Percorsi dall’oggetto al soggetto nel tempo della cura.
Introduzione.

di Patrizia Paiola

(Padova) Membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana.

*Per citare questo articolo:

Paiola P., (2024). Percorsi dall’oggetto al soggetto nel tempo della cura. Introduzione, KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 7-20.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

In un vortice di polvere gli altri vedevano siccità,

a me ricordava la gonna di Jenny

in un ballo di tanti anni fa…

Fabrizio De André

 

Ecco una raffigurazione, a me cara, del tempo nel suo moto vorticoso e “pluridirezionale”.

Un tempo che (ri-)nasce dalla terra, come polvere, in un nuovo movimento intriso di un passato che si addensa in un vortice nebuloso di granelli “apparentemente morti” di memorie ancora giovani. Polvere che si alza, danza, si addensa e disperde, infine venendo a raffigurare la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa…. Come se davvero il tempo potesse prendere forma, spessore, senso solo nel/dal “luogo abitato dall’altro” che ci abita, e che per primo ci circoscrive e localizza, imprimendoci allo stesso tempo un movimento “aperto” di cui non ci è dato conoscere l’estensione.

Il tempo, anche quello della cura, può essere dunque raffigurato come questo “essere in ballo” indeterminato, seppure a termine. Termine che permane ignoto.

Cosa c’è infatti di più effimero, illusorio e insieme reale del tempo? Questo tempo da “sbaragliare” in quanto “finzione[1], dal momento che lo incarniamo nella nostra realtà, essendo esso il sogno in cui ci troviamo impregnati per l’intera esistenza…

Nella cura psicoanalitica, nel luogo da essa generato, accade che il tempo assuma significati inediti e diversi rispetto alla sua apparente linearità: numerose sono le incrinature, le fratture, le latenze, ed anche le “disorganizzazioni e riorganizzazioni” che lo caratterizzano. Il “transtemporale” con il riproporsi di un’altra scena di un “tempo altro”; il “contro-tempo” come “inciampo” che apre a direzioni diverse e sconosciute (Breccia); il tempo messo in “latenza”, a partire dal pròton psèudos isterico (Freud, 1895), quello della posteriorità (Freud, 1914) e dell’après-coup, con il “dopo” che “(ri)significa” il “prima”, e non solo. Infine, collegato a questo, il tempo del “breakdown” (D.W. Winnicott, 1963) che “allarga il concetto di après-coup” (Faimberg, 2009. P. Marion) e, potendo superare l’iniziale congelamento della situazione traumatica, apre alla possibile “costruzione” della verità storica. Ma soprattutto apre al senso rimasto in giacenza (A. Green 1980, 300), ritrovando all’interno della situazione “attuale” del transfert le tracce di un passato, non ancora significato perché non ancora costituito come tale, ma che teneva bloccati presente e futuro.

Si tratta, dunque, di un tempo che – proprio grazie a questa nuova situazione (analitica o di transfert) – ha la potenzialità di inaugurare “il tempo”. E questo grazie al suo potersi costituire come “tempo altro” (Pontalis), dove diversi tempi si giustappongono, invertono la freccia, si annullano, e si intrecciano ripartendo daccapo. Da qui, può iniziare a dipanarsi disincagliandosi dalle faglie che lo avevano inghiottito.

“Questo tempo che non passa, non è la negazione del tempo che passa. Ne è la realizzazione”, ricorda in modo geniale e poetico J.B. Pontalis (1997, 25).

Orbene, l’argomento in questione, ostico e affascinante insieme, era stato pensato e scelto da un gruppo di Colleghe[2] in epoca pre-Covid per organizzare l’VIII Colloquio di Psicoanalisi a Venezia, che si sarebbe dovuto svolgere in presenza nel 2020[3].

Ma, come sappiamo, la pandemia ha determinato una frattura del tempo: l’immobilità di un “tempo fermo”, quello del lockdown; il tempo apparentemente morto e interminabile del dolore, della malattia, dei lutti patiti; l’avvio del tempo a volte angoscioso, ma anche lenitivo dell’attesa, che diventa desiderio, di potersi prima o poi riavvicinare, rincontrare, in via di guarigione; la ripetizione del tempo delle riacutizzazioni, della ciclicità del morbo che pareva tornare “quasi” identico e sempre un po’ difforme…. Il tempo della speranza: “l’illusione possibile” di una guarigione tanto agognata. 

Infine, si è giunti al tempo di ritrovarsi, inizialmente “da remoto”, fisicamente ancora provati e lontani, come avvenne il 20 marzo 2021, in questa nuova dimensione che, sin da subito, non ci era apparsa la più congeniale al nostro metodo, ma che la necessità di “continuare a lavorare” contro la malattia e la morte ci imponeva.

Anche il formato appariva un po’ ridotto: un’unica giornata, ma piuttosto sostanziosa. Una giornata che ci ha nutrito e che ha rappresentato un ponte, un transito importante e necessario, consentendoci infine di ritornare al nostro tempo attuale. Questo tempo in cui, finalmente, la presenza dei corpi può tornare a definire “il luogo”, lo spazio-tempo dell’incontro.

Allora scegliemmo un’immagine enigmatica, che venne riproposta anche in seguito, quella della Tempesta del Giorgione. Non già – o non solo – per ritrovare il tema della nascita, dei primi transiti, della distruzione e delle rovine della civiltà, della resistenza e ricostruzione della stessa, ma anche, e soprattutto, per quello sfondo nebuloso, oscuro, insieme minaccioso e vorticoso (ancora il vortice!) del cielo temporalesco che avanza. E per la frattura improvvisa di quel fulmine, che squarcia il buio, portando in sé l’oscurità da cui è generato e che lo assorbirà di lì a poco. Frattura che è “colpo” (coup): rumore assordante, luce che acceca, facendo intuire un “prima” e un “dopo” che inaugureranno altri scenari, altri tempi. E tuttavia “al momento”, e nel momento pittorico descritto da questa immagine, la turbolenza, presente, appare come tenuta al di fuori del lenzuolo bianco – in netto contrasto con la cupezza del cielo – che avvolge questa scena profana di natività.

P.-C. Racamier afferma: “Tra paradiso perduto e la terra da scoprire, questo quadro rappresenta dunque il tempo di una pausa e lo spazio di un sogno” (1992, 417).

In esso, infatti, tutto appare in procinto di muoversi e di mutare, forse di precipitare (come da un paradiso che verrà di necessità perduto), ma allo stesso modo la scena principale è impregnata di una tranquillità sorprendente e, per contrasto, “ambigua”. Così ci appare, nel suo essere quasi rasserenante, quel tempo di una pausa che assomiglia al sogno, ma anche ad un calmo respiro, come ritmo affidabile, continuo, e perciò edificante. Ed è così che l’attesa di tempesta pare non turbare affatto il going on being: la continuità dell’essere di quel neonato avvolto e sorretto tra le braccia materne, protetto dallo sguardo paterno. Si viene in questo modo a delineare un “luogo privilegiato di scambi”: un nido. “Il nido – lo capiamo subito – è precario e tuttavia mette in moto in noi la rêverie della sicurezza.” Esso rappresenta “una lusinga alla fiducia”, dice G. Bachelard (1957, 127)

Possiamo forse pensare che all’origine del tempo analitico ci sia questa stessa fragile e potente lusinga alla fiducia?

Le fratture irrompono, il tempo si spezzerà e manderà forse in frantumi quel nido, oppure esso verrà naturalmente abbandonato con l’avanzare della stagione… Eppure, se lo avremo sognato abbastanza, e se le uova saranno state adeguatamente covate, la “schiusa” della vita – nel tempo – continuerà, così come continuerà il sogno di questo tempo.

Il tempo, dunque, appare “intimamente connesso alla generatività che risulta dalla creazione di legami… L’attacco al legame è un attacco al tempo”. Così dice Birksted-Breen, che suggerisce un collegamento ulteriore affermando: “…il più primitivo senso del tempo soggettivo, che ho proposto di chiamare il tempo di riverbero si sviluppa all’interno della prima relazione con l’oggetto materno e condivide le sue radici con lo sviluppo di un apparato per sognare i sogni” (2009, 153 e 173).

 

 

 “Per quanto riguarda il tempo, gli psicoanalisti

hanno sofferto di una limitazione che grava

sulla teoria: la concezione solipsistica del soggetto”

André Green (2000, 148).

 

Per questo motivo, nell’affrontare l’argomento del tempo analitico, il tempo della cura, è stato “organicamente” necessario introdurre quello dei “transiti dall’oggetto al soggetto”, dei percorsi che generano il movimento della soggettivazione a partire dall’altro (l’oggetto abitato dal suo inconscio, che è altro anche a sé stesso, come afferma Laplanche, o per dirla con Roussillon è un oggetto altro soggetto). Transiti che ritornano presenti nell’analisi. O addirittura in analisi “avvengono” per la prima volta.

Green, nella scia di Winnicott, afferma che l’oggetto, sottoposto ai rischi distruttivi della sua scoperta in quanto altro, è l’agente più potente della strutturazione del tempo, facendo riferimento alla successione delle sue apparizioni e sparizioni, come accade per esempio nel gioco del rocchetto. In questa situazione avviene infatti una sorta di “investimento periodico che inaugura la temporalità”. Dal periodo al ritmo, come ricorda A. Luchetti, si realizza una sorta di iniziazione al tempo dell’altro. Altro che ha saputo proteggerci ed insieme iniziarci alla temporalizzazione, in contatto con la fonte viva del tempo inconscio. 

A questo riguardo viene subito in mente come tale strutturazione non possa che scaturire a partire da questo tempo atemporale, inconscio, palpitante e vivo di cui ci ha parlato in primis Freud, poi ripreso da molti altri autori, tra i quali Pontalis, Laplanche, Green, Winnicott ecc.

Un tempo fuori da ogni tempo, consustanziale al sogno, in cui gli orologi diventano “molli”[4], in cui lasciare accadere il “fuori tempo” proprio dell’analisi a cui dà avvio la quinta stagione (Pontalis, 1997).

Si tratta della stagione dell’infans che “torna ad essere” per la “prima volta” nel tempo, trovando nell’oggetto, e nei “transiti” con esso, il suo luogo di inizio.

D’altro canto, perfino quando l’oggetto risulta “palesemente assente”, come nella “coazione a ripetere” (Green, 2011) o inchiodato ad essa e alle sofferenze che la determinano, occorre ammettere che tutto ciò che essa implica e che da essa deriva (anche nei termini più gravemente patologici) non sia altro che un’invocazione, un richiamo, finanche una convocazione perentoria dell’oggetto, là dove in precedenza esso ha fatto défaut (nei suoi fallimenti o mancanze), affinché sostenga nuovamente la prova.

Una prova di distruzione, certamente, ma anche e soprattutto una prova di sopravvivenza e d’amore (cfr. Winnicott, 1969). Viene in questo modo ri-cercata una nuova veicolazione verso il futuro, seppure all’apparenza nessun cambiamento, al momento, sia riconoscibile e l’orizzonte appaia ancora minaccioso. Sottotraccia un altro tempo si è messo al lavoro nella direzione opposta, quella che vuole recuperare ciò che appare perduto. Infatti, come ricorda M. Breccia nel suo contributo, questa “caparbia conservazione dell’oggetto”, unica condizione della sopravvivenza dell’Io nel trauma, dà ad essa una “doppia valenza… allo stesso tempo danno e condizione indispensabile alla salvezza dell’Io”.

Vediamo dunque come “essere” e “tempo” si coniughino in psicoanalisi in forme del tutto peculiari e paradossali, e con modalità fondamentalmente diverse rispetto alla filosofia e alla fenomenologia.

Voglio qui riferirmi innanzitutto a quel transito relazionale che per Winnicott si colloca inizialmente tra due esseri indistinti, e tuttavia – come afferma Alberto Semi – percepiti come individui distinti, di cui l’uno protegge l’altro dalla consapevolezza del tempo (cfr. concetto di holding in Winnicott e Ogden). Tale transito andrà a collocarsi in seguito tra l’“io sono” e l’“io sono solo”, inaugurando il passaggio da un individuo “grezzo, indifeso, vulnerabile, potenzialmente paranoide” (bisognoso/dipendente in modo assoluto del Nebenmensch) e l’apprezzamento della “continuità dell’esistenza della madre”, come ambiente attendibile, infine internalizzato, che consente anche di “godere il proprio essere solo, per un tempo limitato” (Winnicott, 1957, 31-35), grazie alla costruzione e scoperta della madre come oggetto (dalla dipendenza assoluta, alla dipendenza relativa, “verso” l’indipendenza (Winnicott, 1965)

Qui avviene una sorta di assimilazione temporale dell’altro nella sua continuità di base, che comprende il ritmo continuo/discontinuo e un adeguato e necessario differimento (del soddisfacimento) che garantiscono la vita, e perciò anche il divenire soggetto con un proprio tempo interno, incarnato

Questa dimensione paradossale del tempo, Winnicott suppone sia “matrice del transfert” e la base di quella relazionalità dell’Io (1957, 31) che avvia il tempo del sentirsi esistere, nelle sensazioni e negli affetti: allo stesso tempo “localizzati” ed “estesi”[5] in rapporto e grazie all’altro.

I lavori di Paul Denis e Alberto Semi, presentati in questa prima parte del KnotGarden, hanno il pregio di focalizzare e precisare i temi congiunti e interdipendenti dell’oggetto e del soggetto (o meglio dell’individuo, come ci dirà Semi, e dell’oggetto di “investimento transferale”, come dirà Denis), approfondendone il senso all’interno della teoria psicoanalitica da un punto di vista critico e aperto. Semi, parlando più precisamente della “soggettività” e del processo di soggettivazione, all’interno dello sviluppo e dei destini dei bisogni primari – tra i quali include il pensiero – nel bambino e nell’uomo.

Bisogni che convocano la presenza del soccorritore: quell’essere umano prossimo, di cui si è lungamente parlato, in grado di intenderlo, che è il Nebenmensch freudiano. “Il Nebenmensch deve avere pensato pensieri simili, per poter comprendere l’attività di pensiero del neonato urlante”, afferma l’autore. E continua: “l’intendersi tra due individui è una possibile condizione umana svincolata da considerazioni temporali” e finalizzata all’ottenimento del piacere. Una relazionalità di base scaturita dal bisogno, anzi, dai bisogni fondamentali che ci rendono dipendenti dall’altro, compreso il bisogno di pensare.

Questo suo contributo diventa dunque una premessa preziosa ed un apporto che fonda lo sviluppo del nostro tema, poiché in esso la problematicità dei termini utilizzati non viene disconosciuta, ma affrontata. In questo modo si rende assolutamente indispensabile a dipanare questioni che sono a fondamento di una teoria che non necessita di ridondanze (il rasoio di Occam), ma altresì fertilizzandola attraverso l’idea di una relazionalità (associativa) necessaria fin dall’inizio della vita. Situazione che si riproduce anche nella cura.

Sulla stessa lunghezza d’onda Paul Denis, all’interno del riconoscimento del ruolo dato all’oggetto nella costruzione soggettiva, e poi nello specifico all’oggetto transferale in analisi, va a riprendere i momenti particolarmente significativi delle “disorganizzazioni e crisi del soggetto” che possono costituire vere e proprie catastrofi (richiamandone il senso di trasformazioni discontinue dato da René Thom nella sua teoria), a partire da quella inaugurale che si verifica nella cura “causata dall’istallazione del setting”. “Criticità” o “catastrofe inaugurale” che si generano anche dal lato dell’analista, sin dal momento in cui “un nuovo paziente si istalla sul lettino”, chiedendo di essere ascoltato.

Significativa la sua focalizzazione sulle criticità analitiche sottolineandone l’aspetto quantitativo (e quindi economico) disorganizzante, riprendendo Analisi terminabile e interminabile (Freud, 1937), e andando a sviluppare due situazioni emblematiche: “l’agito di parola” (Donnet, 2016) e la “reazione terapeutica negativa”. Situazioni in cui sembrano potenzialmente avviarsi, proprio nell’attraversamento della criticità, diverse e nuove temporalità che, superando gli effetti disorganizzanti, possono preludere a nuove riorganizzazioni, come momenti e luoghi inaugurali di vita, e aperture verso un tempo nuovo.

Qui potremmo chiamare in causa anche altre teorie della fisica moderna: quella del caos o dell’aumento ineluttabile dell’entropia, che tuttavia individuano all’interno del percorso energetico-dissipativo, momenti antagonisti e riorganizzativi, che hanno consentito e consentono il crearsi della vita stessa, come circolo virtuoso, al loro stesso interno.

Questi due primi lavori, come già evidenziato, sono stati presentati dagli autori in un consesso, quello del 20 marzo del 2021, che, seppure con i limiti della virtualità, ha consentito un dibattito e l’apertura di una discussione approfondita e feconda. Essi sono qui riproposti nel “format di relazioni”, come avvenuto in quella giornata.

I tre lavori successivi, invece, seguono un format un po’ diverso, essendo stati proposti dagli autori proprio in occasione della pubblicazione di questo numero della rivista KnotGarden.

Marina Breccia ci propone alcune riflessioni che prendono spunto dall’Amleto di Shakespeare e dalla sua pregnante esclamazione che viene trasferita dal testo poetico alla situazione analitica: “the time is out of joint; O cursed spite! That ever I was born to set it right![6].  Si tratta dunque di un tempo “fuori sesto”, di un ordine della natura o del mondo andato “fuori dai suoi cardini” conseguentemente all’evento traumatico della tragedia amletica, ma anche della vita dei casi che trattiamo. Per cui è necessario chiedersi, così come l’autrice propone, “how to play a time out of joint?”. Come “giocare” o anche “rappresentare”, all’interno della cura e attraverso essa, un simile tempo per poterlo riassestare?

Forse riuscendo mantenere uno sguardo più lungimirante, come quello del piccolo Ernst (Freud, 1920) che, ricorda M. Breccia, esprime nella lungimiranza del “Fort”, lanciando il rocchetto, una capacità di previsione data da una visione bidirezionale, un modo per “assolvere” la contro-temporalità psichica della ripetizione traumatica, ed andare oltre ad essa. “Il lavoro psichico ha lo scopo di cercare strade per la simbolizzazione ed il pensiero, ripristinando la traccia per un percorso anche dove sembrano esserci voragini incolmabili. La rimozione è infatti in questi casi fallita ed il passato a volte va costruito prima che ricostruito in una sua risignificazione possibile…”. Da qui, la possibilità di possedere il trauma, come padroneggiamento autobiografico, dice l’autrice, per ricondurlo nel corso del lavoro analitico a un migliore governo, che sia più libero dalle ripetizioni. Percorso non facile, che talvolta passa attraverso momenti di impasse e la condivisione di una sorta di coprifuoco narcisistico che coinvolge l’analista. Coprifuoco collocato da M. Breccia sul versante della sopravvivenza.

Nel lavoro successivo, Paola Marion focalizza e approfondisce il concetto chiave di Nachträglichkeit nella complessità della teoria freudiana e della clinica psicoanalitica, riprendendo, tra gli altri, il lavoro di J. André (2009) in cui si parla del “sovvertimento” che tale concetto introduce nelle convenzionali rappresentazioni del tempo: la linearità ad esso attribuita (tra passato-presente-futuro), a cui è legato il concetto di causalità. Anche Marion, come Breccia, seguendo il percorso freudiano, collega il destino di tale sovvertimento alle vicissitudini del trauma. Ma, proprio nell’a posteriori, che tale concetto implica – sottolinea l’autrice – si sono giocati “motivi di contrasto e divergenze interpretative basate sulla presa in considerazione, o meno, di quel colpo” (esplicito nella traduzione francese di Nachträglichkeit con après-coup) che tutto scardina.

Interessante è la proposta di questo lavoro di collegare (con Phillips e Faimberg) tale concetto con La paura del crollo di D.W. Winnicott (1963), “lavoro che rappresenta una folgorante intuizione di questo movimento temporale”, afferma l’autrice, sebbene il termine Nachträglichkeit non sia stato nel testo winnicottiano esplicitamente mai menzionato. Sappiamo che dichiaratamente Winnicott non era avvezzo ai termini metapsicologici ed anche quanto avesse a cuore e sentisse profondamente la necessità di riformulare a modo proprio, secondo il suo linguaggio e la sua esperienza, ciò che andava scoprendo nel suo lavoro con i pazienti. In questo caso, sottolinea P. Marion riprendendo H. Faimberg, il concetto viene ampliato a quell’area traumatica vissuta dal paziente quando il suo Io non era ancora formato per poterlo sperimentare. Un tempo antecedente alla possibilità di rimuovere. Da qui il collegamento con il concetto teorico di “costruzione” (Freud, 1937) e la necessità che questa, in certi casi, preceda l’interpretazione.

Infine, Alberto Luchetti propone un testo ampio, sistematico e articolato tra diversi apporti disciplinari, principalmente improntato sul contributo di Jean Laplanche alla precisazione dell’apporto freudiano e psicoanalitico alla riflessione umana sul tempo. L’originale proposta di Laplanche è quella di fondare la temporalizzazione propria dell’essere umano sul “da tradurre”, scaturito dalla situazione antropologica fondamentale e sui conseguenti tentativi di traduzione, inesorabilmente rimuoventi, che fondano L’inconscio e l’Io.

L’aspetto centrale di questa riflessione sul tempo riguarda il fatto di legare la temporalità a un movimento di temporalizzazione, vale a dire, riprendendo Laplanche (1989, 402) “il modo che ha l’essere umano di creare, secernere – sit venia verbo – il proprio tempo”. Citando Luchetti: “È a livello della temporalizzazione, concepita come traduzione degli enigmi provenienti dall’altro e poi autoteorizzazione continua, che si colloca la rimozione, per l’appunto come fallimento della temporalizzazione e deposito di residui intradotti”.

Ma la parte forse più pregnante di questo contributo molto complesso deriva proprio nel seguire, come propone l’autore, le due strade imboccate da Laplanche nel mostrare come lo Junktim della teoria con la clinica, si fondi su due situazioni emblematiche che coinvolgono sempre “oggetto e soggetto nel tempo della cura”: l’interpretazione ed il lutto. Situazioni che, in questo contributo, sembrano essere rischiarate dalla teoria “traduttiva-detraduttiva” della temporalità umana qui presentata, collegata a sua volta a quella del “lavoro psichico” necessario, anche sul versante dell’analista.

 

 

[1] Borges ha saputo giocare in vari modi con le possibilità letterarie del tempo. In una delle sue poesie più famose Amorosa Anticipazione, ad esempio, la “finzione del Tempo” viene “sbaragliata” nell’incontro amoroso.

Tempo che egli paradossalmente “confuta” e, tuttavia, considera “reale”, come asserisce alla fine del suo saggio “Nuova confutazione del tempo”. Un titolo ironico, preciserà in un’intervista, perché la novità implica di per sé la realtà del tempo. Infatti, afferma: Il tempo è il fiume che mi trascina, però io sono il fiume; il tempo è la tigre che mi divora, però io sono la tigre; il tempo è il fuoco che mi consuma, però io sono il fuoco; il tempo disgraziatamente è reale… ed io disgraziatamente sono Borges”.

[2] Si tratta del gruppo di colleghe facenti parte, in quegli anni, dell’Esecutivo del Centro Veneto di Psicoanalisi: Andrea Braun, Cosima De Giorgi, Silvia Mondini, Caterina Olivotto, Carla Rigoni e la sottoscritta.

[3] Nel 2020 avevamo previsto, all’interno dello stesso Colloquio, una sessione di lavoro dedicata a “Traduzione e Transfert”, con la partecipazione dello scrittore Andrés Neuman. Questo incontro, anch’esso di necessità rinviato, è stato realizzato recentemente all’interno del programma delle “Letture Psicoanalitiche” del Centro Veneto di Psicoanalisi, grazie al contributo della Fondazione Jean Laplanche, il 14 settembre 2024.

[4] “Gli orologi molli” sono l’opera di Salvador Dalì la cui immagine è stata scelta per l’edizione italiana di Questo tempo che non passa di Pontalis (1997).

[5] “Localizzazione” e “estensione” fanno riferimento alla paradossalità della psiche umana già evidenziata da Freud.

La localizzazione richiama l’insieme della teoria “topica” freudiana, cui fa da controcanto l’“estensione” di una psiche aperta, che si proietta in uno spazio ignoto (1938).

Per Winnicott, la psiche deve abitare/trovare la sua localizzazione nel corpo (indwelling), attraverso il corpo dell’altro (holding, handling). Al contempo essa “è estesa”, come afferma Freud, e ne supera i confini. Una deriva, aperta all’alterità, la cui ampiezza ci è sconosciuta.

[6] “Il mondo è fuori squadra: che maledetta noia, essere nato per rimetterlo in sesto!” (Shakespeare, Amleto atto I, scena 5, 101).

Bibliografia

 

Bachelard G. (1957). La poetica dello spazio. Bari, Edizioni Dedalo, 1975.

Birksted-Breen D. (2019). Il lavoro della psicoanalisi. Milano-Udine, Mimesis.

Donnet J-L. (2016). L’agir de la parole. In Aa.Vv., Des psychoanalystes en séance. Glossaire clinique de psychoanalyse. Paris, Gallimard.

Faimberg H. (2009). Crainte de l’effondrement, construction et après-coup. Rev. Fran. de Psychanalyse. 73, 1713-1716.

Freud S. (1895). Progetto di una psicologia. O.S.F., 2. Torino, Boringhieri.

Freud S. (1914). Dalla storia di una nevrosi infantile. O.S.F., 7. Torino, Boringhieri.

Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. O.S.F., 7. Torino, Boringhieri.

Freud S. (1937). Costruzioni nell’analisi. O.S.F., 11. Torino, Boringhieri.

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Green A. (1980). Narcisismo di vita narcisismo di morte. Roma, Borla, 1985.

Green A. (2000). La diacronia in psicoanalisi. Borla, Roma, 2006.

Green A. (2011). Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico. Milano, Raffaello Cortina, 2011.

Pontalis J.B. (1997). Questo tempo che non passa. Roma, Borla, 1999.

Racamier P.-C. (1992). Il genio delle origini. Milano, Raffaello Cortina, 1993.

Shakespeare W. (1623). Amleto. Milano, Arnoldo Mondadori, 1977.

Winnicott D.W. (1963). La paura del crollo. In Esplorazioni Psicoanalitiche. Milano, Raffaello Cortina, 1995.

Winnicott D.W. (1957). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando Armando, 1970.

Winnicott D.W. (1965). L’integrazione dell’Io nello sviluppo del bambino. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando Armando, 1970.

Winnicott D.W. (1969). L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso le identificazioni. In Gioco e realtà. Roma, Armando Armando, 1974.

 

Patrizia Paiola, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

patrizia.paiola@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Paiola P., (2024). Percorsi dall’oggetto al soggetto nel tempo della cura. Introduzione, KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 7-20.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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