*Per citare questo articolo:

Buffoli G., (2024) “Il tuo rap è come un rock”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.206-226

Il tuo rap è come un rock

di Guido Buffoli

(Padova) Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Cantare, oh oh, rappare oh,oh,oh…

Da Modugno a Celentano, gli stili musicali mostrano modificazioni e successivi cambiamenti a seconda dei tempi, ma anche costanti che perdurano per un insieme di fattori complessi, utili da identificare perché danno molte informazioni su vari settori del sapere e del sentire umano. È significativo il fatto che riguardo alla complessità del rapporto uomo-suono tuttora non si sia riusciti, a differenza di altre standardizzazioni che si basano su racconti, domande, disegni, segni, colori, a costruire test proiettivi sonoro musicali proprio per la maggiore complessità nello strutturarli, somministrarli e interpretarli.

La musica si può definire ineffabile? E allora come si fa a parlarne? Da sempre comunque ci si prova, lo farò anch’io prendendo a prestito quello spicchio di musica che si chiama rap senza la pretesa di un’analisi musicologica esaustiva e dotta, sfruttando invece spunti associativi.

Fin da bambino ero sensibile alla musica, i miei cantavano nei giorni di festa, alle elementari sono stato avviato ai primi studi di teoria e della fisarmonica, benché avessi espresso il desiderio di suonare il pianoforte. Con la fisarmonica, non proprio amata, scoprivo però il problema della coordinazione motoria visto che, oltre a suonare con due mani i tasti su due tastiere diverse, c’era la necessità di usare la sinistra come mantice per dare voce, continuità e volume.

La tastiera del pianoforte la vedi bene di fronte, quella della fisarmonica di striscio sulla destra, quella dei bassi e accompagnamento ancor meno, bisogna vederla piuttosto con le mani. L’uso del mantice esercitato dalla mano sinistra fa fare associazioni con il respiro, da una parte con i suoi limiti, dall’altra imprime forza e prolungamenti artificiali simili a chi li ottiene con lo studio del canto.

Fin da allora la complessità della coordinazione mi affascinava e guardavo anche con interesse le esibizioni di danza alla scuola di ballo. Anche il corpo poteva suonare musica e disegnare nell’aria.

La fisarmonica purtroppo già allora era diventata uno strumento di nicchia, più vicino agli adulti o alle gite in montagna. Non erano tempi in cui si ascoltava il bandoneon di Astor Piazzolla, allora sconosciuto.

In quel periodo nel panorama della canzone prevaleva ancora la linea melodica alla Claudio Villa, tuttavia cominciavano a sentirsi le influenze del mondo rock, del beat e dei cantautori con testi impegnati. Nel ballo si passava dal walzer, dal liscio e dal lento, tutti balli di coppia, al rock and roll e al twist, in cui non c’era più il contatto di coppia e l’irruenza del movimento prendeva il sopravvento.

Nella scuola, quella di lingua italiana, la musica non aveva spazio e considerazione, però nel contesto giovanile si formavano i complessini, così, detto fatto, ho messo insieme ritmo, coordinazione e musica dandomi alla batteria, che insieme al basso erano il cuore pulsante dello Sturm Und Drang musicale giovanile. Sono passato, per transizioni, dagli Shadow, Rolling Stones, Beatles, agli Who, senza disdegnare l’Equipe 84, i Giganti e altri gruppi italiani; a seguire, durante l’adolescenza, ho iniziato a seguire le evoluzioni del blues, soul e Jazz e di qualche precursore come Carosone, che nelle sue canzoni aveva intuizioni jazz, e un batterista come Gegè di Giacomo. Il mio idolo batterista, prima di Keith Moon degli Who, e del batterista degli Zeppelin, è stato Gene Krupa.

Partendo da queste esperienze e ricordi che hanno caratterizzato la mia giovinezza, fra le tante cose che si possono considerare nel panorama musicale e del rapporto uomo suono, di cui mi sono occupato come musico terapeuta e psicoanalista interessato alla voce, mi sono soffermato sui rapporti fra musica e adolescenza, fra l’altro anche sul rap, che con i periodi turbolenti di quell’età c’entra parecchio.

Quando allora si ascoltava San Remo, gli adulti criticavano le novità, i capelloni, gli urlatori, dichiarando che era gente che non conosceva la vera musica; allo stesso modo anche ora, quando ho chiesto a diversi adulti perché secondo loro ai giovani piace molto la musica rap, mi sono sentito dire che è perché non si tratta di musica, ed è facile far credere di cantare.

Al di là di quella che potrebbe essere una difesa legata a rigidità di estetica musicale, ricordo che anche certa musica all’avanguardia, parimenti all’arte che cerca nuovi modelli espressivi, è stata definita a volte cacofonia di suoni alla rinfusa.

Per non essere superficiale e matusa, mi sono chiesto cosa mi facesse venire in mente il rap.

La prima cosa è stata ricordare le esperienze che ho fatto nell’ambito del rapporto uomo-suono-voce, specie legate ai tentativi di parlare cantando, o cantare parlando che utilizzavo nell’animazione e nella terapia di bambini con gravi problemi.

Bisogna provare per credere a quali difficoltà si va incontro, se si prova a improvvisare parole cantando e quali step bisogna attraversare per arrivare a strutturare dialoghi cantati che abbiano un senso, senza scadere in filastrocche semplici e ripetitive. Non è affatto facile e fa anche parte di esercizi che propongono, magari con prose ritmate, nelle scuole di dizione teatrale, e di certo nelle scuole di musicoterapia e nell’animazione sonoro-vocale.

Si possono ricordare, per questo, la velocità e la scorrevolezza dei monologhi del “mattatore” Vittorio Gassman, che non erano solo virtuosi e complicati scioglilingua, ma ancor più le gare di velocità vocale dei 10 rapper più famosi, che sono davvero impressionanti.

A proposito dell’importanza della voce, di dizione o declamazione teatrale, mi sono ricordato del testo di Antonio Morrocchesi del 1832, intitolato “Lezioni di declamazione e d’arte teatrale” dove parla delle regole di “pronunzia”, “enfasi”, “tuoni della voce”, “oratoria e gesti” (1991).

Nella lezione sulla voce l’autore sottolinea l’utilità, la necessità di ben porgere (dal dizionario della Crusca, “porgere”: buona o cattiva maniera nell’arringare, o nel favellare) la voce, ovvero declamare, ricordando l’importanza che a questo davano Demostene, Cicerone e Quintiliano.

Ho trovato interessante anche un passo in cui il Morrocchesi, parlando del leggere, scrive: “I libri che leggonsi altro non sono…  che ombre vane di fantasmi privi di sangue ed il lettore ravvivar gli dee, se conoscer ne vuole chiaramente l’effige; fa duopo che lor presti la sua voce, e i suoi gesti; vegga Edipo che si percuote la fronte e lo senta urlare pel dolore…” (1991, 32)

Paragona la voce a una specie di strumento a fiato, osserva che ciascuno può avere in sé tre tUoni di voce: alto, mezzano e basso che corrispondono alla “voce di testa, alla voce di gola e voce di petto” (tuoni sta per toni, ma l’associazione con tuoni mi pare conferire ben altra energia, e poter avere un senso rispetto ai timori e resistenze che spesso abbiamo riguardo alla voce e all’usarla come espressione emotiva, specie se questo mette in luce le difficoltà di armonizzare pensiero razionale e quello emotivo).

Oltre alla voce l’autore scrive capitoli sull’articolazione, sulla pronuncia, sulla declamazione, sull’enfasi, sulle pause e sui tuoni dei quali ha a dire: “Tre sono i mezzi che hanno gli uomini per esprimere le idee, e i loro sentimenti; parola, tuono di voce e gesto, ma le parole possono esprimere e vero le passioni col nominarle tuttavia se non si aggiunge il tuono della voce proporzionato, si esprimerà piuttosto un’idea che un affezione dell’animo […] sebbene i tuoni possono variare quasi all’infinito, e che difficile sia il distinguere le differenze e darne delle regole certe, pur nulla ostante sembra che a tre specie ridursi possano, cioè; al tuono familiare, al tuono sostenuto, al tuono medio[…] Il tuono familiare è quello della conversazione ordinaria. Il tuono sostenuto si ottiene abbassando la voce sul principio di ogni periodo battendo sopra certe sillabe, facendo sentire le sillabe finali se in prosa le rime se in verso. Il tuono medio è più risonante di quello famigliare ed alquanto inferiore al tuono sostenuto” (Morrocchesi, 1991, 147,148, 152).

Ancora l’autore, riguardo alla declamazione, illustra i segni che la contraddistinguono, e come uno spartito consentono di parlare di musica della declamazione, similmente a quanto avviene nel canto che era regolato da certe modificazioni che costituivano l’arte della “Melopea”. Questa era divisa in tre specie: l’Ipatoide (canto tenuto sulla corda bassa), la Mesoide (sulla corda di mezzo) e la Nete (canto sui suoni acuti). La Melopea fu divisa in tre generi: Sistaltica, atta a serrare il cuore con le passioni, amore e tristezza. Diastaltica, per aprire il cuore a gioia coraggio e magnanimità. Eucastica, atta a ricondurre l’animo allo stato di quiete (151-152).

Proseguendo nella lettura della lezione sulla declamazione vengono esposti i segni con cui si possono indicare tutte le variazioni della musica della declamazione che per sintesi vengono ridotti a: intonazione di petto, di gola, intonazione familiare, sostegno, enfasi, interrogativo falso, linee superiori, linee inferiori, appoggiatura forte con l’intonazione di gola.

Mi è parso utile riesumare questa digressione storico scolastica per sottolineare come fin dall’antichità si è posta attenzione alla voce, alla parola e al canto in termini molto pensati e codificati, e come parlare, cantare e musica siano accomunati. È tristemente vero che riguardo alla comunicazione, al ben o mal porgere la voce nell’attualità, a parte settori di nicchia, ci sia scarsa attenzione ed educazione, e quanto questo possa riguardare sia noi psicoanalisti, specie se ci occupiamo di transfert e controtransfert e di ciò che inconsciamente si cela dell’inconscio dei tuoni della voce, sia tutti coloro che lavorano nel settore della terapia, della pedagogia e della comunicazione.

Tornando al rap, e al suo particolare uso della voce, ho visto diversi rapper fare gare, tipo botta e risposta, e ho fatto attenzione alla differenza di chi si occupava di non bloccarsi sulle rime, e di chi invece riusciva in più ad aggiungere contenuti.

Da ragazzi qualche volta ci si sfidava a “Oh che bel castello Marcondirondirondello…” con rime che finivano dopo un po’ per diventare improbabili, bislacche o allusive al sesso. Nulla di nuovo sotto il sole?

Il rap, racconta persino Google, è nato nel Bronx negli anni ‘70 in America, collegato al beat e all’hip-hop, e ad occuparsi del mettere parole in rime un precursore è stato Anthony Holloway, noto DJ, ma il termine era già presente nell’Inghilterra del XVI secolo riferita al linguaggio afro-inglese vernacolare. Si è diversificato in vari sottogruppi, negli anni in cui la protesta e la rabbia pervadevano variamente la musica nel mondo. Ha similitudini e origini etnico africane, in cui c’è stata una millenaria tradizione ritmico-vocale e una cantilena prosodica nella voce portata dai griot, specie di cantastorie. Lo stile si ritrova anche nei discorsi di James Brown e nelle provocazioni di Mohamed Alì.

Per ritrovare connessioni più vive, pensando ai rapper, fanno capire di più film autobiografici come “8 mile” che racconta la storia di Eminem, uno dei pochi rapper bianchi riconosciuto e osannato dal pubblico di colore, in particolare dagli adolescenti, o il film “50 cent”, nome di battaglia di altro rapper famoso nero, o quello ancor più complesso “Straight Outta Compton” dove spicca il rapper Dr. Dre, che fra l’altro ha favorito il successo di Eminem. Questi film raccontano spaccati di vita turbolenta americana, in cui il rap e la malavita si incrociavano spesso, raccontano del degrado, della droga, dello sbando adolescenziale, ma anche di come diventare rapper abbia permesso a questi protagonisti di trovare una strada e un’identità musicale e personale.

Il rap è fatto di testo, ritmo e toni, e si differenzia dallo spoken word perché si accompagna con strumenti musicali e sarebbe comunque nelle intenzioni etimologiche un modo di “conversare”. Il rapper può improvvisare nel senso di un freestyle, ma anche aggiungere proteste e accuse gareggiando in sfide “dissing”.

Spesso il termine “MC” e il termine “rapper” vengono usati come se fossero sinonimi. In realtà un MC è un rapper, ma il rapper non è sempre un MC. La caratteristica comune ai due personaggi è la capacità di comporre testi che abbiano un senso, che parlino di un qualcosa dall’inizio alla fine della composizione. Ma un rapper per essere veramente un bravo “maestro di cerimonia”, come dice chiaramente il suo nome, deve anche:

  1. riuscire a fare freestyle, cioè improvvisare delle rime su qualsiasi base, sul silenzio, o con l’accompagnamento di un beat-boxer;
  2. avere il flow (letteralmente flusso, inteso come il ritmo) necessario per riuscire a “trascinare” la folla che sta ascoltando.

Anche se si può fare rap (rappare) a cappella, solitamente un MC è accompagnato da qualcuno che possa fornirlo di una base, che può essere il dj o il beat-boxer. In sostanza l’MC è il più alto grado di esperienza attribuibile a un rapper.

N.W.A. (Niggaz With Attitude) 1986 – 1992 – Artisti Dr.Dre, Ice Cube, Eazy-E, MC Ren, Dj Yella, genere west coast, hardcore hip hop, gangsta rap, famosi per il brano “Fuck tha Police”[1]:

“… Si fotta la polizia che viene da sottoterra
per un giovane nero è dura perché è marrone
e la polizia non vede altro colore, così
pensano di avere l’autorità di uccidere una
minoranza..
… Fottendomi perché sono un teenager
con un po’ di grana addosso ed un cercapersone
Rovistandomi nella macchina in cerca della roba
perché pensano che ogni ne*ro sia un narcotrafficante . . ”

 

Eminem (genere Comedy Hip Hop) dal 1997 – scoperto dal Dr.Dre è considerato uno dei rapper migliori di sempre, premio Global Icon di MTV, è il quarto artista ad avere ricevuto il premio dopo i Queen, Bon Jovi e Whitney Houston. Primo rapper della storia a vincere l’Oscar per la migliore canzone con il brano Lose Yourself[2] dal film autobiografico “8 Mile”. Diventa famoso con il brano “My name is[3]:

“.. Ciao, mi chiamo(cosa?)
mi chiamo (chi?)
Mi chiamo (chaka-chak Slim Shady)..

… Ehi bambini vi piace la violenza? (yeah, yeah, yeah)
volete vedere che mi infilo unghie lunghe 20 cm nelle palpebre? (uh-uh)
vi va di copiarmi e fare esattamente come me? (Yeah, yeah)
volete provare un acido e fottervi più di quanto lo sia la mia vita? (uhu?)..”

50 Cent (gangsta rap) dal 2002 – Dopo la sparatoria che lo ha coinvolto a seguito di un’infanzia passata in una zona malfamata e dedita al crimine, lasciandolo colpito 9 volte, di cui una al volto con un frammento rimasto nella lingua e che gli donerà la sua particolare pronuncia, lancia la sua carriera da rapper fondando il suo gruppo G-Unit e con l’album “Get rich or die tryin’ ” per la precisione con il brano “In da Club[4].

“… Potete trovarmi al club, con la bottiglia piena di bollicine,
guarda, mami, ho delle pastiglie di ecstasi se sei una che si fa,
mi piace scopare, non fare l’amore, quindi vieni e dammi
un abbraccio se vuoi una ripassata…

… Ne*ri, avete sentito che me la faccio con Dre e ora volete tutti
mostrarmi il vostro amore?
Quando vendi come Eminem allora le tr*ie vogliono scopare (woo)
Guarda fratello, niente è cambiato, le tr*ie sono tr*ie e la G-Unit va alla grande…”

Si può affrontare l’argomento rap secondo diverse linee riguardo a musica e testi, la più complicata è quella di estrapolare all’interno della storia della musica quali passaggi evolutivi, creativi o involutivi hanno portato a rendere questo genere, particolarmente gradito agli adolescenti, riconoscibile e strutturato. In ogni caso, non si può banalizzare superficialmente dichiarando che il rap non è musica e che, semplicemente, guardando la durezza dei testi che espongono crudamente aspetti della realtà, inneggia al fottersene di regole, etica e linguaggio. Il rap deriva da paesi lontani, da zone molto disagiate, alcune tristemente presenti anche in Italia ed in Europa, comunque fra i giovani, non solo adolescenti, anche da noi è molto presente la convinzione che sia necessario procurarsi adrenalina, sballo, alcol, droga, sesso facile, e protestare contro gli adulti e il potere repressivo.

Per il momento mi limito a soffermarmi su alcune caratteristiche basiche. Se nelle intenzioni il rap è un modo di conversare, si pone un obbiettivo comunicativo e sociale che va al di là del rapporto fra ascoltatore e musicista perché è come se intendesse, in modo più diretto, coinvolgere l’ascoltatore e promuovere una risposta, magari sfruttando i neuroni a “orecchio” invece che a specchio.

Un conto è coinvolgere il pubblico con le emozioni, invitandolo a “su le mani!”, a battere il tempo o a cantare alcuni passi del pezzo, come spesso avviene nei concerti in altri generi musicali, altro è mandare messaggi vari di protesta, di accusa, altro ancora è conversare, cioè indurre con il proprio rap gli altri a fare altrettanto abbassando le barriere fra palco e platea.

Cantare insieme prevede in qualche modo capacità di sintonizzarsi su ritmo, melodia e testo. Difficoltà che spesso fa desistere quelli che temono di essere stonati e aritmici. Rappare insieme facilita in questo senso, allarga le possibilità di partecipazione? È più facile parlare cantando, che cantare?

Considerando l’etnomusica, socio-familiare che da secoli influenza il canto, il ritmo e la danza, si può pensare che il rap cerchi e trovi modi di oltrepassare i limiti che testi e ritornelli impongono.

Gli adolescenti spesso amano ambivalentemente sentirsi liberi, anticonformisti, e allo stesso tempo conformi a un gruppo, a un’idea, un movimento. Non c’è dubbio che lo stile rap abbia influenzato i giovani, non solo nel vestire, nel muoversi, nel gesticolare e nell’usare linguaggi come “brò… fra… bella zia”.

Per associazione penso allo stile e alla forma, all’uso dei giovani del cappuccio che era utilizzato spesso dagli adolescenti nelle zone disagiate per non farsi riconoscere dalla polizia o dai rivali e che è diventato poi un uso distintivo comune anche da noi. Credo che il rap, riguardo alle oscillazioni ambivalenti adolescenziali, si presti bene sia ad animazioni che a manipolazioni per consentire ai giovani sia positivamente di provare mettere in mostra aspetti dell’individualità, sia di nascondersi non solo con i cappucci e l’abbigliamento, ma di nascondersi camaleonticamente nel gruppo, nello slang comunicativo e nei gesti sotto la bandiera del sottrarsi alla tirannia degli adulti, visti come capò a loro volta sottomessi al potere.

Il mio canto libero[5] diceva Lucio Battisti: vero o no, sappiamo che l’adolescenza oscilla fra bisogno di libertà e di rifugio nella comfort zone. Cantare liberamente e stare invece in bolle ristrette potrebbe rispecchiare questo genere, sia a livello musicale che vocale, tonale e modo di esprimere emozioni.

Recentemente si è svolto a Scampia un grande festival rap dove sono state fatte interviste a musicisti per parlare di questo genere musicale. La prima cosa che salta alle orecchie è che si tratta di artisti musicalmente preparati e non faciloni che hanno cercato generi imitabili. In particolare i rapper hanno rappresentato agli intervistatori la vera complessità del rap, nel senso che un testo, per essere un buon prodotto, deve avere ritmo e melodie convincenti, su cui mettere parole che affrontino temi seri, introspettivi e di protesta, sommati ad inserti comico-ironici divertenti. Parole e musica si devono rincorrere e ritrovare in un complesso ritornello di rime, su cui si costruiscono altre rime dette anche “barre”. Il tutto assieme a movimenti e gestualità e uso dei toni della voce che si fondono in uno stile particolarmente riconosciuto dai giovani.

In un certo senso il rapper professionista è come se dovesse eseguire contemporaneamente una partitura orchestrale per più strumenti e danza. Si tratta quindi di un genere molto complesso che impegna gli artisti contemporaneamente su più fronti, non solo per fare spettacolo ma per comunicare con il pubblico, renderlo più partecipe ed emotivamente coinvolto.

A detta degli intervistati, si può dire che ormai esiste un rap italiano distinto, che si svincola da quello americano o straniero, e viene considerato dal rap estero, che nelle sue canzoni ha iniziato a fare uso di parole italiane.

Mi sono chiesto se gli adolescenti percepiscono la complessità di questo genere musicale, quanto li coinvolge e in un certo senso li apparenta e li fa partecipare, portando, magari in modo disordinato, temi più vicini a loro. Spesso i testi esprimono allo stesso tempo protesta dura, rabbia, volgarità ma anche eros, quotidianità di mix conflittuali; c’è anche un uso ipnotico di ragtime ossessivi, unito alla possibilità di un uso liberatorio della voce che a ben sentire si avvicina agli antichi esercizi della retorica e del ben parlare.

Proprio il recupero insistente della voce e della parola si contrappone ai silenzi e all’uso e abuso della comunicazione digitale interpersonale degli adolescenti e può consentire loro di affrontare, almeno in parte, il tabù della loro voce e della identità vocale nel percorso transizionale dell’emancipazione.

Come avevo anticipato, parlare cantando è un’esperienza utile su diversi aspetti: consente di entrare in un rapporto più consapevole fra ritmo e respirazione, fra volumi, toni e risonanze delle cavità interne che concorrono alla specifica identità sonoro vocale di ogni persona, che recenti esperimenti ritengono di poterla tipizzare anche in maggiore e minore. Cantare parlando permette di esplorare le diverse potenzialità di estensione, colore e timbro, avvicinando la persona al contatto con le rapide associazioni sonoro-emotive che accompagnano la voce e la comunicazione e la riconducono alla sua storia etno-sonoro-familiare, culla della taratura sonora di emozioni e affetti; più semplicemente, consente di esercitarsi su allungamenti e accorciamenti di vocali e consonanti e di dare rinforzi ritmici. Non ultimo negli esercizi di improvvisazione, fa risaltare resistenze ma anche aumento delle associazioni libere.

Tornando al “mio canto libero” chi se la cavava con la voce provava a cantarlo, accettando che fosse molto difficile assomigliare e impossibile eguagliare la voce di Battisti, o di Mina, o di tanti altri, chi si sentiva stonato nemmeno ci provava e se ne stava in disparte invidiando gli altri. Con il rap alcune di queste difficoltà si superano e il canto risulta più accessibile a molti, tanto che, pur essendo, come detto, molto complesso per gli autori e i virtuosi, ai concerti il pubblico viene invitato a risuonare non solo nei brevi ritornelli.

Un altro aspetto che si può cogliere è l’uso di slang, che negli stessi testi miscelano insieme esclamazioni, parolacce, proteste, giudizi, stati depressivi, idealismi, ricerca di libertà, conformismi anticonformisti e storie di vita personali, di coppia, sociali.

Osservando i talent show spesso si vedono giovani partecipanti, già con nomi d’arte, precocemente approdati al rap, che spesso raccontano come l’unico modo di attraversare difficili momenti della loro vita sia stata la musica, in questo caso il rap. Dichiarano di sentirsi loro stessi quando cantano e suonano. Si nota anche come frequentemente siano soggetti timidi e introversi nel parlare, mentre trovano energia e potenza nell’esprimersi rappando.

Che l’adolescenza sia un periodo straordinario e difficile non occorre ripeterlo, così come i processi che tendono a raggiungere un’identità anche per quanto riguarda il genere. Sottolineare che la musica sia uno spazio caro ai giovani e che siano i primi ad accoglierne le novità non ci dice nulla di nuovo, così come che ci siano per ogni nuova generazione tipizzazioni sonoro-musicali diverse. La domanda interessante è se il rap, che parte da molto lontano, ora abbia la sua risonanza perché particolarmente si collega alle pulsioni e ai conflitti adolescenziali, e come si rapporti a un malessere ambientale diverso ma più esteso rispetto al Bronx o ad altre aree disagiate.

Personalmente ritengo di sì. Chi rappa parla, si racconta, canta, usa la voce come uno strumento ritmico, protesta, soffre, si indigna, gesticola, cammina e danza, usa segni, segnali e simboli comunicativi, si traveste e si smaschera alternando tutte queste cose all’interno di un insieme. Confusione e ordine si susseguono… i volumi si alzano e si abbassano ma non diventano l’urlo, il grido che caratterizzava musiche dure precedenti… si parla di sesso, si usano termini espliciti ma è meno presente la seduzione o l’erotizzazione. Viene riportata, anche se non intenzionalmente, l’attenzione al fatto che la ipersessualizzazione negli agiti adolescenziali è spesso una copertura alle difficoltà di relazione… formalmente si ammette la libertà di genere e si spinge a una precocità di autodeterminazione… si forniscono pattern difensivi all’ansia, alla dipendenza in un mix di negazioni e prese di coscienza.

Va anche sottolineato come il rap italiano sembri scorrere in modo più liscio e melodico, se il rapper canta in napoletano o comunque meridionale, magari anche perché qualche origine antesignana proviene dal “teatro dei Pupi” e dal “Cunto” che si basavano sulla fascinazione della parola.

Credo sia importante che, senza saperlo, attraverso il rap si attivi una qualche forma di percezione, attenzione “materica” al fatto che comunichiamo attraverso corpo-pensieri concreti e non astratti, e che quello che avviene nelle miscele di alternanze del rap alluda, anche se parzialmente e in modo più semplice, alla vera complessità di ciò che succede nascostamente nella relazione umana. Il vero rap può rendere più percepibili gli scambi, poco consapevoli, dei corpo-pensieri e slatentizzare maggiormente segnali di transfert e controtransfert, non solo nella coppia rapper– ascoltatore, ma anche nelle proiezioni del rapper sul gruppo e viceversa.

Non è tutto suono quello che suona, può essere anche rumore come nell’astrattismo musicale, certo può anche essere solo rumore e basta. Si potrebbe dire che il rappare è una specie di palestra spontanea popolare animativa, che supplisce alle carenze della musica nella scuola, specie per il canto, facilita la ginnastica della voce e la integra nel corpo, attraendo persino i titubanti che si credono stonati e magari cantano solo sotto la doccia.  Si tratta di un genere che consente di esprimere voce, parole e movimento senza dovere essere cantanti o ballerini provetti e avvia all’esibizione scenica, quindi, nella fase iniziale anima un apprendimento facilitato che non oppone grandi barriere, anzi migliora l’identità vocale e lo schema corporeo.

Tuttavia, essendo un genere molto complesso, come ogni altro genere musicale, per progredire ed essere davvero goduto creativamente richiede particolare applicazione e non va confuso con i rapper fai da te, improvvisati che cercano scorciatoie. Quest’ultima tendenza, frequente nell’adolescenza, riprende la parte infantile che si aspetta magia, più che perseverazione esperienziale. Sempre nell’adolescenza può esserci anche la perseverazione ossessiva e ripetitiva che diventa sorda proprio alla realtà dei corpo-pensieri che utilizza difensivamente il rap.

Non va dimenticato il potere attrattore del rap, di potersi identificare in un gruppo che accoglie e protegge e si presenta senza bavagli e peli sulla lingua, e si permette anche di esercitare, attraverso certi testi, rappresentazioni conflittuali di irrigidimento e rabbia mascherati.

In questo cocktail che può risultare più o meno buono, a seconda della bravura del barman e della sensibilità gustativa dei bevitori, ci metterei anche un pizzico di ritorno alla strofa e al ritornello, alla nenia: alla fiera dell’est… volta la carta… gira la scopa Piero se copa… quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due…  e anche un po’ di grammelot tipo Dario Fo e del veneto Ruzzante.

Qualcuno ha detto che la musica è una specie di droga, che però non fa male, e questa frase fa pensare soprattutto all’adolescenza, in cui appunto sballo e droga sono molto diffusi. Va detto però che, mentre alcol e droghe producono sensazioni, ma anche evidenti danni, la musica, sempre che non sia usata a volumi nocivi o manipolata, danni non ne produce.

Come diceva una canzone: “solo una sana e inconsapevole libidine, salva i giovani dallo stress e dall’azione cattolica”[6].

Altre storie sono quelle tristemente note di suicidi di musicisti anche famosi e di morti premature. A questo proposito si può ricordare Freddie Mercury dei Queen e il rapper Eazy dei Compton, prematuramente scomparsi per Aids proprio quando avevano ricomposto le band originali che si erano sciolte per conflitti e litigi. L’adolescente ha sempre dimostrato di avere bisogno, scostandosi dai genitori, di trovare altre famiglie attraverso l’appartenenza a gruppi e di creare legami di fratellanza, spesso però instabili e conflittuali.

La storia dei Queen e dei Compton ha mostrato come attraverso la musica, nonostante le vicissitudini della vita che li ha portati anche a litigare e dividersi, questi musicisti abbiano mantenuto relazioni affettive tali da permettere loro di riavvicinarsi ed essere solidali durante la malattia e la morte dei loro leader. Per gli adolescenti e il loro cammino emancipativo è piuttosto importante non solo imparare ad andare d’accordo nelle relazioni, ma anche a saper litigare senza che la rabbia distrugga l’affetto e la comunicazione.

La musica, la danza e il canto in particolare hanno una funzione protettiva rispetto alle pulsioni aggressivo-distruttive. In particolare l’atto cantato non è rilassante ma energizzante, e ha un’azione sul sistema nervoso centrale molto attivo, se mai il rilassamento giunge dopo aver esercitato e goduto il canto.

Nel cantare si può immaginare poi una specie di percorso evolutivo relazionale che parte dall’in-sonanza, passa alla per-sonanza e arriva alla con-sonanza.

Con in-sonanza ci si riferisce alla percezione del suono nel corpo e a una sua funzione psicosomatica armonizzante; si dice infatti sentire di testa, di pancia. Per per-sonanza si intende ciò che rende specifico e peculiare il sentire di ogni persona e contribuisce alla consapevolezza di un’identità (persona = per-sonat).

L’identità sonoro-vocale, la conoscenza del proprio sé, consente di aprirsi alla relazione e diventa un “per”, quel “per” latino, il mezzo per scoprire come suonare, cantare, parlare all’altro. Infine, attraverso la conoscenza e la consapevolezza del sé sonoro e di quello altrui, si può raggiungere la con-sonanza, cioè il risuonare, armonizzare, sintonizzare insieme.

Tutto questo sembra adattarsi bene allo sviluppo della persona, in particolare all’adolescenza, con le sue varianti di toccata e fuga del percorso verso una consapevolezza maggiore, e il rap, che certo non è una panacea, attraverso la sua diffusione, specie se vissuto dal vivo, realizzando una specie di yoga sociale, può favorire queste tappe di sviluppo.

Prima di essere adolescenti, i giovani sono bambini, ed è interessante notare come osservazioni su gruppi di bambini con diversi gradi di sviluppo psicofisico in merito all’ordine di precedenza tra poesia, melodia e ritmo, hanno rilevato che il gruppo di bambini con un normale sviluppo psicofisico mostrava preferenza per poesia, melodia e ritmo; il gruppo che aveva problemi neurologici mostrava preferenza per ritmo, melodia e poesia; il gruppo con problemi psicopatologici mostrava preferenza per melodia, poesia e ritmo.

Da tanto gli esperti e i critici musicali utilizzano linguaggi molto complessi, persino astrusi per i profani, per valutare e confrontare il più possibile opere, composizioni musicali, testi e musica. Come già detto, fin dai tempi dei Greci e dei Romani l’importanza del ben porgere la voce, l’oratoria, aveva grande considerazione. Come testimonia, pur molto dopo, la meteora del Farinelli, l’evirato cantore, che sazio e forse stanco dei suoi successi, intuendo che il genere musicale barocco fatto dii trilli e gorgheggi stava tramontando, dedicò la sua voce alla cura (antesignana della musicoterapia) di due sovrani di Spagna affetti da gravi problemi psicopatologici.

Con le strumentazioni attuali si sono fatte molte scoperte in campo fonologico, foniatrico, e sul suono in genere, che con l’utilizzo controllato delle vibrazioni ha trovato molte applicazioni, anche in campo medico nella diagnostica e nella terapia con gli ultrasuoni. In proposito sono venuto a conoscenza di un’interessante esperienza padovana, maturata nel corso di molti anni in un negozio-laboratorio di strumenti musicali, in cui Carmelo Gaudino si è occupato della ricerca di frequenze misurabili sul corpo umano per valutare come questo possa essere d’aiuto nella scelta di strumenti musicali per specifici musicisti, arrivando poi a sviluppare un concetto di “identità acustica delle persone”. Il tutto è partito dall’intuizione che la risonanza del cranio e del torace possiede per ogni persona una frequenza ben precisa, per arrivare a considerare come questo abbia importanza nella conformazione della voce e se, oltre a far cogliere affinità persona-strumento musicale, possa comportare simpatie acustiche fra le persone, le coppie e fra genitori e figli.

Il progetto, che mira a validazioni scientifiche, si propone ad esempio di verificare se si può parlare di persone accordate in maggiore o minore, e se si canti più facilmente nella propria tonalità, ma anche se le persone con tonalità diverse siano più soggette a incomprensioni e se anche le dinamiche interfamiliari risentano del fatto che riguardano soggetti con tonalità differenti.

Tornando al rap e all’adolescenza, ho voluto inserire queste note più che altro per approfittare del fatto che quando si parla di adolescenza nulla è scontato, e ciò che si afferma facilmente poi si “sconferma”. 

Ho cercato di andare oltre l’immagine superficiale e negativa che si dà ancora del rap, e di considerare come il suo apprezzamento giovanile sia legato al fatto che il rap, ereditando da altri generi precedenti e dalla musica rock ed heavy metal, cerchi vie di comunicazione e protesta più evolute, specie in questo momento buio dell’esistenza umana in cui i ragazzi sono subissati da insicurezza, imprevedibilità e pesantezza depressiva sul futuro e da esempi della difficoltà degli adulti a promuovere un mondo migliore più libero e vivibile.

Come ogni genere musicale anche questo ha diversi livelli di qualità, dal commerciale a quello più artistico.

Il rap anche a un’analisi musicale, non è un genere così facile, proprio per le diverse modalità, produttive espressive, che lo distinguono nel “conversare” attraverso il verbale e il non verbale. Osservando i concerti rap si vede come gli ascoltatori si muovono, non solo integrandosi con la base ritmica, ma con una specie di danza ondulatoria che sostiene coralmente i musicisti, in modo più vivo di quando assistiamo, in altri concerti, all’onda delle mani alzate. Bene o male riguarda anche il far rumore per risvegliare le coscienze dormienti e contrastare l’assuefazione all’indifferenza, anche se poi non si sottrae al mondo del business e da questo è spesso sfruttato.

In conclusione, mettendo sulla bilancia cose buone e meno buone, volendo cercare le parti sane senza negare quelle malate, si tratta di vedere in cosa il movimento rap possa essere di aiuto ai giovani, in particolare per quei passaggi evolutivi che, come detto, vanno dall’in-sonanza, alla per-sonanza e alla con-sonanza, ricordando come proprio nel turbinio conflittuale adolescenziale sia importante non disperdere la carica pulsionale energetica che lo pervade possibilmente indirizzandola in un sano cammino emancipativo.

Rock e rap continuano a coesistere, lo testimoniano i successi mondiali dei Maneskin, ma per i giovani, come impatto di massa, ascoltare e cantare il rap penso sia più integrante, e una palestra più formativa per distinguere i confini della libera espressione, per poter passare dall’evacuazione, dallo sbocco, della rabbia, della frustrazione, all’eros anti-ipocrisia, capace di contenere le emozioni e consentire l’esplorazione dell’inconscio con i suoi grovigli di corpo-pensieri.

Spetta anche agli adulti comprendere meglio queste dinamiche sane e dare una mano a liberarle, o almeno limitarle dagli aspetti parassitari e avidi da cui molti rapper stessi si sono fatti travolgere, mandando messaggi che inneggiano alla libertà, alla condanna del sistema mentre poi ne fanno parte ricalcandolo o trasmettendo ai giovani l’ode all’eccesso come una reazione rabbiosa e depressiva all’impotenza che non prevede possibilità di cambiamento.

Queste dinamiche dovrebbero trovare considerazione ed attenzione in tutti, specie nei professionisti che utilizzano la voce, ed  ancor più in quelli che si occupano di aiutare persone in difficoltà. La complessità delle correnti transferali e controtransferali presenti in ogni contatto relazionale, che passano  attraverso la voce ed i corpo-pensieri, a mio avviso dovrebbero interessare particolarmente gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti, nei percorsi di analisi didattica e di supervisione, includendo lo studio e la conoscenza del rapporto uomo-suono, della voce in particolare, per favorire confronti clinici più attenti a ciò che sfugge nell’accordatura e nei cori inascoltati dei due componenti della  coppia terapeutica e nei lavori di gruppo e consentire un maggior accesso all’inconscio.

Nota: il rap utilizza una strumentazione tipica Hip-Hop, cioè il dj usa due piatti e sequenze preregistrate a fa “scratching[7]” e si inseriscono su questo sfondo uno o più cantanti “toasters[8]”. Esistono gruppi italiani, salentini che cantano in dialetto con uno stile più simile al Reggae, Ragamuffin giamaicano che a quello rap nordamericano.

Note:

[1] N.W.A., “Fuck tha Police” (1988).

[2] Eminem, “Lose yourself” (2002).

[3] Eminem, “My name is” (1999).

[4] 50 Cent, “In da club” (2003).

[5] Lucio Battisti, “Il mio canto libero” (1972).

[6] Zucchero Sugar Fornaciari, “Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’azione cattolica” (1987).

[7] Manipolazione del suono usata dai disc-jockey per aggiungere alla musica un effetto ritmico di rumore.

[8] Il toasting (o toastin’ o toast o chatting) è uno stile vocale usato nella musica reggae che consiste nel parlare o cantare/cantilenare sopra un riddim o un beat, ovvero parti di brani musicali essenzialmente composte da percussioni. È composto dalla creazione di un flusso sonoro ininterrotto, all’interno del quale le parole sono abbreviate, storpiate o pronunciate molto rapidamente.

Bibliografia

Buffoli G. (1997). Anche nella psicoterapia le voci possono fare la differenza. In Sacerdoti G. e Racalbuto A. (a cura di), Differenza, indifferenza, differimento, Milano, Masson.

Buffoli G. (2001). Quadri e suoni di terapia infantile. Riv. di Psicoanal., 47, 667-676.

Maròthy J. (1987). Musica e uomo. Milano, Unicopli-Ricordi.

Morrocchesi A. (1832). Lezioni di declamazione e d’arte teatrale. Roma, Gremese editore, 1991.

Rosolato G. (1982). La haine de la musique. In Dufour C., Psychanalyse et Musique, Paris, Société d’édition “les belles lettres”, 1983.

Stefani G. (a cura di) (1996). Intense emozioni in musica. Bologna, Clueb.

 

Guido Buffoli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

buffoliguido@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Buffoli G., (2024) “Il tuo rap è come un rock”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.206-226

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Condividi questa pagina: