Oggetti transferali e riorganizzazione del soggetto

di Paul Denis

(Paris), Membre Titulaire della Société Psychanalytique de Paris (S.P.P.).

*Per citare questo articolo:

Denis P, (2024). Oggetti transferali e riorganizzazione del soggetto, KnotGarden 2024/3, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 35-53.

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Una delle difficoltà del tema della nostra conferenza è che mentre la nozione di oggetto è facilmente definibile sul piano metapsicologico – oggetto della pulsione, oggetto d’amore, oggetto di investimento – la nozione di soggetto è più vaga, più difficile da definire e ha assunto una dimensione centrale nel discorso psicoanalitico contemporaneo attraverso la nozione di intersoggettività.

Freud usa raramente il termine “soggetto”. È senza dubbio in Pulsioni e loro destini che l’uso che egli ne fa ci permette di capire meglio ciò che avrebbe potuto definire in modo più preciso. Pulsioni e loro destini è stato scritto dopo che la nozione di narcisismo era già stata introdotta da Freud e dopo che “l’Io”, che fino ad allora aveva designato la personalità psichica nel suo complesso, conosce i primi colpi di bisturi che porteranno alla sua “scomposizione”: è lì che Freud evoca l’Io -piacere e l’Io-realtà.

In Introduzione al narcisismo appare “l’Io ideale” che prefigura il Super-io. L’Io dunque non designa più un insieme, ma a una parte di quell’insieme a cui prima il termine si riferiva. È quindi necessario reintrodurre una nozione che designi un insieme che riunisca i fenomeni psichici di una persona; la nozione di self deriva da questa necessità, e ugualmente la nozione di “soggetto”.

In Pulsioni e loro destini Freud, che avverte questa necessità, evoca “L’Io totale”, “l’Io- soggetto” A proposito del rivolgimento del sadismo in masochismo scrive che “Viene nuovamente cercata una persona estranea, la quale deve assumere, in seguito al cambiamento determinatosi nella meta, il ruolo di soggetto”. Il “soggetto” non è quindi ridotto all’Io ma si riferisce a un insieme di componenti, una sorta di riunificazione che l’Io è chiamato a dirigere. Ma questo insieme “soggetto” si riferisce certamente all’Io stesso ma anche agli altri. È un “Io stesso” capace di prendere in considerazione sé stesso (l’idea di “soggetto” implica una dimensione di riflessività: “sé stesso come un altro” per usare parole di Paul Ricœur), ma anche di situarsi tramite il rapporto con gli altri: “sé stesso per un altro” secondo la mia formulazione. Da questo punto di vista, il luogo della “preoccupazione” di Winnicott e soprattutto il luogo della colpa occupano uno spazio importante. “Se l’oggetto è conosciuto nell’odio, il soggetto si rivela a sé stesso nella colpa: c’è un peccato originale del soggetto” (Denis, 1991, 189) L’avvento del super-Io è per noi correlato a quello del soggetto.

Ecco un esempio, Il bambino che ho picchiato di Leon Paul Fargue: “Il caro bambino. Lo vedo ancora con una fissità squisita e terribile, seduto su una panchina di pietra, pensante e piegato, nella sua piccola divisa da marinaretto col berretto e l’ancora dorata, tale quale era in quel giorno di angoscia in cui colpii il suo bel viso…”, scrive Leon Paul Fargue, che evoca in seguito il permanere in lui di questo ricordo, diventato immagine della sua colpa : “Le sere in cui partecipo ad una festa, vorrei scappare quando ci penso […] E mi succede di sognare di ritrovarlo ormai uomo, nero e stupido, brusco, indifferente e crudele, e che sia bello e forte e ricco, in un luogo di piacere, con una cravatta incredibile e che il mio povero vecchio rimorso non gli arrivi alla spalla…” (Denis, 1991, 188)

Tutto ciò che interferisce con il funzionamento del Super-Io – erede del complesso Edipico – tende a disorganizzare il “soggetto”. Nel peggiore dei casi, ciò può portare a una vera e propria “desoggettivazione” che può essere osservata in determinate circostanze. Qualsiasi relazione amorosa, ad esempio, smuove le istanze; non si dice forse, a proposito dell’amico molto investito di un adolescente: “è il suo dio”? Come dice Freud, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, il leader di una folla prende il posto dell’ideale dell’Io. La sottomissione al leader di una banda di adolescenti sospende il funzionamento del Super-Io di ogni membro del gruppo che assume delle condotte che il suo Super-Io non gli avrebbe permesso di fare. Puoi rubare o stuprare senza sensi di colpa perché il leader lo consente o lo ordina. Le sette sono delle agenzie di desoggettivazione. “Il desoggettivare, l’abolire la colpa, richiede l’attuazione di una vera politica di confusione che sconvolge le istanze e le sconfigge.” (Denis, 1991, 190)

La situazione analitica non è immune dal rischio di causare desoggettivazione in un paziente che è venuto proprio per riorganizzarsi. Tutto ciò che equivale a una forma di seduzione narcisistica da parte dell’analista ha un effetto desoggettivante, tutto ciò che suggerisce al paziente che l’analista non si proibisca nulla e obbedisca solo al proprio piacere, indebolisce il suo Super-Io e, quindi, indebolisce il “soggetto” in lui.

Sul versante dell’oggetto, la definizione è più facile da trovare: l’oggetto è definito dall’investimento ad esso collegato. René Diatkine ha detto: “L’oggetto è la metafora topica dell’investimento”, topica nel senso di topologica: l’oggetto è il luogo dell’investimento. Qualsiasi elemento può essere “oggettivato”: una persona o un elemento del funzionamento mentale o corporeo di sé stessi o di un’altra persona…

Evocare il “percorso dall’oggetto al soggetto” ci invita a riconsiderare il rapporto oggettuale ma tenendo conto del destino di ciò che in questa relazione proviene dall’oggetto e, nella cura, il ruolo dell’oggetto transferale, il suo destino e quello dei suoi vari avatar. E dunque il potere del controtransfert. Da parte dell’analista il paziente viene investito come oggetto in due modi: da un lato in modo relazionale, dato che la persona del paziente è un oggetto di investimento che organizza qualcosa nello psichismo dell’analista, e dall’altro, e questo è il più cruciale, il funzionamento psichico del paziente viene investito per sé stesso, investimento inibito nella meta, dando luogo ad una particolare modalità di sublimazione.

 

 

Disorganizzazioni e crisi del soggetto

Una rottura nella continuità del funzionamento psichico costituisce una sorta di “crisi”, nel senso di una rottura di equilibrio, che il soggetto è dapprima in grado di ripristinare attingendo alle sue risorse personali, fino a quando non avrà bisogno di un “altro” attraverso il quale si riorganizzerà. Per tutta la vita psichica, ci sono momenti di rottura dell’equilibrio più o meno marcati, crisi grandi o piccole che devono essere superate. Piccole crisi quotidiane sono superate col ricorso al gioco delle rappresentazioni e con la messa in opera delle risorse autoerotiche; le più gravi richiedono il ricorso a qualcuno nel ruolo di oggetto per essere recuperate. Ma le piccole rotture di continuità a malapena si avvertono proprio come non si nota più, durante la camminata, il piccolo squilibrio necessario per ogni passo, automaticamente riaggiustato.

Henri Atlan cita come caratteristica della regolazione degli organismi viventi l’esistenza di “crisi minori continuamente superate”. A livello psichico, nel corso della nostra vita attraversiamo quindi “crisi minori” che recuperiamo continuamente con maggiore o minore difficoltà. Se sono gravi queste crisi costituiscono “catastrofi” nel senso di René Thom – la parola, a livello etimologico, indica uno sconvolgimento profondo non necessariamente infelice –[1] che richiedono importanti sforzi e condizioni favorevoli per la loro riorganizzazione. È il caso, ad esempio, della perdita di uno dei genitori per un bambino in tenera età, è il caso dell’adolescenza, della prima gravidanza, di qualsiasi cambiamento importante imposto al funzionamento psichico da un evento interiore, psichico, o corporeo o socio-familiare.

Non tutte queste crisi che influenzano il funzionamento del soggetto possono essere considerate sul modello del lutto, che consiste in un graduale disinvestimento dell’oggetto perduto e nell’investimento della libido liberata su altri oggetti. Del resto, in questo modello di lutto, il ruolo delle altre persone e degli altri oggetti di investimento è molto importante. Si può anche dire che non si può elaborare da soli un’esperienza di lutto.

Nella cura, la questione dell’elaborazione non si limita al superamento dei conflitti attraverso l’interpretazione. Si tratta di dare forma all’eccitazione provocata dalla situazione analitica stessa. Il modello del para-eccitatorio, proposto da Freud, sostiene più un’idea di protezione che un’idea di utilizzo del sovraccarico di libido. Il modello della trasformazione da parte della madre degli elementi beta in elementi alfa per il suo bambino può in una certa misura essere trasposto all’analista, ma se è vero che esso descrive un risultato; tuttavia, non ci permette di immaginare il corrispondente lavoro psichico. Nel percorso dall’oggetto-analista al paziente-soggetto viene creato qualcosa che non esisteva prima. Ciò che è in noi durante questi momenti di sovraccarico di eccitazione in seduta, ciò che è nella mente del paziente, non è direttamente afferrabile. “È tutto in noi! Eppure, niente di tutto questo è percepito da noi in modo distinto. Tra la natura e noi, cosa dico? Tra noi e la nostra coscienza, s’interpone un velo, un velo spesso per l’uomo comune, un velo leggero quasi trasparente per l’artista e il poeta”, dice Bergson[2]. A questo punto dovremmo aggiungere “anche per lo psicoanalista”. Per Bergson, infatti, l’arte è ciò che permette di entrare in contatto con la natura, con il nostro mondo interiore: “Se potessimo entrare in comunicazione immediata con le cose e con noi stessi, credo che l’arte sarebbe inutile”. In molti interventi lo psicoanalista esprime con le sue parole alcuni frammenti di un’arte, creazione istantanea che dà al paziente un supporto per pensare ciò che prova.

La prima seduta con una paziente, il primo giorno della ripresa dopo le vacanze estive, è stata a dir poco insolita. La mia paziente era arrivata con un fazzoletto sull’orecchio perché sanguinava abbastanza abbondantemente dall’orecchio. Sdraiata, aveva iniziato dicendo che aveva un’otite perforata e quindi l’orecchio sanguinava; poi, dopo un breve silenzio, aveva messo il fazzoletto sull’orecchio e aveva detto, “Mi sento come se avessi le mestruazioni”, il che mi aveva fatto dire, “Dicono che i bambini si fanno attraverso l’orecchio.” La paziente associa a un aborto che il suo pediatra aveva eseguito su di lei, adolescente già grande, facendola soffrire molto. Il giorno dopo inizia la seduta come segue: “Uscendo dal suo studio sono andata in ospedale per una visita ORL; e il medico mi ha detto: “Si dovrebbero vietare i bastoncini di cotone …” [Era stata lei stessa a farsi sanguinare l’orecchio!].

La richiesta di analisi di questa donna, single, era stata da lei direttamente legata al progetto di adottare un bambino da sola. Non avevo in mente questo progetto in questa prima seduta, ma senza dubbio ne avevo il ricordo inconscio. Questa donna era venuta da me per sentirmi e avere grazie a questo un figlio, e ripete simbolicamente l’aborto di un tempo… Quello che avevo detto senza volerlo era caduto a proposito e le aveva permesso di parlare invece di rimanere fissata sulle conseguenze del suo atto. È stata una sorta di creazione da parte mia.

Indipendentemente dal valore di intermediazione tra il pensiero dell’analista e quello della paziente, la mia “battuta” – presa da Molière – ha il merito di far sentire alla paziente che il suo analista, sebbene sollecitato da qualcosa che avrebbe potuto avere per lui una portata traumatica, risponde sul piano psichico e in modo organizzato, e che non è vinto o sopraffatto dall’emozione. La paziente può quindi identificarsi con qualcuno che non si lascia disorganizzare dall’emozione. Questo aspetto fu descritto, molto prima della psicoanalisi, da Adam Smith nella sua Teoria dei sentimenti morali. Egli usa il termine “simpatia” -oggi noi diremmo “empatia”.

Adam Smith parte dall’osservazione che “… non abbiamo un’esperienza immediata di ciò che gli altri uomini provano” e che “possiamo formarci un’idea di quello che loro provano solo immaginando quello che noi stessi proveremmo nella stessa situazione”. […] “La nostra immaginazione riproduce solo le impressioni dei nostri sensi e non quelle degli altri. Attraverso l’immaginazione ci poniamo nella loro situazione, ci immaginiamo come persone che stanno sopportando gli stessi tormenti, entriamo, per così dire, nel loro corpo e diventiamo, in una certa misura, la stessa persona. E così ci formiamo un’idea delle loro sensazioni […] così tremiamo e rabbrividiamo al pensiero di ciò che un altro prova”. E ancora: “la simpatia non nasce tanto dalla vista della passione dell’altro quanto piuttosto dalla vista della situazione che la suscita”. In altre parole, l’emozione si trasmette solo attraverso la comunicazione di una rappresentazione che riportiamo a noi stessi. Ma Adam Smith sottolinea anche “il piacere della simpatia reciproca”, che fa parte del piacere dell’analisi sia per il paziente che per l’analista. Ma soprattutto descrive una sorta di meccanismo di regolazione delle emozioni attraverso quella che potremmo chiamare simpatia incrociata, più che reciproca, un meccanismo che vediamo al lavoro durante l’analisi: un individuo sofferente “può sperare di ottenere questa consolazione [quella apportata dall’unisono dei sentimenti] solo indebolendo la propria passione fino ad abbassarla a quel livello a partire dal quale gli spettatori diventano in grado di accompagnarlo. […] Proprio come gli spettatori si mettono continuamente nella sua situazione e, per questo, concepiscono emozioni simili alle sue, allo stesso modo questo individuo, mettendosi costantemente al posto degli spettatori, finisce per sperimentare un certo grado di distacco con cui sa che gli spettatori considerano quello che gli sta capitando […] la sua simpatia lo porta a guardare la propria situazione in una certa misura con gli occhi degli spettatori. […] La mente è quindi raramente così turbata al punto che la compagnia di un amico non possa restituirle in qualche modo la sua tranquillità e la sua calma”.

Questi meccanismi sono costantemente presenti durante l’analisi, anche se poco affrontati dalla teoria. Fanno parte di quei “percorsi” reciproci tra paziente e analista, in cui il soggetto dell’uno è l’oggetto dell’altro.

Ma se è chiaro il ruolo degli amici, delle nuove conoscenze, degli investimenti sociali o religiosi quando si affrontano crisi minori, nel caso di una grave perdita che colpisce il soggetto non basta la presenza di un altro, di una persona semplicemente benevola, ma si rende necessaria la presenza di uno psicoanalista, di un oggetto transferale, capace di identificarsi con la sofferenza psichica profonda che la persona prova. Questi momenti o questi periodi di crisi corrispondono ad una sorta di disunione delle forze, delle identificazioni, delle istanze il cui gioco sinergico — il riunire — garantisce il funzionamento del soggetto. Questa disunione è espressa in larga misura da un cambiamento nell’equilibrio economico, nella quantità delle cariche ripartite tra le diverse componenti del soggetto. La distribuzione tra investimenti narcisistici e investimenti oggettuali, in queste situazioni di disunione, è nel complesso ovviamente cambiata, ma è cambiata anche nel modo in cui gli investimenti all’interno di questi due registri sono raggruppati o liberati. Il disinvestimento di una certa istanza, di una certa funzione psichica, destabilizza l’insieme. Il punto di vista economico è essenziale in questo contesto.

 

 

Processo analitico e punto di vista economico

Il processo analitico è generalmente visto principalmente dal punto di vista dinamico e topico: rimaneggiamenti topici, (rimaneggiamento delle istanze, in particolare dell’Io), e cambiamenti dinamici legati all’interpretazione in cui l’accento viene posto sul significato più che sulla “forza” legata al punto di vista economico. Eppure, Freud insistette sulla dimensione economica della “malattia” e della cura, evocando “l’irresistibile potere del fattore quantitativo” (Freud, 1937, 241).

Penso che sia essenziale considerare il processo analitico dal punto di vista economico, sia nella sua economia generale che nell’economia dei vari scambi tra il soggetto-paziente e il suo oggetto-analista. Nel corso di un’analisi molteplici “crisi”, piccole o grandi, si susseguono, e anche alcune “catastrofi” felici o drammatiche. Il ruolo dell’analista, attraverso i vari mezzi a sua disposizione, è quello di consentire al paziente – o almeno di non ostacolarne- il superamento. Con questa particolarità che il paziente non deve necessariamente ritrovare la sua precedente modalità di equilibrio ma un equilibrio diverso, cercarne uno migliore, cioè meno restrittivo, più fertile, più creativo.

Nel percorso che va dall’oggetto-analista al soggetto-paziente il primo tempo è costituito dalla instaurazione della situazione analitica. L’analista imponendo il setting dell’analisi esercita una vera e propria OPA, certamente sulla psiche del paziente, ma anche su tutta una parte della vita del paziente: gran parte del suo tempo viene sottratto a quello che egli prima dedicava alla sua vita familiare, sociale e amorosa, al suo tempo libero, e una parte sostanziale delle sue risorse finanziarie è richiesta dall’analista. L’equilibrio generale della vita del paziente è influenzato dall’introduzione di una crisi inaugurale. È più una “catastrofe” nel senso di René Thom che una semplice crisi, la catastrofe iniziale causata dall’installazione del setting: la posizione sdraiata senza la percezione del volto dell’analista, la regola fondamentale “dire tutto ciò che viene in mente (e non “dire tutto” , cosa che avrebbe il carattere di interrogatorio) ma anche la durata fissa delle sedute e, ultimo ma non meno importante, la presenza attenta e benevola dell’analista: la presenza attenta e prolungata di un altro non è un’esperienza così frequente. Inoltre, la presenza fisica della persona dell’analista comporta una qualche forma di sollecitazione sessuale, e tutto questo ha un costo in denaro. L’economia delle sedute è quindi soggetta a condizioni completamente diverse da qualsiasi altra situazione di incontro. Se non si sta attenti, la messa in opera del setting può avere un puro e semplice effetto traumatico. A volte basta il semplice appuntamento per un’analisi. Ricordo un paziente che, tra il momento in cui chiamò al telefono e il suo primo appuntamento, aveva compiuto un passaggio all’atto omosessuale, azione senza precedenti per lui. Altri non ritornano al secondo colloquio, o accettano, dopo appena poche settimane di analisi, un trasferimento in un luogo geograficamente incompatibile con il progetto di cura.

La particolarità di questa situazione che rivoluziona l’equilibrio precedente è che il possibile rimedio viene proposto contemporaneamente al veleno, costituito da una nuova serie di possibili investimenti: la persona dell’analista, il suo studio, i suoi libri, il suo quartiere, la psicoanalisi in generale, ma soprattutto la parola dell’analista …

Dal lato dell’analista, la crisi, la dimensione della “catastrofe” inaugurale causata dall’installazione di un nuovo paziente sul suo divano è innegabile. Anche se ha molta esperienza, è esposto alle sollecitazioni e ai discorsi di una persona di cui non sa nulla, o quasi nulla, a parte quello che questa persona gli ha detto durante i colloqui preliminari, e non ci sono due pazienti simili, nessuna ricetta già pronta, tutto deve essere reinventato ogni volta. E in seguito può ascoltare confidenze che possono avere un valore traumatico e disorganizzare il movimento del suo contro-transfert, innescare una contro attitudine incompatibile con la necessaria benevolenza e neutralità: l’analista deve essere in grado di identificarsi con il suo paziente.

Una collega, scomparsa da tempo, era stata costretta ad affidare a un altro analista un paziente, un biologo in difficoltà che stava molto male: aveva ucciso uno dei propri figli, qualche settimana prima, inoculandogli una coltura microbica. Ma può anche trattarsi di qualcuno la cui intensa sofferenza emotiva ci tocca molto. Su un registro più leggero, un o una paziente molto o troppo attraente può portare, anche analisti esperti, a una potenziale esperienza disorganizzante, o a delle sfumature del controtransfert che possono rivelarsi critiche, “crisi” che devono essere superate.

Le semplici domande di aiuto e di affetto del paziente, le sue grida di aiuto, non prendono ovviamente la forma di quelle dei bambini nei confronti dei loro genitori; esse sono generalmente indirette, compaiono nei sogni, cioè formulate in modo simbolico, o attraverso le associazioni, o ancora espresse senza illusioni, a volte con umorismo, e per l’analista è facile collegarle (attraverso un’interpretazione tenera, cioè senza eccitazione, a volte basta la parola “giusta”) con le persone alle quali il paziente si rivolge per suo tramite. Il tatto dell’analista è l’equivalente, nella cura, della tenerezza materna. C’è un’economia ben temperata dell’interpretazione e degli interventi che porta all’uno e all’altro dei protagonisti della seduta analitica un piacere del funzionamento mentale e permette una ridistribuzione progressiva degli investimenti del paziente. Possono esserci momenti ideali di questo tipo, ma l’armonia nello svolgimento dell’analisi non è costante… Vorremmo evocare due situazioni: quello dell’”agito di parola” nel senso di Jean-Luc Donnet, e soprattutto quella della reazione terapeutica negativa.

 

L’agito di parola

L’agito di parola assume il valore di una richiesta di aiuto, di un appello, di un “grido” verbalizzato -insomma- che sollecita direttamente l’analista. Questi agiti di parola corrispondono a momenti di disorganizzazione – tempi di crisi momentanea ma abbastanza tipica – che hanno, a loro volta, un certo potere di disorganizzazione sull’analista il quale non necessariamente dispone di riferimenti storici sufficienti per un’interpretazione del transfert. Se egli “interpreta” ciò, non ristabilisce un funzionamento più associativo nel paziente, il quale invece continua a chiedere direttamente l’aiuto; se egli tace, il paziente insiste sulla stessa modalità e la sua “crisi”, la sua disorganizzazione, si accentua. L’analista, guidato da ciò che sperimenta a livello controtransferale, dirà al paziente parole in grado di fargli ritrovare il contatto con sé stesso, con il proprio psichismo – e con il suo analista -, invece di lasciarlo reclamare un aiuto che gli venga in qualche modo trasmesso, e non esiste che questo aiuto glielo si possa rifiutare anche se mancano i mezzi. L’analista è così costretto a sviluppare un contro-agito di parola che il paziente possa investire, che lo trovi giusto o meno, per sopperire al momento di disorganizzazione che sta attraversando. Controagito di parola offerto al paziente come oggetto di investimento momentaneo. Queste controagiti di parola dell’analista sono generalmente dell’ordine di ipotesi personali su ciò che può aver turbato il paziente, costruzioni, non tanto storiche, ma che si basano su elementi che possono aver avuto di recente un valore disorganizzante. “Quello che lei mi chiede mi fa pensare che l’ho avvertita della mia assenza per la prossima settimana solo due giorni fa”. Spesso è la sensazione di un momento di lontananza dell’analista, o di incomprensione che induce un agito di parola. Di fronte al “pianto” del paziente, di fronte al suo agire attraverso le parole, l’analista “contro-parla”, prendendo il discorso del paziente come diretto alla sua persona. Così facendo, si mostra e si rafforza l’aspetto relazionale del transfert, cioè l’investimento della persona dell’analista con il valore riorganizzante che questo investimento può comportare.

 

 

Reazione terapeutica negativa

La reazione terapeutica negativa può essere considerata come risultato di una rottura della continuità, una “crisi” che non si ricompone nonostante le interpretazioni dell’analista o le sue “contro-parole”. I fallimenti delle interpretazioni e degli interventi dell’analista testimoniano e fanno parte della “reazione terapeutica negativa”.

Denise Braunschweig e Michel Fain si sono espressi così: mentre il paziente ha fornito associazioni e l’analista ha fornito interpretazioni “…curiosamente, queste interpretazioni hanno un effetto paradossale: invece di dare luogo ad un arricchimento del discorso, a nuovi ricordi, ad associazioni, racconti di sogni, ecc., si direbbe che estinguano le reminiscenze e cancellino le tracce mnestiche del rimosso […] Siamo di fronte a un funzionamento mentale in via di disorganizzarsi, che gira a vuoto, ripetitivo, monotono”. La natura ripetitiva del discorso del paziente richiama la vicinanza della reazione terapeutica negativa agli stati traumatici, durante i quali l’eccesso collegato all’eccitazione dell’apparato psichico si mantiene fino a quando non venga aperta una nuova via per l’investimento, o che nuovi oggetti non siano stati investiti. L’estinzione delle reminiscenze, la cancellazione delle tracce mnestiche citate da Michel Fain e Denise Braunschweig, fanno parte degli stati traumatici massivi, ma anche di quelli più transitori durante i quali il soggetto dice di aver “dimenticato”. Stendhal – autore milanese francofono – lo aveva notato su sé stesso: “L’estremo disordine in me distrugge la memoria” (Stendhal, 1832-1836, 373).

La via di uscita da uno stato traumatico passa attraverso l’investimento di nuovi oggetti, persone ovviamente, ma anche oggetti psichici, fenomeni corporei. Ancora Stendhal scriveva: “Tra noi e il dolore dobbiamo mettere fatti nuovi, anche rompersi un braccio” (ibid., 168). Questo si può tradurre così: tra uno stato traumatico e noi è necessario mettere nuovi fatti, che si tratti di rompersi un braccio, o di ammalarsi. Da questo punto di vista si deve tener conto del valore economico dei transfert laterali nell’equilibrio della cura.

Consideriamo quindi che la reazione terapeutica negativa consista in un sovraccarico economico, un sovraccarico di eccitazione che il paziente non arriva ad elaborare nonostante gli interventi del suo analista. Questo eccesso di eccitazione, l’urlare, anche se contenuto dalla ripetizione, dalla monotonia, dallo sforzo per liberare la mente, può avere fonti diverse. Una fonte frequente, che gli analisti preferiscono non ammettere, è la conseguenza del loro modo di fare, del loro modo di stare con questo paziente: l’eccesso di silenzio (che provoca nel paziente una eccitazione per difetto, per mancanza di sostegno all’elaborazione dei suoi conflitti), gli errori tecnici o controtransferali come la ripetuta cancellazione di sedute, i ritardi, interpretazioni selvagge “buttate lì”, che suggeriscono al paziente non solo di non essere stato compreso ma di essere stato addirittura abbandonato.

Può essere un evento negativo della vita che colpisce il paziente: una morte inaspettata, un licenziamento, una brutale e “imprevedibile”, rottura sentimentale, ecc.

In terzo luogo, può essere la conseguenza di un cambiamento nell’economia della cura stessa condotta fino a quel momento senza errori evidenti o discontinuità. È allora la revoca di una rimozione fino a quel momento quasi a tenuta stagna che porta alla luce un fantasmatico molto eccitante che il suo essere indirizzato all’analista rende difficile da sopportare e che l’elaborazione interpretativa non riesce a temperare o a mettere in forma.

Ciò che accomuna tutte le diverse forme di reazione terapeutica negativa è il fatto che esse inducono il paziente a lasciare l’analisi; questo è anche, in pratica, ciò che la definisce, in quanto espressione di sentimenti ostili da parte del paziente nei confronti del suo analista, sentimenti che spesso esprimono una forma di attaccamento paradossale.

La fuga del paziente è ciò che accade se non si arriva a contrastare lo stato traumatico sotteso alla reazione terapeutica negativa. L’espressione di una certa aggressività da parte del paziente non costituisce necessariamente una reazione negativa, può anche avere un temporaneo valore riorganizzante attraverso l’investimento di oggetto che rappresenta. Al contrario, un investimento troppo caldo e passionale da parte del paziente può avere un effetto disorganizzante sul processo psicoanalitico e costituire una reazione terapeutica negativa.

Denise Braunschweig pensava addirittura che un eccesso di benevolenza da parte dell’analista potesse essere all’origine di una reazione terapeutica negativa: “…a partire dall’osservazione di Freud del 1937 sull’impossibilità per uno psicoanalista di essere volontariamente aggressivo con un paziente, abbiamo cercato di imputare alcune difficoltà tecniche, apparentate con la reazione terapeutica negativa, a un eccesso di benevolenza nella neutralità dello psicoanalista;” questo eccesso di benevolenza “avrebbe l’effetto di un troppo di presenza “. (Braunschweig & Fain, 2010, 156) Diremmo di un sovraccarico di eccitazione legato alla presenza fisica dell’analista, dato che la “troppa” benevolenza viene sentita come una seduttiva rottura della neutralità.

 

Attualizzazione traumatica e contro-parola

Naturalmente l’analista è soggetto al fatto che il paziente il più delle volte, invece di ricordare, agisce riproducendo configurazioni relazionali del passato che ora rivolge all’analista. Tra queste situazioni, alcune sono state traumatiche e la loro riviviscenza transferale attualizza questo traumatismo. L’analista non è più di fronte a un conflitto i cui elementi sia possibile interpretare permettendo al paziente di riconfigurarlo. Non possiamo infatti “analizzare” un traumatismo se non in après-coup, dopo che il funzionamento psichico abbia ritrovato una certa organizzazione. Che sia attuale o che sia il risultato di una riattualizzazione, lo stato traumatico – l’eccitazione caotica che lo caratterizza – non consente l’interpretazione. “Negli stati di crisi acuta, l’analisi non è per così dire utilizzabile”, scrive Freud (Freud, 1937, 247), l’analisi, ovvero l’interpretazione.

Paulette Letarte esprime con forza questa inadeguatezza dell’interpretazione che il paziente non può utilizzare quando c’è un eccesso a livello economico: “Se sono immersa nell’acqua bollente e mi dici che questo rappresenta il fuoco delle mie passioni, potrebbe essere un’interpretazione assolutamente giusta, ma sarebbe inopportuna! In ogni caso, dovrei essere tornata a una temperatura pressappoco normale per poter pensare” (Letarte, 2018, 173).

La reazione terapeutica negativa spinge il paziente a fuggire dall’analisi proprio per la violenza che contiene: egli agisce la fuga proteggendo nello stesso tempo l’analista dalla violenza diretta. Tuttavia, l’eccitazione traumatica suscitata durante una seduta di analisi può tendere ad essere espressa attraverso il grido di un passaggio all’atto, una sorta di urlo silenzioso. Succede che l’analista lo senta arrivare e possa intervenire per evitarlo.

Michel de M’Uzan ha generosamente raccontato quello che gli era successo un giorno. Una paziente, soggetta a momenti psicotici, veniva a orari prestabiliti e parlava di un programma radiofonico che ascoltava fedelmente, in diretta: Gregorio et Amedeo. Era persuasa che de M’Uzan fosse uno dei due personaggi dello spettacolo. Un cambiamento la fa venire alla sua seduta in un orario diverso. Arriva armata di un transistor e di una pistola che tira fuori dalla borsa. Accende la radio e sentiamo …Gregorio e Amedeo. Dunque, il suo analista non è uno di loro… “Alla fine del programma, lei avrà smesso di vivere…” annuncia, e ascolta Gregorio e Amedeo tenendo in una mano il transistor e nell’altra la pistola… Il tempo passa, poi interviene Michel de M’Uzan: “Ascoltando il suo programma invece di fare la sua seduta, lei ha perso il suo denaro”. La paziente annuisce e mette via il suo arsenale. Si può dire di un simile intervento che sia nell’ordine di un’interpretazione? No. Questo intervento ha riportato l’investimento della paziente sulla realtà della seduta, sulla presenza della realtà del suo analista. Possiamo immaginare che l’analista abbia avuto modo di conoscere l’importanza della questione monetaria per la sua paziente e che la menzione del denaro che rischiava di essere sprecato abbia suscitato un investimento dal valore organizzante.

Troviamo in Paulette Letarte un esempio particolarmente eloquente di contro-parola. Una paziente che lei prende in terapia dopo che questa aveva aggredito fisicamente diversi analisti, arriva esasperata in seduta, in una sorta di atmosfera di passaggio all’atto: “Capisco che nei momenti di esasperazione lei abbia voglia di passare all’azione. Supponiamo che lei prenda i cuscini che sono dietro di lei e che li getti in mezzo alla stanza”. La paziente ascolta interessata; nasconde a malapena un sorriso malizioso. L’analista continua: “Sicuramente non intercetterei i cuscini! Abbiamo superato l’età delle battaglie con i cuscini. Ma cosa succederebbe allora? Non lo so. Solo una cosa è certa, è che smetterei di pensare a lei e penserei ai miei cuscini …E lei non mi paga per questo!” (Letarte, 2018, 174-175) La paziente ha potuto dire poi di essere riuscita a evitare di essere inghiottita in questo passaggio all’atto, ricordando la madre proibitrice che doveva mandare via. Anche in questo caso non si tratta di interpretazione ma di una ripresa, attraverso le parole, di uno stato interiore del paziente. Anche qui la realtà della reciproca situazione, analista e paziente, viene reinstaurata: “lei non mi paga per questo”.

 

 

 L’irresistibile forza della quantità

In tutta la prima parte di “Analisi terminabile e interminabile” Freud mostra chiaramente come le crisi in analisi, le resistenze e la reazione terapeutica negativa, dipendano dalla dimensione quantitativa, dalla forza delle pulsioni, dalla quantità. E come un paziente, nella sua resistenza, è restio ad abbandonare un sistema di investimenti che rischierebbe di farlo ricadere nella disorganizzazione. Il punto di vista economico è sufficiente. Non è necessario coinvolgere la pulsione di morte, come invece fa Freud. Allo stesso modo, l’idea di una “roccia biologica” su cui inciamperebbe l’analisi non è necessaria per spiegare il rifiuto della passività. La passività temuta è quella del valore traumatico dell’eccitazione libidica quando essa perde i suoi legami con un sistema di rappresentazioni rimosse e represse, quando questa passività non riesce a reinvestirsi e condurre ad un’esperienza di soddisfacimento. Questo eccesso quantitativo può portare alla sconfitta del soggetto, alla sua disorganizzazione, lasciando il paziente solo, confuso, incapace di orientarsi. Ma questa angoscia depersonalizzante può trovare soluzione in una sorta di suicidio morale, in cui il soggetto si immola a sé stesso e si affida completamente a un altro: guru, capobanda, partner sessuale o… psicoanalista. Alcune forme di transfert passionale nascono da una sorta di alienazione di questo tipo, molto difficile da trattare per l’analista che ne è l’oggetto, ma che, almeno teoricamente, egli può risolvere se ne coglie il valore ricostruttivo.

 

(Traduzione a cura di Lucia Fattori e Cosima De Giorgi)

 

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[1] Le cristal et la fumée, 1979, 148.

[2] Bergson H. Enregistrement, 3 jui 1936, « Quel est l’objet de l’art ? ».

 

Bibliografia

 

Braunschweig D. e Fain M. (1974/2010). Le démon du bien ou les infortunes de la vertu. Rev. Fr. Psychosom. 37, 2010.

Denis P. (1991/2013). Sujet, surmoi, culpabilité et utopie. In De l’exaltation. «Le fil rouge», Paris, P.U.F., 187-190.

Freud S. (1937/1983). Analyse avec fin et analyse sans fin. Résultats idées problèmes. Trad. di J. Altounian, A. Bourguignon, P. Cotet, A. Rauzy, Paris, P.U.F., 231-268.

Letarte P. (2018). De quelques passages à l’acte. In Entendre la folie. Paris, P.U.F., 159-175.

Smith A. (1759-1999). Théorie des sentiments moraux. Trad. di M. Biziou, C. Gautier, J.-F. Pradeau. Paris, P.U.F.

Stendhal (1832-1836/1956). Vie de Henri Brulard. In Œuvres intimes. Paris, Gallimard. Bibliothèque de la Pléiade, 37-452.

Paul Denis, Paris

Société Psychanalytique de Paris

paul.denis54@orange.fr

*Per citare questo articolo:

Denis P, (2024). Oggetti transferali e riorganizzazione del soggetto, KnotGarden 2024/3, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 35-53.

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