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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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*Per citare questo articolo:

Biondo D., Cordioli A., (2024), “I’m going through changes. L’Adolescente, il mostro e la musica”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.320-335

Intervista a Daniele Biondo

 Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Psicoanalitico di Roma

“I'm going through changes”

L’Adolescente, il mostro e la musica

di Anna Cordioli

(Padova) Psicoanalista Associata delle Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Sto attraversando dei cambiamenti”.

(Black Sabbath, 1972)

Nel 2017 una serie animata per la TV, Big Mouth, portava sul piccolo schermo le faticose traversie della pubertà: sette ragazzini di prima media attraverseranno le varie fasi dei cambiamenti del corpo e dell’arrivo di pulsioni sessuali inaspettate.

La sigla di Big Mouth è un piccolo capolavoro di sintesi delle trasformazioni puberali[1]. In trenta secondi vediamo arti che si fanno pelosi, parti del corpo che cambiano forma e ghiandole che sembrano avere una vita autonoma. La canzone che accompagna l’intro è “Changes” dei Black Sabbath[2], reinterpretata in versione funky soul dall’intensa voce di Charles Bradley[3].

Le parole della canzone dicono “sto attraversando dei cambiamenti nella mia vita” ma la voce che canta sottolinea lo sforzo poderoso di questo processo.

Nel finale della sigla, mentre due dei bambini stanno pacificamente sdraiati sull’erba, arriva su di loro un’ombra mostruosa che li ricopre e li spaventa. È l’adolescenza.

Il plot della serie gira, infatti, attorno ad un espediente narrativo molto efficace: con l’arrivo della pubertà ad ogni bambino viene affidato un mostro che lo accompagna e ne induce le trasformazioni fisiche e psicologiche.

È ricordando questa interessante rappresentazione che ho pensato di proporre a Daniele Biondo, autore di “Gruppo evolutivo e branco: Strumenti e tecniche per la prevenzione e la cura dei nuovi disagi degli adolescenti” (2020), di parlare assieme del tema del “L’adolescente, il mostro e la musica”.

Ne è uscita un’intervista molto personale e molto clinica.

 

A.C: Cosa c’entra il mostro con l’adolescente?

 

D.B.: C’entra molto. Fai bene ad associarle perché in generale ogni adolescente deve fare i conti con l’aspetto mostruoso del sé e quando c’è stata qualche difficoltà nello sviluppo questo confronto può produrre angosce così grandi da far scompensare l’adolescente.

Ogni adolescente, con l’evento pubertario, perde il corpo infantile e deve fare i conti con il nuovo corpo sessuato e con la perdita della vecchia identità. Tutto ciò può farlo sentire un mostro, cioè un essere che vive in corpo inquietante e sconosciuto che lo mette profondamente a disagio, poiché ha spiazzato completamente l’assetto precedente, quello infantile, causando in lui una rottura radicale con il passato.

In termini metapsicologici si tratta di fare i conti con l’identità e con la dimensione pluralistica del sé; per l’adolescente si tratta di unire i puntini del vecchio sé infantile con quello nuovo adolescenziale per conquistare un’immagine unitaria del sé con la quale riconoscersi. Non sempre è facile realizzare questa operazione integrativa, soprattutto quando l’adolescente non si sente sufficientemente supportato dagli adulti di riferimento. In quest’ultimo caso, quando si fallisce tale compito, può accadere che l’adolescente cada nell’odio per il proprio corpo, per gli altri o per il mondo, nella vergogna che produce il ritiro massiccio, nell’autosufficienza e nel rifiuto della relazione con gli adulti frutti della frattura interiore del legame con loro.

Questi appena elencati, sono proprio gli elementi che costruiscono l’immagine mostruosa dell’adolescente.

La mitologia è piena di immagini mostruose frutto della contaminazione fra le specie viventi: il minotauro, il basilisco, l’unicorno, la sirena ecc. Ciò a dimostrazione che la dimensione mostruosa appartiene alla naturale dimensione del vivente. Ciononostante, il mostruoso provoca in ognuno di noi notevole angoscia perché come affermava il mio maestro, Arnaldo Novelletto, mette in crisi l’immagine della nostra specie idealizzata dalla scienza o dall’arte. Mai come in adolescenza si attualizza tale crisi inerente alla perdita dell’identità di specie, sempre per dirla con le parole di Novelletto (1983). Crisi che modifica un’alta dose di angoscia che naturalmente l’adolescente affronta accettando, anzi a volte esasperando, la metamorfosi del proprio corpo e del proprio sé. Questa è una metamorfosi che, se sostenuta ed accompagnata da oggetti “terzi”, oggetti culturali, permette all’adolescente di realizzare il difficile transito dall’infanzia all’età adulta.

 

A.C.: La rappresentabilità di questo vissuto di mostruosità può aiutare? che forme prende?

 

D.B.: Il funzionamento del pensiero dell’adolescente, soprattutto del primo adolescente è poco simbolico, il pensiero ipotetico-deduttivo non ancora del tutto conquistato, il processo di corticalizzazione, ed in particolare di sviluppo della corteccia prefrontale ancora molto immaturo e di conseguenza l’attività rappresentativa è molto povera.

Il primo adolescente è immerso in un universo sensoriale dominato dall’aumento quantitativo della pressione istintuale. Come dice Blos (1962) ciò porta da un lato ad un aumento indiscriminato di tutte le modalità di gratificazione libidiche e aggressive di cui il bambino si era servito nei primi anni di vita, e dall’altro lato porta ad un aumento di motilità, agitazione, avidità orale, attività sadiche, gusto per le parolacce, trascuratezza della pulizia, giochi esibizionistici.

Insomma, è troppo preso dal fare i conti concretamente con la gestione del corpo mostruoso per poter dedicarsi ai processi secondari, superiori, della rappresentazione.

In questa fase evolutiva della prima adolescenza è molto importante per l’analista di adolescenti riuscire a stare con questi stati sensoriali della mente, tollerando a volte un “corpo a corpo” fatto di odori, di gioco motorio nella stanza, di posture e più in generale di contenuti somatici e concreti con i quali si manifesta il nuovo sé adolescenziale.

Un ragazzo di 12 anni, con seri aspetti antisociali, una precocizzazione esasperata frutto di un solido falso sé e una forte resistenza nei confronti del trattamento, mi invitava in seduta a giocare a palletta nella stanza, cercando a volte lo scontro fisico nel contrasto e realizzando così un’interazione intensa e per lui autentica, che lo attraeva e nello stesso tempo lo spaventava. Constatare l’accettazione da parte mia della relazione con lui a questo livello così primario e spontaneo lo aiutò non solo a superare l’ambivalenza nei confronti del trattamento, ma anche a contattare una parte autentica di sé che, più tardi, riuscirà ad esprimere componendo non solo testi rap molto intensi, ma anche la musica delle sue canzoni, realizzata attraverso la composizione di basi di musica elettronica ed effetti sonori sintetizzati o modificando alcuni loop

 

A.C. In musica troviamo una certa presenza di canzoni che danno una rappresentabilità a questo vissuto. So che sei un amante della musica, c’è stato qualche autore che ti ha aiutato a cogliere la fatica dell’adolescente di fronte alla trasformazione?

 

D.B. La musica con il suo correlato universo fisico e sensoriale permette all’adolescente di immergersi in un mondo auto-contenente, che gli offre diverse possibilità evolutive: di immergersi in una nuova relazione fusionale con un oggetto ideale, di tipo sensoriale, che gli permette di emergere dalla fusione infantile con la madre preedipica; di condividere con l’altro e con il gruppo il proprio mondo interno “mostruoso”, di sperimentare la creatività nella ricerca del nuovo sé in formazione.

È, infatti, proprio grazie alla piena immersione in un nuovo mondo sensoriale (alternativo a quello condiviso con gli oggetti originari di tipo familiare) caratterizzato dall’eccentricità, dall’originalità e spesso dalla trasgressione o comunque dalla rottura con il mondo infantile, ed è anche grazie alla condivisione con i nuovi oggetti d’amore (l’amico del cuore, il gruppo dei pari, il partner) che il mondo sensoriale dell’adolescente smette di essere mostruoso per comunicare a se stesso e agli altri la metamorfosi in corso, capace di avviare il processo di soggettivazione, cioè di creazione e appropriazione del nuovo sé.

È un cambiamento che può essere rappresentabile ma non attraverso contenuti simbolici evoluti, ma in forme più immediate e arcaiche e cioè ad esempio attraverso il gesto, il segno sul corpo (tatuaggio, piercing), l’immagine esteriore di sé condivisa con i pari (conformismo, scelta di appartenenza ad una tribù ecc.), il movimento e la danza.

Sono tutte forme di figurazione del nuovo sé spesso sostenute dalla scelta di un proprio genere musicale.

A tal proposito mi viene in mente la musica che ha accompagnato la mia adolescenza, quella dei cantautori ed in particolare quella di Fabrizio De André. Il timbro profondo della voce e la musica intensa e ricercata di questo artista ti avvolge come una calda coperta nelle serate d’inverno e ti riscalda dentro come una cioccolata calda dopo una lunga sciata, per la sua capacità di far corrispondere in ogni sua canzone il testo al ritmo, gli strumenti alle parole. Tutto ciò, accompagnato alla potenza dei versi di questo grande poeta, rappresentava per me un modo per sublimare, idealizzare, razionalizzare tutto il turbinio che veniva dal corpo. Nel primo album del cantautore che acquistai, intitolato “Fabrizio De André. Canzoni” (1974)[4], l’incontro con il corpo eccitante di bocca di rosa contrapposto a quello sornione e pacato del pescatore a quello tracotante e deriso del giudice fino a quello tenero e nostalgico delle passanti ebbe su di un impatto folgorante e benefico, perché mi permise di dare forma a tutto quello che il mio corpo mi faceva sentire, ma che non ero in grado di rappresentare.  

Lo stesso effetto benefico, per altri motivi, me lo procurava, sempre da adolescente, la musica dei Pink Floyd. Il loro blues concreto mi faceva immergere in un mondo di suggestioni e di ispirazioni travolgente ed intenso, anche quando non comprendevo il significato dei loro testi. Ciò che dentro di me univa la musica di De André a quella dei Pink Floyd era che li sentivo con il corpo, ancor prima che con la mente, poiché erano in grado di immergermi in un universo sonoro capace di riempirmi di sensazioni piacevoli e capaci di svuotarmi la mente da tutte le angosce evolutive con cui dovevo fare i conti. Un’oasi di pace nella bufera adolescenziale.

Non a caso già da allora praticavo l’apnea che in seguito esiterà nella pratica delle immersioni con le bombole che ancora oggi mi appassiona. Sott’acqua il silenzio totale accompagnato solo dal suono del tuo respiro amplificato dall’erogatore ti permette di concentrarti totalmente sui paesaggi marini dimenticando tutto il resto. Un paesaggio marino che non può che evocare i propri paesaggi interni sensoriali propriocettivi e che ti abitua ad osservarli con il giusto distacco e la necessaria concentrazione. Ero già all’epoca alla ricerca dell’anima, cercavo già da allora di liberarmi dalla prigione del corpo, corpo mostruoso anche per me, liberarmi dalla sua tirannia iper-concreta.

Quel tipo di musica mi permetteva di elevarmi, di trovare un luogo dove trovare pace. Non avevo in mente allora la psicoanalisi, ma quando da giovane la incontrai nel mio percorso ritrovai in essa quel posto dove mettere da parte tutto il mondo esterno per immergermi in quello interiore.

Negli ultimi decenni insieme alla psicoanalisi si è aggiunta la meditazione. Ed anche in essa il rapporto con la musica è stretto. Penso ad esempio alla musica spirituale di Franco Battiato che rimanda alla musica rilassante per meditare (come quella tibetana o indiana), che evoca i suoni della natura (cinguettio degli uccelli, suono della risacca marina, fruscio degli alberi ecc.) o quella associata alle danze del mistico Gurdjieff. Anche questo tipo di musica, per quanto possa sembrare esoterica, ha avuto per me lo stesso significato e ruolo che aveva la musica dell’adolescenza: la capacità d’immergermi in universi sensoriali evocativi, immaginifici, che mi permettevano di sfuggire al mio pericoloso iper-razionalismo, per aiutarmi a scoprire il valore dello “stare”, del “silenzio”, del “sentire” insomma tutto ciò che favorisce il contatto con la dimensione inconscia dell’esistenza.

 

A.C.: Nella tua pratica ti è capitato di usare la musica, in seduta, con un adolescente che si sentiva “mostro”?

 

D.B.: Ho in mente un paio di casi di adolescenti, entrambi molto gravi, caratterizzati dalla condizione infamante del mostruoso e della conseguente vergogna a causa del breakdown evolutivo in cui entrambi erano incappati, per i quali la musica è stata determinante nel favorire il processo analitico. In particolare, proprio grazie alla musica, entrambi riuscirono ad avvicinare la speranza di trasformare le proprie parti mostruose in qualcosa di più utilizzabile per il loro sviluppo psichico.

Il primo è il caso di Emilio. Cominciò l’analisi a 18 anni, un ragazzo che sembrava vecchio per quanto era magro ed emaciato, deformato dalla sofferenza interna. Da due settimane non riusciva più̀ ad andare a scuola (era di maturità̀) a causa di una serie di idee fisse, che si presentavano con una voce interna ordinante di uccidere la madre. Esse, raccontò, monopolizzavano completamente la sua mente, torturandolo incessantemente (capirò̀ solo dopo, molti mesi dopo, che l’incessantemente era letterale) impedendogli di fare qualsiasi cosa, persino di dormire. Trovava un po’ di pace solo quando si ubriacava – e lo doveva fare in maniera eccessiva, fino a svenire – o quando faceva uso di sostanze stupefacenti. Raccontò che frequentava assiduamente un gruppo antisociale, fortemente deviante e a volte anche violento.  Rivelò che molto spesso pensava di uccidersi proprio perché si sentiva un mostro a causa delle sue forti problematiche somatiche (anoressia, insonnia, ansie ipocondriache) che producevano una florida sintomatologia ossessivo-compulsiva. Tali vissuti corporei mostruosi erano motivati da un problema fisico al pene (curvatura), conseguente ad un’ipospadia infantile.  A tre anni era stato operato, ma era residuata una piccola malformazione a causa di un errore del chirurgo. Il decorso post-operatorio fu complicato dal fatto che gli era stato messo male un catetere nell’uretra, provocandogli un dolore fortissimo. Ricordò tre giorni di sofferenza inaudita, ma anche la sua rabbia successiva quando il medico scoprì l’errore. Rabbia contro i genitori che non avevano fatto niente sottoponendolo così a quell’inutile tortura. In adolescenza Emilio scoprì di avere un altro problema ai genitali: il glande era un po’ curvo tanto da dare al suo pene una forma a uncino. Emilio collegava tutto ciò̀ alla sua impotenza e mancanza di desiderio sessuale. Per mesi l’analisi fu monopolizzata dalla sua descrizione di tutti i disturbi somatici e dalla convinzione che risolte le sue sofferenze somatiche (con l’operazione al pene) avrebbe risolto ogni suo problema psicologico. L’esperienza infantile del dolore traumatico sembrava avere avuto per Emilio una funzione strutturante, in quanto esperienza del confronto con l’oggetto che non presta soccorso, e aveva probabilmente influenzato profondamente l’organizzazione della personalità̀ del ragazzo e la sua modalità̀ di relazionarsi con gli altri, incuneando in lui il sentimento di mostruosità e di vergogna che lo rendevano impresentabile. Tale condizione acuta di sofferenza si esprimeva, in quella fase, attraverso il lamento sul corpo.

Il corpo sembrava l’unico contenitore per il dolore. Tralascio di descrivere una serie di altri fattori familiari che a causa della loro grave disfunzionalità produrranno in Emilio un vero e proprio breakdown evolutivo, che lo porterà un giorno in seduta ad affermare: “Io sono uno che doveva morire e non è morto; che doveva sbroccare (impazzire) e non è sbroccato. Quindi sono una specie di morto vivente; vivo questa tortura continuamente, lucidamente”. Ciò̀ che lo torturava era sentirsi uno zombie, un mostro. L’angoscia del mostruoso sembrava rimandare all’insopportabile perdita dell’identità̀ di specie (teorizzata, come accennavo prima, da Novelletto) connessa all’angoscia primitiva di perdita del Sé.  Nonostante tali gravi difficoltà trovammo una singolare sintonia nei confronti dell’esperienza del dolore: a esso riuscirò̀ ad avvicinarmi solo molto lentamente e in modo indiretto grazie alla mediazione proposta dal ‘poeta del dolore’, Fabrizio De André.

Parlavamo molto di musica in quella fase e ciò̀ creava nella relazione di transfert/controtransfert la sensazione di un’intimità̀ speciale come difesa e insieme come una forma di accostamento vivibile al dolore. Scoprimmo la comune passione per De André: raccontò che lo usava come una specie di analgesico perenne.

Lo ha ascoltato ininterrottamente giorno e notte per anni: la sua voce lo tranquillizzava, placava la sua angoscia e la sua perenne agitazione motoria. Anche in analisi dovetti trovare il ritmo giusto per permettere a Emilio di sopportare l’angoscia che l’avvicinare le sue aree doloranti comportava. Mi chiese esplicitamente di avvisarlo dieci minuti prima della fine della seduta, così si poteva preparare alla chiusura: in quell’ultima parte della seduta non dovevamo trattare nulla che lo potesse anche solo lontanamente angosciare, una specie di camera di decompressione, di ‘sosta di sicurezza’ (come quella che usano i subacquei prima di risalire in superficie per evitare l’embolia). Incominciai cautamente a adottare l’abitudine di utilizzare frasi di De André per fare i miei commenti. “Deve esserci un modo di vivere senza dolore”, ad esempio, è un verso che mi trovai a citare per commentare il suo lamento sulla sua ‘tortura’ perenne; citazione che inconsciamente anticipava quanto emergerà̀ più̀ avanti circa l’uso tossicomanico che il paziente faceva del proprio dolore. Lui apprezzava molto questo tipo di commenti e la cautela con cui procedevamo. Rivelò di non aver mai avuto a disposizione un adulto con cui condividere questo tipo di cose, se non la madre. “Non ho mai visto un amico di mio padre a casa”.

Parlammo dell’Antologia di Spoon River e dell’opera che De André ne aveva ricavato[5], ci confrontammo su alcune letture. Era rivitalizzato, interessato, mi interrogava su letture anche di tipo psicoanalitico. Attraverso questo intenso scambio, apparentemente intellettuale, costruimmo lentamente un’area condivisa in cui parlare del dolore al giusto ritmo. Il dolore separativo inavvicinabile della mia adolescenza vibrava all’unisono, grazie a De André, con quello di Emilio e questo ci ha unito in quella fase più̀ di quanto riuscissimo a fare con le parole.

 

Il secondo è il caso di Giacomo. Giacomo, 16 anni, era un adolescente gravemente ritirato che aveva minacciato il suicidio e viveva in una condizione di grande sofferenza e prostrazione per il profondo odio nei confronti di se stesso e del proprio aspetto fisico. Ritiratosi da tutto (scuola, amici, sport, famiglia) riusciva solo a partecipare all’analisi a due sedute settimanali, realizzata da remoto per buona parte del nostro percorso. Giacomo trascorreva tutto il suo tempo chiuso nella sua stanza di fronte allo schermo o per giocare ai videogiochi, o per leggere manga e vedere anime o film. Egli aveva scelto il mondo digitale come sostitutivo di quello reale per rifugiarsi dal contatto con gli altri e con la realtà e per coltivare la fantasia di poter manipolare tutto e tutti.

Giacomo viveva isolato in un grande casolare di campagna, in una frazione di un paese di provincia, dove i genitori si erano ritirati per fronteggiare le loro difficoltà economiche e familiari avviando un’azienda agricola ortofrutticola. Il padre, inoltre, faceva un lavoro stagionale, che lo portava a volte a stare mesi fuori casa alternati ad altri periodi in cui invece stava in famiglia e si occupava dell’azienda agricola familiare, della quale normalmente si occupava la madre. Quest’ultima, pur avendo una sua professione, aveva scelto di abbandonarla per seguire il primogenito, fratello maggiore di Giacomo, affetto da una grave disabilità. A tal proposito Giacomo affermò:

“Se non fosse nato mio fratello i miei genitori avrebbero già divorziato. Stanno insieme solo per lui, sono bravissime persone e non riuscirebbero mai ad abbandonarlo o a dividerselo”.

Giacomo, a fronte delle frequenti assenze paterne, inevitabilmente era stato, convocato dalla madre a condividere il peso della gestione del fratello malato. La madre aveva finito così involontariamente per partnerizzarlo.

In una seduta del primo anno di analisi mi parlò di una serie TV sugli Hikikomori dove il protagonista non usciva più di casa perché vedeva che gli altri non facevano altro che deriderlo. Aggiunse, parlandomi per la prima volta della madre, che lei: “è una persona imbarazzante, perde facilmente la pazienza con gli altri, urla quando parla con me”. Subito dopo cominciò a denigrare se stesso:

“non lo vedi? Ho il monociglio, la mia barba cresce male, a chiazze, porto lo zucchetto anche quando fa caldo, non avrò mai una ragazza. È solo colpa mia, per come sono fatto, sono nato dentro e fuori troppo timido, troppo gentile, non adatto a questo mondo”.

Chiusi la seduta parlandogli della relazione fra le critiche alla madre, l’autocritica feroce e il suo rinchiudersi dentro casa, come se stesse incominciando a costruire collegamenti importanti che ci avrebbero permesso progressivamente di comprendere la sua attuale scelta del ritiro. “Forse dovevi riconciliarti con te stesso e per questo hai voluto fermare tutto. Magari in questo tuo blocco c’è qualcosa di utile, nel senso che finalmente hai scelto di definirti non più in funzione della relazione con mamma, ma con quella con te stesso, che stai cercando nelle storie che leggi e che segui, anche se sono storie di dolore, come se tu stessi permettendoti finalmente di soffrire”.

L’odio verso il se stesso mostruoso si esprimeva anche come odio contro il mondo, che ad esempio durante il lockdown lo spinse ad affermare: “Sono contento del lockdown così sono tutti segregati come me”, oppure lo spingeva ad attaccare i suoi amici, perché invidioso nei loro confronti, visto che riuscivano ad avere una ragazza commentando: “Non credo nell’amore di coppia, è una cosa rarissima!”. Riuscimmo ad affrontare quest’odio per sé stesso e per gli altri grazie al fatto che lo proiettò su di me nella relazione di transfert in occasione della nostra prima separazione.

La rabbia del paziente nei miei confronti si articolò ulteriormente grazie alla citazione del testo di una canzone dei Radiohead,  Paranoid Android [6] (è un brano del 1997, cantato da Tom York).

 Il testo è disperato e minaccioso. Eccone di seguito alcuni brani:

Per favore, potresti fermare il rumore?

Sto cercando di riposarmi un po’

Da tutto il pollo non ancora nato

Voci nella mia testa

Cosa c’è qui?

(Potrei essere paranoico, ma non un androide)

Quando sono re

Sarai il primo contro il muro

Con la tua opinione

Il che non ha alcuna conseguenza

Cosa c’è qui?

(Potrei essere paranoico, ma non androide)

Piove, piove

Vieni a piovere su di me

Da una grande altezza

Questo è tutto, signore

Stai andando.

Il panico, il vomito

Dio ama i suoi figli, sì

 

Solo grazie a questa canzone il ragazzo riuscì a figurarsi la rabbia per la nostra separazione altrimenti del tutto negata ed inconscia.

Ricevetti la comunicazione di transfert collegandola alla sua rabbia (Quando sono re Sarai il primo contro il muro) per essere stato lasciato solo (Stai andando), con le sue paranoie (Voci nella mia testa) tradendo così la promessa di stargli vicino (Dio ama i suoi figli, si). I sentimenti per l’imminente separazione mi sembravano richiamare in lui i sentimenti di abbandono provocati dal padre, con le sue lunghe trasferte, e la sua disperazione per essersi sentito lasciato solo ad assorbire la depressione e la rabbia della madre per la gestione del figlio disabile. La seduta successiva, la penultima prima dell’interruzione natalizia, Giacomo mi parlò del fatto che non aveva nessuna voglia di fare la seduta.

Mi disse che non aveva niente da dire, si sentiva vuoto “come un bidone”. Lo feci riflettere sui segnali che già aveva mandato nelle sedute precedenti di conflitto nei confronti della terapia e più specificatamente dei sentimenti di rabbia connessi al rapporto con me, visto l’imminente separazione. Ammise con mia sorpresa la sua rabbia. Gli dissi che forse era perché questa separazione arrivava troppo presto, prima che lui potesse aver stabilizzato il rapporto con me. Aggiunsi che ero disposto a sentirlo durante le vacanze, nella settimana fra Natale e Capodanno. Sorrise tranquillizzato.  A questo punto ricordò un sogno fatto la notte stessa:

“Ero ad un concerto, dov’ero il cantante di una band. Non ricordo la canzone, anche se ho in mente la sua melodia, pur essendo una canzone inesistente (come quando sogno di stare con delle ragazze che non ho mai incontrato nella realtà). Ho un outfit molto strano: un gilè di pelle e sotto una specie di reggiseno tipo fascia, ma non ho le tette, ho i jeans o forse un paio di pantaloni di pelle molto attillati, sono scalzo; ho i capelli lunghi. Nella band ci sono i miei amici: Giovanni che suona il basso, Dario la batteria e Francesco la chitarra. Giovanni è mezzo nudo solo con i jeans, Dario ha una fascia in testa, degli occhialetti piccoli e neri. Mentre canto prendo ad un certo punto da una ciotola una manciata di glitter rossi e me li butto in faccia.”

Nelle associazioni Giacomo si animò affermando che sarebbe bellissimo se veramente sapesse cantare e se potesse suonare insieme al suo gruppo. Gli chiesi che ne pensava dell’abbigliamento che aveva nel sogno. Rispose che era un po’ il marchio di fabbrica di David Bowie, artista che a suo avviso aveva una delle più belle performance in assoluto degli anni Settanta. Aggiunse che anche i glitter rimandavano a lui e al fulmine rosso dipinto sul suo viso. A fine seduta sentii con soddisfazione che finalmente eravamo riusciti a  “chiudere il cerchio” e potei fargli un’ interpretazione che, pur lasciando ancora fuori l’aspetto oggettuale, gli permettesse di collegare gli argomenti delle ultime sedute (sogni precedenti, Paranoid Android, il sogno della band) con il tema dell’imminente separazione, con quello della relazione di transfert con me ed, infine, con il suo sintomo principale, relativo al suo odio per se stesso e al suo ritiro sociale (connesso al sentimento di falsità e mostruosità che nutriva nei confronti di se stesso: “sentivo di avere una maschera”) e lo aveva spinto nella pericolosa area dell’autosufficienza.

Nella successiva seduta, l’ultima prima dell’interruzione, effettivamente Giacomo declinò l’invito a fare una seduta durante le vacanze e mi comunicò che era riuscito a riprendere a giocare alla play station con altri players e ad organizzare a casa sua per la notte di Capodanno il veglione con i quattro amici storici.

Il sogno della band probabilmente sembrava inserirsi nel processo evolutivo del ragazzo, riattivandolo, grazie al fatto di permettergli di ritrovare la continuità del proprio sé interrotta dall’isolamento e di validare tale suo desiderio attraverso il racconto all’analista. Il ragazzo era riuscito finalmente a dare voce alla sua band interna, cioè dare voce alle diverse parti del sé, dando valore a tutto ciò attraverso il racconto del sogno all’analista. Il sogno era diventato in questo senso un oggetto regolatorio fra analista e paziente, nel senso che ne modifica la relazione, attraverso la comunicazione preconscia del fatto di poter accedere alla polifonia del sé intrisa di musicalità sensoriale, per rifuggire dal senso di solitudine abbandonica prodotto dalla separazione dall’analista per l’interruzione natalizia.

 

A.C: Grazie di queste preziose condivisioni.

Mi hai fatto ricordare un bellissimo album dei “Dead Man’s Bones” [7], che aveva in copertina un coro di preadolescenti e adolescenti vestiti da fantasmi e mostri.

Ogni canzone aveva gli incisi cantati da una voce adulta e i ritornelli erano affidati al coro dei ragazzi. Sebbene i testi siano intrisi di paure e ombre, l’effetto finale è molto potente: oscuro ma anche vitale. Nel disco, come nelle due storie cliniche che ci hai raccontato, si sente che due generazioni si parlano e si armonizzano. Non c’è un rifiuto del vissuto di mostruosità ma c’è il ritrovamento di qualcuno che sa dialogare, stando a fianco.

Grazie ancora.

Note:

[1] La sigla di Big Mouth (2017).

[2]  “Changes” dei Black Sabbath (1972), rimasterizzata nel 2021.

[3]Changes” interpretata da Charles Bradley nel 2016.

[4] Fabrizio De André, “Canzoni” (1974).

[5] Fabrizio de Andrè, “Non al denaro non all’amore né al cielo” (1971).

[6] Radiohead, “Paranoid Android”, 1997.

[7] Tra le canzoni segnalo “My body is a zombie for you”(2009)

Bibliografia

Biondo D. (2020). Gruppo evolutivo e branco: Strumenti e tecniche per la prevenzione e la cura dei nuovi disagi degli adolescenti. Milano, Franco Angeli.

Blos P. (1962). L’adolescenza. Un’interpretazione psicoanalitica. Milano, Franco Angeli, 1971.

Novelletto A. (1983). Mostruosità, contaminazione, metamorfosi. In L’adolescente. Una prospettiva psicoanalitica, Roma, Astrolabio.

Daniele Biondo, Roma

Centro Psicoanalitico di Roma

dottorbiondo@gmail.com

 

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

*Per citare questo articolo:

Biondo D., Cordioli A., (2024), “I’m going through changes. L’Adolescente, il mostro e la musica”, Rivista KnotGarden 2024/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, p.320-335

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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