Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Alberto Luchetti
(Padova), Membro Ordinario con funzione di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.
Il compito affidatomi oggi per introdurre e avviare i nostri lavori è solo quello di ricapitolare lo scritto che esattamente novant’anni fa Freud dedicò alla guerra. Eppure, non è stato facile avviarsi a scrivere per cercare di assolverlo. Innanzitutto, è inevitabile ritrovarsi inibiti a parlare, a scrivere di guerra qui, al riparo benché partecipi, mentre ancora una volta (ma è mai stato diversamente?) la guerra tragicamente investe e travolge milioni di persone: ancora una volta persone vicine a noi, in Europa, violentemente aggredite da mesi. D’altro canto, come non ritrovarsi divisi – in fondo, lo vedremo, come lo stesso Freud – fra la necessità di pensare psicoanaliticamente queste catastrofi provocate dall’essere umano e il sentimento di impotenza e inutilità che si prova nel farlo, sgomenti di fronte al ripetersi perturbante e inesorabile di quella che lo stesso von Clausewitz definiva «null’altro che una reciproca distruzione», e che accompagna ab origine la storia degli esseri umani?[1]
Sentimenti e sensazioni che sono ben espressi dal titolo Warum Krieg? / Why war? / Perché guerra? che, più che alludere ad una spiegazione (tantomeno esaustiva), trasmette lo sconcerto, la perplessità, lo sbigottimento di fronte alla guerra. Anziché essere il punto di partenza della riflessione freudiana per approdare ad una risposta, ne scaturisce come punto di arrivo, come suo risultato. La risposta a quell’interrogativo, è proprio lo stesso interrogativo…
Fu Freud, novant’anni or sono, in assenza del suo corrispondente già volato negli Stati Uniti, a insistere nell’intitolare così lo scambio di due lettere – il minimo per poter parlare di corrispondenza – con Albert Einstein. Questi, come sappiamo, era stato invitato dal «Comitato permanente delle lettere e delle arti» della Società delle Nazioni nella cornice delle iniziative dell’Istituto internazionale per la cooperazione intellettuale, a scegliersi un interlocutore e un tema di interesse universale su cui scambiarsi le rispettive idee. Einstein aveva fatto il nome di Freud, conosciuto personalmente cinque anni prima, e il tema che gli aveva proposto era: «c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?», nella personale e ferma convinzione che «l’insuccesso degli sforzi pur generosissimi … profusi per raggiungere questa meta» portasse a «concludere senz’ombra di dubbio che agiscono in questo caso forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi» (Freud-Einstein, 1932, 290). Einstein domandava quindi: «Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?» (Freud-Einstein, 1932, 291).
Freud insiste dunque per il titolo Perché guerra? anziché Diritto e violenza, con cui egli stesso nello scritto aveva sostituito quello proposto da Einstein (Diritto e potere) ritenendo la parola «violenza» «più incisiva e più dura» se si vuole indicare senza infingimenti ciò di cui si tratta (non cedere sulle parole per non cedere sulle cose, aveva detto in altra occasione). Freud è addirittura drastico: Diritto e violenza «non posso accettarlo e mi vedo obbligato a reclamare che anche “guerra” figuri nel titolo» Assoun, 2009, 957).
Eppure Freud non fa esplicita menzione dell’ombra della guerra che in quei cupi tempi già si allungava sul futuro e non solo si levava alle loro spalle. Al punto di dare l’impressione di parlare da una Turris eburnea – come è stato detto – astraendosi «a tavolino» da quanto minacciosamente andava accadendo fuori, quasi rifugiandosi nel suo laboratorio di pensiero, «volgendo le spalle al mondo esterno vivo e presente verso il passato e il mondo interno» (P. Bion, 2011). Impressione scaturita soprattutto dal confronto con l’altro scritto sulla guerra, risalente alla primavera del 1915, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, che cominciava invece proprio descrivendo lo smarrimento di Freud: «Presi nel vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obiettive, senza la possibilità di considerare con distacco i grandi mutamenti che si sono compiuti o che si stanno compiendo, o di prevedere l’avvenire che sta maturando, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare. Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato confusione in tante limpide intelligenze, degradato così radicalmente tutto ciò che è elevato. Anche la scienza ha perduto la sua serena imparzialità». Alla fine di quello stesso anno 1915, Freud ribadiva ad un suo corrispondente: «guardi cosa sta accadendo in questa guerra, guardi le crudeltà e le ingiustizie di cui si rendono responsabili le nazioni più civili, la malafede con cui si atteggiano di fronte alle proprie menzogne e iniquità a petto di quelle dei nemici; e guardi infine come tutti hanno perso la capacità di giudicare con rettitudine» (Jones, 1953, v. 2, 443).
Per di più, sempre in quello scritto del 1915, Freud confidava la «miseria spirituale in cui è piombato chi è rimasto a casa, e contro cui è tanto difficile lottare» (Freud, 1915, 123), mentre chi combatte è diventato «un semplice ingranaggio della gigantesca macchina bellica», che una volta avviata ormai procede autonomamente: miseria provocata tra l’altro dalla delusione provocata dalla guerra circa l’idea che la civiltà avrebbe permesso di superare la barbarie, e dal mutamento imposto nell’atteggiamento verso la morte, non più rinnegabile.
Apparentemente, niente del genere in Perché guerra? Qui Freud parte dichiarando la propria incompetenza: quel che poteva dire da «amico dell’umanità» lo ha già detto Einstein: «Lei ha tolto vento alle mie vele, ma io viaggio volentieri nella Sua scia». Freud sembra incerto di poter offrire un contributo specificamente psicoanalitico, donde le scuse anticipate: «Mi scusi se nelle pagine che seguono parlo di cose universalmente note come se fossero novità» (Freud-Einstein, 1932, 293). Peraltro, aveva espresso ad Eitingon la sua insoddisfazione ancora prima di mettersi a scrivere: «Non credo che questo contributo mi varrà il premio Nobel», e poi a cose fatte, parlandone come del «cosiddetto colloquio, noioso e sterile con Einstein» (Freud-Eitingon, 1906-1939, 759 e 768).
Però nel testo, come già accennato, subito interviene con un affondo che muove da una prima amara considerazione: «Lei comincia con il rapporto tra diritto e potere. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “potere” con la parola più incisiva e più dura “violenza”»? (Freud-Einstein, 1932, 293). Il diritto si è sviluppato dalla violenza. Come in tutto il regno animale, i conflitti di interesse sono «in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza» (Freud-Einstein, 1932, 293). Non vi è altra possibilità che trasferire quest’ultima (dapprima sotto forma solo di forza muscolare, poi anche intellettuale, già con l’introduzione delle armi) ad una duratura comunità: «L’union fait la force. … il diritto è la forza di una comunità [Gemeinschaft]. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, operante con gli stessi mezzi, intenta a perseguire gli stessi fini; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a imporsi, bensì quella di una comunità» (Freud-Einstein, 1932, 294). E per essere duratura, questa comunità deve organizzarsi tramite norme e istituzioni e soprattutto mediante l’instaurazione di legami emotivi che sono la vera forza del gruppo.
A questo punto, in modo piuttosto brusco e categorico, quasi con un moto di stizza non trovando vento per le proprie vele, Freud dichiara: «Con ciò, a mio avviso, è stato detto tutto l’essenziale: il superamento [Überwindung] della violenza mediante il transfert del potere [Übertragung der Macht] ad una unità più vasta [eine größere Einheit] che viene tenuta insieme dai legami emotivi che si stabiliscono tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni» (Freud-Einstein, 1932, 294).
Con questo «transfert di potere», i problemi in realtà si spostano, riproponendosi allorché le disuguaglianze si ricreano all’interno della comunità così costituitasi. «Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti» (Freud-Einstein, 1932, 295). Di qui una seconda amara conclusione e avvertenza: «È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto era in origine violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza» (Freud-Einstein, 1932, 295). L’intento di creare un’autorità centrale cui sottomettere tutti i conflitti di interesse e sostituire la forza delle idee e dell’ideale alla forza della coercizione, sembra per ora votato all’insuccesso.
Ma perché è «tanto facile infiammare [begeistern] gli uomini alla guerra?», chiedeva Einstein (Freud-Einstein, 1932, 297). Cos’è «infiammabile» nell’animale umano? Qui, il ricorso di Freud alla sua teoria delle pulsioni, erotiche e distruttive – al nuovo dualismo di Eros e pulsione di morte – è un altro decisivo affondo nella peculiare condizione dell’essere umano, l’essere cioè un animale pulsionale. Ne discende infatti un’ulteriore amara conclusione. «Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Entrambe le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto» (Freud-Einstein, 1932, 298). È raro che l’azione sia opera di un unico moto pulsionale, già di per sé composto di Eros e distruzione: il richiamo a Lichtenberg e alla sua «rosa dei moventi» – dai venti ai moventi – è per sottolineare che il piacere di aggredire e distruggere è presente mescolato ad altri impulsi, anche quelli più elevati, talvolta nascondendosi dietro quelli.
Qui Freud coglie l’occasione per un approfondimento della pulsione di morte:
Ancora un’altra amara conclusione: «il volgersi di queste forze pulsionali distruttive nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non sortire un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica [biologischen Entschuldigung] a tutti gli impulsi [Strebungen] esecrabili e perniciosi contro i quali noi ci battiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione» (Freud-Einstein, 1932, 299-300) – vi accennerà successivamente. Circa la natura, parlare di «scusa biologica» conferma quel che preciserà poi Fornari, criticando per questo Freud (che certo oscilla fra endogeno ed esogeno): l’espressione «vicino alla natura» è da intendersi riferito alla «natura umana» anziché alla natura in generale. Prosegue Fornari: «il problema del senso di colpa [e con esso della pulsionalità che ne è a monte] rappresenta una novità portata nel mondo naturale dall’uomo, in quanto animale che è entrato in conflitto con la propria vita istintiva […] l’insorgenza della singolarità della colpa è dovuta ad un fatto di “mutazione” originaria (nel preciso significato che a tale termine si dà in biologia) specifica dell’uomo» (Fornari, 1966, 160-161).
Dunque Homo homini lupus – come Freud aveva scritto qualche anno prima richiamandosi ad Hobbes – ma precisando che il lupo non è un lupus né per l’altro lupo (nemmeno nella rivalità dei maschi) né per le sue prede: «Nessun piacere nel far soffrire [cioè nessun sadismo], nessuna velleità di massacrare tutto il branco in un qualche olocausto!» (Laplanche, 1999, 177). E il lupo non è lupus nemmeno nei confronti dell’uomo. «Il lupo … di Hobbes è solo una sorta di figura emblematica della nostra propria crudeltà, ma non può affatto servire da argomento per invocare … un presunto carattere biologico della nostra distruttività» (Laplanche, 1999, 178). Soltanto l’uomo è per l’uomo un Lupus. L’aggressione sadica e distruttiva dell’uomo è assolutamente eterogenea rispetto ad ogni animalità, e la pulsione non è una «naturalità» originale, ma una vera «seconda natura» depositata nell’uomo dagli effetti del rapporto del bambino con l’altro adulto. La guerra è una passione umana, troppo umana, sottolinea più specificamente Money-Kyrle in quegli anni: negli animali superiori non vi è nulla di corrispondente alla guerra degli esseri umani; se «la guerra consiste nel combattere, tra membri della stessa specie, in cooperazione», «nei combattimenti degli animali in calore si possono ritrovare solo i primi due termini di questa definizione. … l’uomo è capace di lottare sotto la guida di un capo, con un gruppo contro un altro gruppo; la scimmia non sembra in grado di farlo» (Money-Kyrle, 1937, 160).
Proprio per questo intimo e inscindibile nesso fra essere umano e pulsionalità, Freud giunge alla conclusione che «non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini» (Freud-Einstein, 1932, 300), pensarlo è una rischiosa illusione, così come in quelle stesse settimane scriveva altrove di una «triste rivelazione»: «È realmente come se dovessimo distruggere qualche altra cosa o persona per non distruggere noi stessi, per preservarci dalla tendenza all’autodistruzione» (Freud, 1932, 213). Questa distruttività si può però «cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra» (Freud-Einstein, 1932, 300). Ma come effettuare questa deviazione? «Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra» (Freud-Einstein, 1932, 300). Questi legami su cui si basa in buona parte l’assetto della società umana possono essere di due specie: d’amore, benché inibiti nella meta sessuale, e di identificazione.
Queste «vie indirette di lotta alla guerra» sono certo più praticabili rispetto ad un ideale «assoggettamento della vita pulsionale alla dittatura della ragione» (Freud-Einstein, 1932, 301) [un ideale che quindi rientrerebbe anch’esso in un «transfert di potere»], ma non danno garanzie di successo, tanto meno rapido. Se non c’è vento nelle proprie vele psicoanalitiche, i mulini a disposizione dell’umanità, e della psicoanalisi con essa, per macinare questa «materia umana» ed alimentare la costruzione o ricostruzione di questi legami sono lenti, troppo lenti e per questo forse dolorosamente inefficaci. «È triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina» (Freud-Einstein, 1932, 301). Non aveva peraltro Freud indicato la psicoanalisi come «magia lenta», quella della cura delle parole?
Lo scoraggiamento è inevitabile. E contrariamente all’impressione della Turris eburnea, qui Freud lo esprime, a contrario, ponendo una domanda apparentemente cinica, dichiarando però esplicitamente che questa è «la maschera di un finto distacco»: ma perché poi ci indigniamo tanto contro la guerra, e vi resistiamo anziché prenderla come «una delle molte penose calamità della vita», considerandola cioè conforme alla natura e pienamente giustificata biologicamente, e in pratica assai poco evitabile?
Se la domanda sembra distaccata, la risposta sarà al contrario appassionata: «perché ogni uomo ha diritto alla propria esistenza, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni avvilenti, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, frutto del lavoro umano, e altre cose ancora […] e nella forma che è destinata ad assumere in futuro, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti» (Freud-Einstein, 1932, 302).[2] E proviamo questo perché, come per l’«infiammabilità per la guerra», «non possiamo fare diversamente»: siamo «necessitati da ragioni organiche» (Freud-Einstein, 1932, 302). Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento o civilizzazione, la Kultur, le cui «cause e origini sono oscure, l’esito incerto […] e che forse porta all’estinzione del genere umano» (Freud-Einstein, 1932, 302). Questo processo, cui dobbiamo «il meglio di ciò che siamo diventati e buona parte dei nostri mali» (Freud-Einstein, 1932, 302), è paragonabile all’addomesticamento di certe specie animali e comporta modificazioni fisiche e psichiche: tra queste, uno spostamento progressivo delle mete pulsionali ed una restrizione dei moti pulsionali, il rafforzamento dell’intelletto e soprattutto l’interiorizzazione dell’aggressività.
Ebbene, «poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più […] si tratta di un’intolleranza costituzionale, di una idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche [anche qui un richiamo a modificazioni organiche, percettive e sensoriali] della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità» (Freud-Einstein, 1932, 303). Proprio su queste ragioni organiche legate alla nostra evoluzione civile può fondarsi la speranza «non utopistica» che si possa porre fine alle guerre in un prossimo avvenire. Nel frattempo, «possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra» (Freud-Einstein, 1932, 303).
Posto nuovamente di fronte alla guerra (non solo dalla chiamata in causa da parte di Einstein), Freud non può che riaffacciarvisi a partire dal punto cui era arrivato nella riflessione del Disagio nella civiltà, da quella valutazione e considerazione della materia umana e del «fattore molesto» che la caratterizza. Nel Disagio, muovendo dall’impotenza originaria del cucciolo d’uomo, dal narcisismo, dall’aggressività e distruttività che ne derivano per la necessità di allontanare ciò che causa dispiacere e dolore – il corpo, il mondo esterno e soprattutto le relazioni con gli altri –, Freud aveva sottolineato che l’ostilità nei confronti della civiltà nasce proprio perché impone al corpo infantile un «trattamento» che implica una limitazione e trasformazione della sessualità pulsionale prodotta proprio da quelle relazioni. Un trattamento indispensabile perché quella pulsionalità possa confluire nella civilizzazione e contribuire al legame fra gli individui più fortemente e stabilmente di quanto riescano a fare i meri interessi per così dire autoconservativi, drenandovi per l’appunto rilevanti quantità di libido.
Nel Disagio, attraverso i paradossi dell’interiorizzazione dell’aggressività, con la psicoanalisi Freud era approdato stupefatto ad alcune verità dolorose ma inaggirabili:
Il Disagio delineava una diagnosi non dell’adattamento umano ma di ciò che rende noi unfit, inadatti alla civiltà/cultura che pure ci è indispensabile per adattarci e che ci modifica organicamente, inadatti per via della «nostra cieca furia distruttiva» che si rivela «una funzione psichica intrattabile», nella misura in cui coincide con il sessuale che, con il linguaggio e intrecciato ad esso, caratterizza il nostro essere umani. «Possiamo, al meglio, … adattarci a ciò che ci rende incapaci di adattamento. Andare oltre … significherebbe curare noi stessi dall’essere umani» (Bersani, 2002, pp. XXI-XXII). Ma è proprio questo il Kulturarbeit, l’impossibile ma indispensabile lavoro culturale e di civiltà che Freud affida alla psicoanalisi, un compito infinito e precario, sempre da riprendere come il prosciugamento dello Zuiderzee, afferma in quelle stesse settimane del 1932: curarci della nostra umanità, di cui la guerra sembra essere un tragico «corollario». In fondo ci si può domandare se Freud, spingendo nella sua teoria la pulsione di morte appena introdotta su un piano biologico o metabiologico, lì dove ci sono solo istinti e forze fisiche, non finisca con il portare «il ferro e il fuoco» del sessuale nelle basi stesse della vita, proprio come, nel corpo del cucciolo d’uomo, è la sovversione generalizzata introdotta dalla sessualità a portare la guerra umana nella vita (Laplanche, 1970, 184).
In quei primi anni Trenta, l’interrogativo freudiano trova echi immediati, sviluppi e altrettanto radicali riaffermazioni.
Fin dal 1931 e sempre nell’ambito di alcune iniziative della Società delle Nazioni, Edward Glover (1933-1947), sottolineando il ruolo che nella guerra hanno impulsi sadici e masochistici e le difese inconsce contro di essi, sostiene più decisamente che le vere funzioni della guerra sono distruttive ed anzi quanto più giusti e realistici appaiono i motivi immediati della guerra, tanto più gli uomini se ne servono per negare l’evidenza delle motivazioni inconsce. Lo scopo della psicoanalisi sarebbe appunto svelare il carattere irrazionale e illusorio delle razionalizzazioni politico economiche. La guerra sarebbe un drammatico tentativo del gruppo di risolvere conflitti e angosce individuali interne, provocando una coincidenza dell’Es con il Super-Io, che cortocircuitano l’Io.
Nel 1934 e poi nel 1937 Money-Kyrle, ad una teoria sessuale della guerra, vista come un erompere delle fantasie sessuali, e ad una teoria edipica, in cui l’impulso bellicoso troverebbe la sua origine nell’ambivalenza verso il padre, aggiunge una teoria paranoica della guerra, secondo cui alla sua radice vi sarebbe una modalità psicotica di trattare difficoltà reali, in particolare angosce persecutorie inconsce che portano a identificare un gruppo estraneo con l’oggetto interno cattivo da attaccare per difendersene, e angosce depressive per aver attaccato e distrutto l’oggetto buono interno. Significativo che Money-Kyrle sottolinei come queste modalità possano insinuarsi – altro effetto distruttivo della guerra – anche in coloro che si trovano a doversi difendere dall’aggressione brutale e non provocata da parte di un gruppo o popolo nemico, rischiando di deformare il pensiero e compromettere l’azione sia per eccesso che per difetto, ad esempio spingendo a rinnegare il pericolo reale.
Come noto, queste riflessioni saranno riprese, in Italia, da Fornari, che ricondurrà il «fenomeno guerra» nell’ambito delle reazioni umane al lutto e in generale agli atteggiamenti umani di fronte alla morte, che trovano nella loro socializzazione una importante possibilità di controllo delle ansie depressive e persecutorie. Socializzazione in cui la condivisione stessa diventa il criterio di realtà e verità, una dimensione psicotica della vita dei gruppi intollerante di criteri di validazione differenti, donde lo slittamento: separato ® diverso ® estraneo ® straniero ® nemico. Se «l’“altro da sé»” si pone come minaccia-distruzione della propria verità, l’uccisione dell’“altro da sé” coincide con l’affermazione della propria verità» imprescindibile e della realtà di sé (Fornari, 1966, 136).
Di qui la definizione psicoanalitica della guerra proposta da Fornari: «un fatto criminoso fantasticato individualmente e consumato collettivamente allo scopo di salvare il proprio oggetto d’amore attraverso una modalità paranoidea» (Fornari, 1966, 167). Proprio offrendo la possibilità di una reazione paranoidea al lutto la guerra può arrivare a presentarsi addirittura come un’istituzione «ammirevole» – come già affermava Freud – ma ormai entrata in crisi e rivelatasi storicamente e definitivamente illusoria con i progressi tecnici mediante i quali, come scriveva Freud anche nel Disagio, gli «uomini hanno ormai raggiunto un tale dominio delle forze della natura che, con il loro aiuto, potrebbero facilmente sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo».
Di sicuro, se le riflessioni freudiane approdano ad un doloroso ed enigmatico interrogativo, vi è invece certezza sulle conseguenze traumatiche della guerra, messe in evidenza dalle pionieristiche ricerche psicoanalitiche sui traumi della prima guerra mondiale, poi su quelli altrettanto terribili e impensabili della seconda guerra mondiale e delle guerre e conflitti che si sono susseguiti in varie forme ed estensioni nei decenni scorsi, e infuriano oggi.
Fino a potersi legittimamente porre un altro interrogativo: anche considerando la latenza con cui se ne rilevano gli effetti – che travalicano più generazioni –, è possibile non ritrovare echi di guerre, lontani ma pulsanti, in tutte le vicende analitiche, specie nei momenti in cui queste più ci mettono alla prova? La follia delle guerre, che annienta vite umane anche traumaticamente spezzando legami e smantellando riferimenti relazionali, sociali e culturali, non affiora forse lì dove nel transfert si è alle prese con aree senza parole e senza Io o soggetto, dove irrompono frammenti irriconoscibili di storie espunte dalla Storia?
Alla maniera del Pantagruel di Rabelais che, navigando al confine col mar Glaciale, improvvisamente sente voci e suoni per aria senza poter vedere chi o cosa li emetta, e raccoglie parole ancora gelate che, scaldate fra le mani, potevano infine udirsi, benché incomprensibili perché «in lingua barbarica». «Parole assai piccanti, parole sanguinanti, parole orrifiche, e altre assai brutte a vedersi» (Rabelais, 1542, 664-667). In quei mari, testimonia il timoniere, si era svolta una grande e crudele battaglia, cosicché «gelarono in aria le parole e i gridi degli uomini e delle donne, l’urtar delle mazze, il risuonar degli arnesi, delle bardature, i nitriti dei cavalli, e ogni altro tumulto di battaglia. Adesso, passato il rigor dell’inverno, arrivando la serenità e temperie della bella stagione, tutti questi rumori fondono e vengon sentiti» (Rabelais, 1542, 664-667).
Occorre un’altra stagione e il calore di corpi umani per sgelare, col tempo in cui sono rapprese, parole, suoni, voci, affetti che la guerra ha raggelato.
Ne sono testimonianza le esperienze che ascolteremo dai nostri amici e colleghi.
NOTE
[1] Antropologi, archeologi, etnografi non concordano sulle origini della guerra. Secondo recenti studi, sembra che il più antico evento bellico documentato sia a Jebel Sahaba (necropoli sommersa, vecchia almeno di 13.000 anni e situata nel nord dell’attuale Sudan, vicino al confine con l’Egitto), dove nel tardo Pleistocene la valle del Nilo è stata il teatro di ripetuti scontri, probabilmente causati da dispute territoriali esacerbate dai cambiamenti climatici.
[2] Peraltro qui Freud prende incidentalmente posizione anche rispetto alle guerre difensive: “non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono Stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri Stati e altre nazioni, questi ultimi sono necessitati a prepararsi alla guerra” (Freud-Einstein, 1932, 302).
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