiana esercitava un potere parziale[2].
Gli ordini arrivarono dall’alto e i nazisti andarono a colpo sicuro, avendo qualche giorno prima chiesto e ottenuto, senza troppa opposizione da parte dei dirigenti ospedalieri, le liste di tutti i ricoverati ‘di conclamata razza ebraica’.
Un elenco di trentasette persone che appartenevano ai ceti meno abbienti della comunità e che forse, anche per questo, non erano riusciti a scappare e mettersi in salvo prima. Su tutte le loro cartelle venne indistintamente riportata la stessa dicitura ‘dimissione: 28.3.1944 prelevato manu militari da una formazione delle SS, parte per destinazione ignota’.
Malati, certamente, ma fra loro anche donne e uomini spaventati, braccati, stretti nell’angoscia degli accadimenti, che cercavano scampo e protezione all’interno delle strutture sanitarie e che trovarono, al contrario, una ‘cura tradita’, eticamente sovvertita nel patto di solidarietà e di tutela della vita e della salute delle persone.
Della dimensione traumatica e dei segni lasciati da tale evento nelle generazioni successive ha parlato Helen Brunner, psicoterapeuta e discendente di una delle persone deportate, intrecciando la toccante ricostruzione della storia familiare a quella della propria scelta professionale e del proprio impegno come volontaria presso l’Ospedale Psichiatrico di Trieste. Un percorso ‘frutto di un lungo lavoro di ricerca e di una personale elaborazione perché dietro ad ogni parola, ad ogni spazio bianco, tra le lettere, tra le righe, c’è una storia, e per riuscire a riappropriarsene e a raccontarla, a volte ci vuole molto tempo’.
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[1] L’organizzazione di copertura attraverso cui il programma di ‘eutanasia nazista’ fu perpetrato nei confronti delle persone con malattia mentale considerate, insieme ai disabili e agli incurabili, ’immeritevoli di vivere’, prese il nome dalla sede del loro quartier generale, ubicata al numero 4 della Tiergarten Strasse a Berlino. Friedlander H., Le origini del genocidio nazista. Editori Riuniti, 1997
[2] in quel momento Trieste faceva parte dell’OZAK Operationszone Adriatisches Küstenland, una delle due ‘Zone di Operazione’ istituite da Hitler dopo l’8 settembre 1943 sull’Italia occupata
Sulla deriva della medicina e dei medici durante il regime nazi-fascista, sugli interrogativi che solleva, e sul lavoro di conoscenza e di riflessione svolto finora su questi temi, si sono soffermati i contributi dei tre relatori di formazione medica presenti all’incontro.
Michael von Cranach -il direttore della clinica psichiatrica di Kaufbeuren che negli anni ’80 aprì l’archivio dell’ospedale tedesco e denunciò gli orrori dell’eutanasia nazista nei confronti delle persone malate di mente- ha descritto il complesso e articolato percorso di elaborazione storica e documentaristica, spesso attraversato da movimenti di negazione e di rimozione, grazie al quale è stato possibile in Germania nel corso degli ultimi decenni provare a ricostruire quanto accaduto, comprendere le logiche e i metodi, identificare i colpevoli, dare un nome alle vittime e provare a onorarne la memoria.
Federica Scrimin, medica e studiosa delle dinamiche fra medicina e Shoah, ha illustrato il lavoro di lettura delle cartelle cliniche dei pazienti triestini deportati, già in parte svolto e pubblicato negli anni ’90 da Lorenzo Toresini e Bruno Norcio, sottolineando la ricchezza delle informazioni contenute nei documenti sanitari dalle quali è spesso possibile traguardare un contesto storico sociale più ampio, e come di fatto molte delle ricerche effettuate nel corso degli anni negli archivi degli ospedali siano partite dall’iniziativa spontanea dei medici, piuttosto che da un interesse da parte degli storici.
Sulla stessa linea l’intervento conclusivo di Lorenzo Toresini, che ha raccontato come la scoperta dei documenti dei pazienti ebrei conservati nell’archivio dell’Ospedale Psichiatrico, quando lavorava come giovane psichiatra nei servizi di salute mentale a Trieste, sia avvenuta sulla base della testimonianza di un infermiere che aveva assistito alla deportazione dei malati.
Una confidenza, un ricordo di cui molti erano indifferentemente al corrente, ma che da un punto di vista psicoanalitico potremmo pensare abbia in quel momento incontrato nel giovane medico venuto da fuori città, non soltanto un interlocutore ma un destinatario della memoria che ha saputo farsi ‘testimone garante’, (Chiantaretto, 2017), inaugurando uno spazio d’appoggio sulla psiche dell’altro dove il carico della parola testimoniale ha potuto essere riconosciuto e rilanciato all’interno di un lavoro di indagine, di denuncia e di studio che perdura nel tempo, essendo poi le ricerche del dottor Toresini proseguite negli Ospedali psichiatrici di Pergine e di San Servolo a Venezia.
Provando a tenere uniti il filo della testimonianza con quello della storia, il gruppo promotore del progetto -che comprende medici, storici e familiari delle vittime- ha con questa presentazione inoltre dato avvio a una raccolta di fondi per assegnare una borsa di ricerca da svolgere negli archivi locali e nazionali per sviluppare gli studi storici sull’argomento e per realizzare una targa commemorativa da apporre all’ingresso del comprensorio di San Giovanni, in occasione degli ottant’anni dalla data della deportazione il prossimo marzo 2024.
Il Museo ha lanciato una raccolta fondi per poter continuare le ricerche su questi eventi così tragici e sommersi. Per ci volesse partecipare alla raccolta, può avere informazioni a questo link o quest’altro link.
Qualora i risultati lo consentano, c’è l’idea di estendere il lavoro anche agli archivi di altri istituti di cura cittadini in cui nello stesso periodo sono avvenute altre retate -come l’Ospedale Maggiore, l’Ospedale S. Maria Maddalena e l’Ospedale infantile ‘Burlo Garofalo’- portando poi i risultati di tali ricerche all’interno di un convegno e di una pubblicazione.
I processi di rimemorazione e di costruzione-ricostruzione, come noto, non seguono un andamento lineare e anche se gli eventi sono conosciuti, possono attendere a lungo prima di essere approfonditi e per quanto possibile, elaborati. Per entrare in contatto con l’eredità storica e testimoniale di eventi così densamente traumatici, sono necessari tempi e spazi di ricezione allargati, inevitabilmente attraversati da latenze e negazioni, che consentano l’alternarsi di periodi di avvicinamento e di allontanamento in grado di svolgere una funzione sufficientemente paraeccitatoria rispetto al potere effrattivo che il trauma continua a mantenere ed esercitare (Guarnieri, 2016).
Traiettorie elaborative complesse e composite che non possono percorrersi una volta per tutte, e che caratterizzano quel lavoro di cultura individuale e collettivo, all’interno del quale ‘La cura tradita’ va a collocarsi, attraverso cui procedono i processi di storicizzazione.
Bibliografia
Chiantaretto J.F., Testimoniare, sopravvivere, scrivere: il testimone interno in questione, Notes per la psicoanalisi, n°10, la testimonianza, 2017
Guarnieri R., Dove può arrivare la psiche?, Notes per la psicoanalisi, n°8, il trauma, la Storia, 2016
Roberta Amadi, Trieste
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