Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Patrizia Montagner
(Portogruaro, Venezia), Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.
Questo lavoro riguarda alcune osservazioni effettuate con bambini e ragazzi profughi ucraini. Esso ha la caratteristica di essere un work in progress e di essere aggiornato alla data di oggi, cioè a poco più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina. Siamo consapevoli che molto è ancora da osservare e da comprendere e che in futuro potranno esservi notevoli cambiamenti rispetto a oggi, poiché l’evoluzione delle problematiche della migrazione e della condizione dei profughi risente moltissimo della situazione sociale, politica e umanitaria in cui stanno vivendo.
Una delle conseguenze più terribili della guerra è la migrazione delle popolazioni che vivono nei territori di guerra.
Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, molti ucraini sono dovuti fuggire dal loro Paese; l’Europa ne ha ospitati milioni, almeno 5 milioni, e l’Italia in poco tempo ha fatto posto a circa 200.000. di loro.
L’accoglienza che hanno avuto è stata particolarmente benevola e rapidamente sono stati organizzati alloggi e sistemazioni. Questo ci dice quanto la popolazione italiana sia stata toccata dall’evento e si sia data da fare, insieme al governo italiano e a quello europeo.
Perché questa accoglienza? Credo per varie ragioni.
Prima di tutto sono cittadini europei come noi e poi sono bianchi. Ma non basta. La mia idea è che ci sia stata una grande identificazione con questi profughi, che abbiamo sentito vicini, e soprattutto abbiamo noi stessi temuto e temiamo di trovarci come loro ad essere vittime della guerra se questa si dovesse allargare: temiamo di dover fuggire come loro. La guerra in Europa ci ha sorpreso e forse deluso nelle aspettative che riponevamo di essere capaci di garantire all’Europa e a noi stessi finalmente la pace duratura. (Freud 1915; Winnicott 1986).
Osserviamo che dopo un anno la guerra e i profughi sono divenuti purtroppo quasi “abituali” e non sollecitano più la stessa partecipazione che abbiamo visto nei primi mesi, a conferma del meccanismo messo in luce da Amati Sas che ci si adatta a “qualsiasi cosa” (Amati Sas, 2020).
È stato dato ai profughi un aiuto concreto, che era nell’insieme ben organizzato e rapido, ma che non comporta tuttavia la possibilità di altrettanto aiuto alle problematiche psichiche che presentano. Anzi, forse qui le difficoltà sono paradossalmente maggiori che con altri migranti. Anche i profughi ucraini sono persone spesso molto traumatizzate, ma è difficile dare un supporto in tal senso. Il trauma non viene riconosciuto, e anche chi presenta sintomi evidenti come disturbi del sonno, chiusura, flashback, spesso non vuole essere aiutato. Minimizza.
Oltre i due terzi dei profughi intendono tornare a casa, e ritengono che la sofferenza sia momentanea, non meriti alcun intervento.
IL desiderio di tornare fa sì che non ci sia che scarso se non addirittura assente desiderio di inserirsi nella nostra realtà sociale. Non c’è in loro, se non in alcuni, il desiderio di legare con altre persone che non siano del loro Paese, non desiderano imparare la nostra lingua, che è considerata “inutile”, a differenza di altre come l’inglese che può servire, non vogliono trovare un lavoro. Dobbiamo aggiungere che la maggior parte dei nuclei familiari arrivati sono composti da madri, figli e parenti donne, non ci sono padri, eventualmente nonni, e non ci sono ragazzi di oltre 18 anni. In questi nuclei abbiamo visto crearsi importanti regressioni e accentuata dipendenza dalle figure femminili, soprattutto dalle madri. Certo questo ha molto a che fare anche con la realtà familiare e con la situazione psichica dei profughi prima dello spostamento, tuttavia credo che si tratti di una condizione significativa. Famiglie senza padri, lontane e traumatizzate, in cui è difficile sentire un’autorità che assegna ai figli e ai genitori i loro rispettivi ruoli. Conflitti edipici che si riattivano potentemente.
Ad oggi qualcuno è rientrato a casa stabilmente, ma la maggior parte, pur avendo fatto un rapido rientro per rivedere familiari e luoghi, è poi ritornato in Italia.
Cosa significa per bambini e adolescenti, e che cosa può comportare la fuga repentina dalla propria casa, l’essere qui “momentaneamente”, e anche questo va e vieni e l’incertezza che ne segue?
Credo che si debba considerare che il vissuto dei profughi ucraini è quello di essere stati forzati ad andarsene perché il loro Paese è stato invaso con l’obbiettivo di farlo diventare a tutti gli effetti un territorio russo. Questo ha comprensibilmente generato in loro una profonda angoscia di perdere la loro identità sociale e di dover rinunciare alle caratteristiche specifiche che da essa derivano: lingua, tradizioni, cultura.
Una delle prime cose che si è cercato di fare per loro è stato mandarli a scuola nel nostro Paese, con lo scopo di far loro riprendere il percorso dell’apprendimento interrotto e favorire anche una nuova partecipazione a gruppi di coetanei.
La scuola italiana si è data molto da fare per inserire i ragazzi, e gli inserimenti, pur con molta difficoltà, sono avvenuti lo scorso anno scolastico, fino a giugno. Ora, al secondo anno, la stragrande maggioranza dei ragazzi profughi segue le lezioni della loro classe di appartenenza in Ucraina on line, stando praticamente tutto il giorno davanti al cellulare. Questo ha la funzione per loro di mantenere e salvaguardare il legame con la Patria, la cultura, la lingua ecc. Però questo porta di fatto ad una condizione di chiusura, di solitudine e di non partecipazione ad attività sociali nel luogo dove ora vivono.
Abbiamo organizzato[1] e partecipiamo a iniziative volte a fornire un supporto psichico a chi è profugo dall’Ucraina, e abbiamo costruito un progetto complesso di supporto che riguarda operatori, madri e ragazzi, e un altro diretto anche alla scuola, e a ragazzi e famiglie in palese difficoltà.
Ciò che preoccupa è soprattutto la condizione di silenzio sulla loro sofferenza che i ragazzi ucraini vivono.
Durante una delle osservazioni di gruppo organizzate con loro, uno diceva: “Tutti i giorni sono uguali”. Qualcuno di loro è stato inserito in attività sportive e questa rappresenta l’unica esperienza interessante della settimana. È fonte di preoccupazione soprattutto il fatto che sono sempre collegati al cellulare sul quale cercano immagini e video di ciò che sta succedendo nel loro Paese di origine. Tutto ciò li rende continuamente esposti a contenuti visivi fortemente traumatici, che non sono in grado di elaborare, di cui chissà se parlano in famiglia. È importante per loro questo contatto, attraverso di esso partecipano a quanto accade distante da loro, forse vivono indirettamente la vita degli eroi che li stanno difendendo, e si sentono forse meno colpevoli di essere fuggiti.
L’aspetto che inquieta è la quantità di odio che questi ragazzi stanno crescendo dentro di loro verso i russi. Esso è pienamente motivato dalle vicende della guerra. Tuttavia è un elemento nuovo, ucraini e russi erano popoli vicini culturalmente. Molti ragazzi ucraini, soprattutto delle regioni orientali, sanno parlare russo. Che destino avrà quest’odio in futuro? Quali profonde scissioni sta provocando? Verrà proiettato e mantenuto all’esterno aumentando il conflitto? Avverrà che si attivi un meccanismo di identificazione con l’aggressore? Che venga introiettato causando vissuti depressivi e melanconici?
L’odio ha la funzione in questa fase di sostenere l’identità sociale. Per un adolescente, impegnato in una fase cruciale del processo di soggettivazione, esso costituisce un elemento importante della propria identità (Niccolò, Novelletto, Winnicott).
Osserviamo che molti di loro sono molto sofferenti. Presentano tutti sintomi di una condizione di stress postraumatico (Bolheber, Elton e al, Garland). Sappiamo che nelle situazioni traumatiche la rapidità con cui se ne parla fa la differenza. Ci si chiede che cosa comporti il fatto che nessuno pare voler considerare il problema. Senza dubbio la difesa del diniego e della scissione sono in atto. Quanto realmente funzionano?
Sono difese che implicano una accentuazione della chiusura e della solitudine, in una fase della vita psichica in cui la partecipazione e la condivisione con i coetanei acquisiscono un valore fondamentale.
Durante le osservazioni fatte con loro ho proposto disegno e pittura. Sono attività che li coinvolgono, dipingendo parlano. Dicono di loro, ma senza sentirsi malati o problematici. Riescono a mostrare un poco la loro sofferenza. Anche se non sono interessati ad imparare, tuttavia in gruppo si aiutano l’un l’altro con la lingua, cercano di darsi una mano per comunicare con me un po’ in italiano, un po’ in inglese e un po’ con il traduttore, per farsi capire. Credo che il problema del non tradire le loro origini, che pone tutti i migranti di fronte alla scelta difficile, mai del tutto compiuta, se integrarsi o meno, in loro rappresenti una realtà interiore insostenibile. Stare bene qua è vissuto come un tradimento del loro paese, delle loro radici, dei compagni che stanno là.
Il bisogno è di rafforzare il legame con quella realtà nazionale, sottolineando tutte le notizie tragiche che arrivano da là. Tutti disegnano spesso la loro bandiera, e usano i colori giallo e azzurro molto di frequente.
Però il bisogno di comunicare, quando sono messi in condizione di farlo, emerge. Comunicare, non parlare. Disegnando il peso psichico della parola viene alleggerito, la si usa “solo” per descrivere l’immagine (Di Benedetto).
Mi consentono così di comprendere qualcosa di loro e si consentono di esprimere qualcosa del loro dolore.
Ecco ora due brevi vignette, che testimoniano la profondità del trauma, la sofferenza che vivono e che continua a torturarli.
La prima riguarda una ragazzina di 14 anni. Propongo di disegnare; qualcuno del gruppo lo fa volentieri, qualcun altro attende un poco per avviarsi, lei mi dice che non vuole disegnare, e aggiunge che lei disegna solo cose della guerra. Le dico che va bene, può disegnare ciò che preferisce. Non vuole disegnare qua. Scappa nella sua camera e ritorna con alcuni fogli pieni di figure, altre immagini sue le ha nel cellulare.
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[1] Come membri del Gruppo PER (Psicoanalisti Europei per i Rifugiati) del CVP e anche di altre Associazioni locali.
Anche le immagini riportate in questo articolo sono soggette alla licenza Creative Commons. Per riprodurle è necessario riportare la fonte, ovvero il presente articolo.
Sono immagini di episodi tragici avvenuti in Ucraina di cui ha avuto notizia. Racconta che sta davanti allo schermo a vedere cosa succede e poi disegna.
Immagini terribili, in cui la paura, l’orrore e la distruzione sono rappresentati con straordinaria capacità.
Mi dice che ci pensa sempre.
Queste immagini sembrano analoghe ai sogni ricorrenti e ai flashback così frequenti in chi ha subito un trauma (Freud 1920). Un tentativo che la sua psiche sta compiendo di padroneggiare il trauma, di assumere un ruolo attivo di fronte ad esso, di legare elementi che hanno bisogno di collegamento e di senso. Vedo quanto sia importante per la giovane disegnatrice la mia attenzione alla sua produzione e il mio commento sul dolore e la tragedia che sta vivendo. Quanto sia importante anche che io accetti che i disegni sono produzioni sue di un momento diverso da questo, testimoniano quanto lei vive quando è da sola.
Sono immagini che parlano da sole, che gridano l’orrore.
Ci sono altri due disegni di un ragazzo di 12 anni, che parla bene inglese. Lui è sempre assonnato. Gli altri del gruppo lo deridono un poco per questo. In realtà a me pare molto, troppo sveglio. Ma forse il suo essere assonnato rappresenta una strenua difesa contro una realtà, quella attuale, così inaccettabile per lui. Però accetta volentieri di disegnare. Nel primo incontro disegna una casa, è quella di un videogioco Minecraft.
(In Minecraft i giocatori possono esplorare liberamente un mondo 3D costituito da blocchi, andare alla ricerca di minerali grezzi, fabbricare strumenti ed oggetti vari e costruire strutture. A seconda della modalità di gioco è possibile combattere entità). È fatta di pezzi messi insieme. Mi pare invivibile. Nel secondo disegno fa questa specie di carta geografica. Con le città ucraine dove sono avvenuti attacchi e violenze da parte dei russi.
E poi prende una cartina che ha sulla prima pagina del suo diario e comincia a cancellare alcuni paesi con il bianchetto. Chiedo cosa faccia. Dice: “È dove ci sono i russi adesso”.
Rimango senza parole. La scena ha bloccato la mia mente.
Lentamente sono stata in grado di fare un pensiero su tutto ciò. A considerare che era prima di tutto una questione di spazi e di luoghi. Che è necessario mantenere un contenitore per esistere e per crescere.
Questo preadolescente sta iniziando a riflettere sulla propria identità. Così mostra come, per avviare questo processo, egli senta di dover mettere insieme dei pezzi e collocarli in un luogo. La guerra ha rotto il contenitore. Allora riprendere il percorso significa per lui tornare a fare riferimento e mantenere vivo il luogo dove la sua crescita è avvenuta e dove la sua identità si è mantenuta fino ad ora. Eliminare i luoghi dove il nemico potenzialmente può distruggerla e annientare la continuità di sé.
Bibliografia
Amati Sas S. (2020). Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano. Franco Angeli.
Bohleber W. (2020). L’anima sopraffatta- Quando la realtà diventa traumatica. In Riv.di Psicoan. Anno LXVI n°1
Di Benedetto A. (2002). Prima della parola. Milano, Franco Angeli.
Elton V. et al. (2023). Trauma, Flight and Migration. Psychoanalytical Perspectives. London, Routledge
Freud S. (1915). Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. O.S.F., VIII.
Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. O.S.F., IX.
Garland C. (A cura di) (2001). Comprendere il trauma. Un approccio psicoanalitico. Milano, Mondadori.
Nicolò A.M., Zavattini G.C. (1992). L’adolescente e il suo mondo relazionale. Roma, NIS.
Novelletto A. (1986). Psichiatria Psicoanalitica dell’adolescenza. Roma, Borla.
Winnicott D.W. (1961). Adolescenza. Il dibattersi nella bonaccia. In La famiglia e lo sviluppo dell’individuo. Roma, Armando.
Winnicott D.W. (1968). Il gioco dello scarabocchio, in Esplorazioni psicoanalitiche (1989), a cura di Clare Winnicott, Ray Shepherd e Madeleine Davis, ed. it. a cura di Carla Maria Xella, Milano, Cortina, 1995.
Winnicott D.W. (1971). Gioco e Realtà. Roma, Armando, 1974.
Winnicott D.W. (1986). La libertà. In Dal luogo delle origini. Milano, Cortina, 1990.
Da internet
https://www.minecraft.net/it-it
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