Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Maja Dobranić
(Sarajevo), Associate Membrer Croatian Psychoanalytical Society.
“… Se mi chiedi come sto,
Lo sapresti
Se ti hanno lanciato solo due bombe… ”
“Lettera a un amico”, canzone di Kemal Monteno
23 luglio 2022
In questo giorno del 1993, furono sparate su Sarajevo 3777 granate.
Nei colloqui con i pazienti che non hanno esperienza o conoscenza di psicoterapia, racconto loro una vecchia storia di sei ciechi e un elefante. La storia è molto antica e ha subìto numerose interpretazioni. È una parabola che descrive l’incontro di sei uomini ciechi con un elefante, entità che non avevano mai incontrato prima, per cui cercarono di capire a modo loro cosa l’elefante potesse essere.
Così, nell’unico modo loro possibile, toccarono l’elefante ciascuno dal proprio lato per comprenderlo al meglio. In questo modo uno dei ciechi raggiunse la zampa dell’animale e concluse che l’elefante era simile ad un solido tronco d’albero. Un altro toccò la zanna e concluse che l’elefante era simile ad una lancia. Il terzo toccò l’orecchio e concluse che l’elefante era una specie di ventaglio; il quarto prese la coda e concluse che l’elefante era proprio come una corda. Il quinto che mise la mano su un fianco dell’animale disse che l’elefante era come un muro, mentre quello che toccò la proboscide concluse che l’elefante era in realtà un serpente.
Nella storia della guerra, sono cieca e vengo schiacciata su un piano concreto. Guerra e trauma vanno di pari passo. Non è possibile parlare della guerra e non menzionare il trauma.
In terapia, i pazienti parlano del trauma e molto poco della guerra, anche se il trauma è solo una parte e una conseguenza della guerra.
Nel riunire dentro di me i pensieri per questo mio scritto, ho cercato di avere sempre in mente la guida offerta dagli analisti.
Alcuni analisti sono presenti: fisicamente e mentalmente. Sono empatici, capaci di fare l’holding, di creare le condizioni in cui ci si possa sentite al sicuro, in modo che si possa ricordare, provare dolore, parlare, associare liberamente. Insieme col paziente ci facciamo prendere dalle fantasticherie fino a poter poi mentalizzare.
Altri analisti sono molto importanti: quelli in cui il loro trauma rimane inconscio. Restano vicini al paziente attraverso il loro lato traumatizzato.
Ascoltando e osservando questi analisti, possiamo vedere più chiaramente noi stessi. Proiettano in noi le loro parti indesiderate, suscitano emozioni. Vogliono davvero “insegnarci”. La forza del desiderio dice quanto sia personale la questione.
Per proteggersi dicono di non essere interessati alla guerra e ai traumi come argomento, di non volerne parlare, di non volerne sentire parlare, eppure sono lì e vivono tutto intensamente a livello emotivo.
Ci dicono di stare in silenzio. Dicono che un terapeuta traumatizzato non può lavorare con un paziente traumatizzato se condividono lo stesso trauma. Ci dicono di stare in silenzio. Quando ascoltano quello che dite, dicono che non siete competenti con la vostra esperienza dell’evento traumatico e vi dicono di tacere. Con le loro emozioni, i loro atteggiamenti, i loro contenuti, l’inconscio, ci dicono di tacere.
Tutto ricorda il trauma perché il silenzio lo evoca.
E poi ci sono gli analisti che sono presenti con i loro libri, testi e teorie. Quando Kohut fa esempi della seconda guerra mondiale, illumina l’inconscio comune delle persone che vivono esperienze di guerra negli anni Quaranta in tutto il mondo, negli anni Novanta nell’area dell’ex Jugoslavia, negli anni Duemila in Ucraina.
Vignetta:
All’inizio della guerra in Ucraina, Emir assomigliava emotivamente a un bambino ingannato e deluso: “Tutti parlavano di un nuovo modo di fare la guerra usando i droni, un modo virtuale, senza sangue, e ora guardate questo. Come qui“. Emir è un grande appassionato di giochi. Aveva 3 anni all’inizio dell’aggressione contro la BiH. Il padre era assente perché era consigliere del presidente della Bosnia-Erzegovina in tempo di guerra e la madre era incinta della sorella minore.
All’età di tre anni si ritrovò nella Sarajevo assediata e crebbe all’interno del recinto nemico per ben 1425 giorni, senza acqua, senza elettricità, tra le rovine.
Penso che la sua fantasia iniziale fosse quella di mantenere la guerra a livello di gioco perché ne aveva bisogno per sentirsi al sicuro. Sognava che se si commetteva un errore, si poteva ricominciare, se si moriva, si poteva avere la possibilità di vivere di nuovo. Nelle sue associazioni si sente il bisogno di calore, di sicurezza, e si vedono molto chiaramente le speranze e le fantasie dei bambini.
È possibile? Ho pensato che senza sangue, carne e urla non è una guerra, è un gioco! La guerra è un ritorno al concreto, non c’è spazio per il virtuale. Le pulsioni crude e crudeli si scatenano senza alcun controllo dell’Io e del Super-Io. Guardo il suo commento con un ghigno, proprio come un bambino più grande guarda uno più piccolo
“Senza sangue, carne e urla non è una guerra, è un gioco!” – una frase che indica che sono soggettivo quando scrivo della guerra. Kohut (1971) mi corregge e dà una nuova angolazione al “cieco”; nel libro “Tra colpa e tragedia“, dice: L’aggressività umana è più pericolosa quando è in relazione con:
L’aggressività umana più raccapricciante non si trova sotto forma di comportamenti selvaggi, regressivi e primitivi, ma in attività ordinate e organizzate in cui la distruzione si mescola con la convinzione della grandezza e con la fedeltà a figure arcaiche onnipotenti.
È un fatto storico che, insieme a Hitler, Heinrich Himmler, Hermann Göring e Joseph Goebbels furono responsabili della morte di 60 milioni di persone. Il Terzo Reich era un’enorme macchina che distruggeva, diffondeva morte e miseria. Dall’idea alla realizzazione, ci sono voluti molta pianificazione, organizzazione, lavoro con profonda dedizione e disciplina. Credevano nell’idea della propria unicità e grandezza, per cui l’obiettivo elevato giustificava i mezzi.
Kohut (1971) avverte: “Come analisti, non dobbiamo banalizzare l’aggressività interpretandola come un ritorno agli istinti animali. Dobbiamo essere consapevoli dell’aggressività, cercare di frenarla e assumerci la responsabilità“.
COME UN CIECO VEDE LA CREAZIONE, LA NASCITA E LO SVILUPPO DELLA GUERRA
Nel corso del tempo, è sempre più chiaro che ogni nazione ha il suo trauma, personale, collettivo, transgenerazionale, indipendentemente dal fatto che sia l’aggressore o l’aggredito. Le nuove generazioni crescono con genitori traumatizzati. Kohut (1971) dice: “l’assenza dei padri a causa della guerra e il loro ritorno aggrava il loro complesso edipico. Questo aumenta la propensione a sperimentare l’ansia dovuta all’ansia delle madri durante l’assenza dei padri. Il loro Super-io è instabile, così come la loro identità. Il bambino conserva l’immagine del padre onnipotente perché non ha potuto incontrarlo veramente a causa della sua assenza. Con il ritorno del padre, il bambino non è più al comando. Il Sé grandioso si scinde e rimane non identificato fino a quando l’autostima non riceve nutrimento dalle profondità della personalità“.
La madre ambiente è rotta e debole, mentre dall’altra parte è divorante nella sua corruzione. Ci sono molti bambini i cui padri non sono mai tornati e il cui spirito di onnipotenza ed eroismo rimane con loro per tutta la vita, lasciando un segno profondo. Questi sono solo alcuni fattori psicologici che influenzano l’infanzia di un’intera generazione.
L’aggressione in Bosnia-Erzegovina ha lasciato un segno significativo nella vita di tutti i miei pazienti, direttamente o indirettamente.
Vignetta:
Lucija è nata a Srebrenica dopo l’attacco alla Bosnia-Erzegovina. Suo padre era nell’esercito serbo e suo zio è un condannato criminale di guerra. La sua migliore amica è nata in seguito a uno stupro di guerra.
Lucija: “Non mi chiedo se mio padre ha ucciso, ho paura che abbia anche violentato“.
Lucija è stata violentata in tre occasioni e ne ha preso coscienza in terapia solo dopo molti anni. Era emotivamente distante, ma a volte parlava di questi eventi di sfuggita. Nella mia testa c’erano le donne berlinesi violentate dagli Alleati dopo la seconda guerra mondiale.
Le ragazze berlinesi e Lucia hanno in comune un sentimento di drammatica riconciliazione con il destino, perché si assumono la responsabilità dei “loro padri”. Lavorare con Lucia mi ha avvicinato alla posizione dell’aggressore.
Sarebbe in grado di accettare la pena che mio figlio deve “scontare”? Come assumersi questa responsabilità? L’Io viene difeso a tutti i costi. Il Super-io ambientale attacca. Si è creato un circolo vizioso e la soluzione è quella di creare un mondo parallelo isolato in cui raccontiamo le nostre storie così tante volte che lentamente si trasformano in miti, e sulla base dei miti si possono facilmente muovere grandi gruppi per realizzare le idee degli ideologi.
Kohut (1971) dice: “Gli esecutori dell’ideologia sono molto spesso dei sé periferici e superficiali che raggiungono facilmente l’adattamento e una comoda coerenza. Immersi nel corpo della “nazione potente”, trovano sollievo perché la vergogna scompare e il gruppo fornisce una sensazione di forza straordinaria. Tutto questo si trasforma in un leader “onnipotente“. Le vecchie fantasie di onnipotenza diventano improvvisamente realtà”. Gli “esecutori dell’ideologia” sono in una posizione schizoide attiva e paranoica, e non mentalizzano.
All’inizio degli anni ’90, alcune repubbliche decisero di secedere dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. I serbi vissero questa decisione come la secessione di una parte disobbediente di un’entità estesa su cui pensavano di avere il diritto e il controllo. I serbi iniziarono a “difendere” la Jugoslavia, perché erano la nazione più popolosa all’interno della “madrepatria”. Si appropriarono dell’Esercito Popolare Jugoslavo, perché la Jugoslavia era loro, tutti gli altri vennero minacciati, e usarono l’esercito come arma di punizione.
Per decenni l’YNA era stato finanziato, formato e servito da tutti i popoli dell’ex Jugoslavia con l’obiettivo di difendersi dal nemico esterno, ma alla fine questi stessi fondi furono utilizzati per la loro distruzione, la distruzione delle “parti cattive”. Sopraffatti dalla rabbia narcisistica, mostrarono una mancanza di empatia.
Per attaccare, l’aggressore deve trovarsi in una posizione schizoide paranoica e quindi l’oggetto della distruzione diviene un oggetto impersonale. In guerra, la vittima viene disumanizzata per poter essere uccisa più facilmente. Invece di morire, la vittima scompare senza lasciare traccia. In una posizione schizoide paranoica, non ci si può assumere la responsabilità delle proprie emozioni perché il sé non esiste.
Una persona narcisisticamente ferita non riesce a calmarsi. Tutte le persone possedute dalla rabbia narcisistica mostrano una mancanza di empatia nei confronti dell’avversario.
ALCUNE QUESTIONI SULL’AGGRESSORE
Nel 1990 sono state disseppellite le ossa dell’imperatore Lazar, morto 600 anni prima durante la Battaglia del Kosovo del 1389 nella lotta contro i turchi.
Per il popolo serbo, la battaglia del Kosovo è un grande trauma collettivo che è stato trasformato in un mito. Entrando nell’enclave di Srebrenica, il generale Mladić, ora condannato come criminale di guerra, dichiarò: “Eccoci qui l’11 luglio 1995, nella serba Srebrenica, alla vigilia di un’altra festa serba, presentiamo questa città al popolo serbo, perché è finalmente arrivato il momento di ribellarsi ai Dahi, di vendicarsi dei turchi in questa parte del mondo“.
È così che inizia il genocidio. Le persone vengono disumanizzate, demonizzate. Sono “i turchi”, non i loro vicini musulmani. L’autorità conferisce agli assassini il ruolo di vendicatori.
Anche dalla parte dell’aggressore, non tutti sono uguali. Alcuni usavano tempo e risorse per realizzare i loro grandiosi piani, altri furono trasformati in risorse per realizzare i piani. Coloro che sono alla fine della catena e gli esecutori sono essi stessi beni sacrificabili, disumanizzati dai loro leader perché sono invisibili per loro, e i leader “realizzano piani”, “liberano territori”, “prendono posizioni”.
Non ci sono persone, solo piani e strategie. Negli esecutori dei piani si può notare una regressione più profonda in cui hanno perso completamente il loro io e per loro la vittima non muore, ma scompare perché una persona non può morire se non è viva. D’altra parte, non possono assumersi la responsabilità delle proprie emozioni e azioni, perché il sé non esiste.
E L’AGGREDITO?
Ho scelto consapevolmente la parola aggredito, non vittima.
La paura principale nella posizione depressiva è la perdita dell’oggetto. A differenza dell’aggressore, l’aggredito oscilla tra la posizione depressiva e quella schizo-paranoide. L’aggressività usata per scopi maturi è limitata e serve a sopravvivere. L’aggressività matura è sotto il controllo dell’Io e può essere controllata dall’Io, mentre non è così per la rabbia narcisistica.
Se il gruppo sarà socialmente distruttivo dipende non solo dal fatto che gli ideali dell’Io abbiano il dominio su un Sé grandioso, ma dipende anche che l’Io abbia il dominio su di loro.
Per chi è aggredito, il presente è difficile, ma il futuro è luminoso.
HO FALLITO: TUTTO FINISCE IN UN TRAUMA
In psichiatria, come branca della medicina, i medici non studiano le malattie ma i disturbi psichiatrici. Per definire qualcosa come malattia, dobbiamo conoscere l’eziologia, il quadro clinico e la terapia. Quando parliamo di disturbi psichiatrici, abbiamo l’ICD (International Classification of Diseases), che raggruppa gruppi di sintomi in disturbi. L’eziologia è per lo più sconosciuta e la terapia è sintomatica.
Il trauma è la prima malattia psichiatrica? L’eziologia è complessa, c’è molto di individuale, ma anche qualcosa di comune: l’esistenza di un evento traumatico. Il quadro clinico è chiaramente descritto: sogni da incubo, bozzolo nel tempo, senso di vergogna e incompetenza dovuto all’esperienza personale del danno…
TERAPIA: PARLARE DEL TRAUMA
in un ambiente protetto dove il terapeuta facilita la mentalizzazione. Quando si parla di un trauma, gli occhi bruciano, la gola brucia e fa male e la testa si annebbia. La lingua spezza le parole con difficoltà e lo stomaco si stringe. L’intero corpo e la psiche sono malati a causa di un trauma che lotta per la sua sopravvivenza, proprio come un tumore maligno, costringendoci a tacere?
Il trauma è un’esperienza difficile, ma esiste una vita senza trauma? Dovremmo smettere di fantasticare su una vita senza trauma, smettere di ignorarlo e iniziare ad accettarlo?
Attraverso la mentalizzazione, iniziamo a capire che il trauma ci ha reso come siamo e che non ci rende necessariamente peggiori o cattivi. Attraverso il trauma transgenerazionale si trasmettono sia la conoscenza che la riparazione, e la frustrazione ottimale è necessaria per lo sviluppo delle abilità.
Il momento chiave è il tempo che passa senza nuovi traumi, perché l’esperienza dimostra che solo la terza generazione può risolvere positivamente il trauma, quando gli attori attivi muoiono e la lealtà viene meno.
Nella ex Jugoslavia, le guerre non sono finite, hanno solo cambiato forma, ma bisogna combattere attraverso la parola e la mentalizzazione e sperare in una vera “vittoria”.
[Traduzione di Alessandra Furin e Anna Cordioli]
Bibliografia
A.A. V.V. (2000). International Classification of Diseases ICD 10, OMS-WHO.
Klain E. (2009). Stručni skup iz grupne analize Tuzla; Šutnja kao fenomen
Kohut H. (1971). Psihoanaliza između krivice i tragizma (The Searching for the Self; Selected Writings of H. Kohut 1950-1978 (Vol I, II) (1999); Selected Writings of H. Kohut 1978-1981 (Vol III, IV), International Universities Press, Inc, 1978, 1990, 1991)
Winnicott, D. W. (1971). Playing and Reality. London: Tavistock.
Yordanova K. (2014). IJP Open, (1)(20):1-15 Contemporary War and its Symbolic Representation
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