Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Igor Romanov
(Kharkiv), Membro con funzione di training e Direttore dell’istituto di training della Società Ucraina di Psicoanalisi (Study Group IPA).
In questo articolo vorrei concentrarmi sul tema dell’esperienza della guerra in corso in Ucraina e dell’impatto su entrambi i partecipanti al processo analitico o psicoterapeutico, che proseguono a lavorare in queste circostanze estreme. Più specificamente, mi interessano due domande.
Primo: in che misura la psicoanalisi o, diciamo, la consapevolezza psicoanalitica amplia le possibilità di aiutare persone che hanno subito un’esperienza di guerra estremamente traumatica: ferite, bombardamenti, perdita della casa o dei parenti? E, prima ancora, può portare ad una maggiore comprensione dell’impatto della uerra sull’intera società?
Secondo: in che misura e in che modo la vita mentale “normale”, con i suoi conflitti, le sue ansie e le sue strategie difensive, continua in condizioni di guerra, e quindi c’è posto per un lavoro psicoanalitico “normale”? In che misura la stanza di consultazione dello psicoanalista si trasforma in un rifugio dalle minacce esterne (Steiner,1993) o in una sorta di “enclave” (O’Shaughnessy 1992), e in che misura, al contrario, è un rifugio per la vita mentale in corso – sogni, sentimenti, fantasie o relazioni interne agite nel transfert? La vita mentale, che, come ha sottolineato Freud, non si ferma nemmeno nel sogno e che, come hanno accennato Klein e Bion, esiste prima della nostra nascita (Freud, 1900; Klein, 1957; Bion, 1977; Waddell, 2002).
Osservare le reazioni alla guerra
Mi baserò sulla mia esperienza personale di analisi e terapia, nonché sull’esperienza delle supervisioni e dei gruppi clinici con i colleghi. Una fonte importante per le mie riflessioni è stato anche lo studio dell’influenza delle precedenti grandi guerre sugli psicoanalisti e sulle loro teorie. Cercherò di descrivere come stiamo cercando di utilizzare questa esperienza in nuove circostanze. Ma inizierò con alcune impressioni personali e con una descrizione dello stato attuale della Società Psicoanalitica Ucraina.
Durante una riunione del gruppo clinico diretto da un analista straniero, un collega ucraino riferisce un caso. Si tratta di una paziente che si adatta a richieste reali e immaginarie, criticando i suoi oggetti per la pressione traumatica su di lei, ma anche cercando segretamente di controllare tutti dalla posizione di vittima: “Se rifiutate di essere ciò che voglio che siate, vi trasformerete in aggressori.”. Questa situazione è chiaramente agita nel transfert a causa di un’interruzione della terapia, e tra le altre “disgrazie” la paziente cita la guerra che l’ha costretta a trasferirsi in un altro Paese. Durante la discussione, diventa abbastanza evidente al gruppo, al supervisore e al conduttore che la guerra per questa paziente è in realtà solo uno degli eventi di una lunga serie di problemi (insieme alla rottura o al silenzio dell’analista, alla dura educazione ricevuta dai genitori, ecc.) Si tratta di problemi che, secondo la convinzione inconscia della paziente, lei potrebbe prevenire o risolvere con la sua obbedienza o il suo controllo onnipotente su oggetti onnipotenti. In altre parole, la guerra non rappresentava per lei un evento “traumatico” particolare, ma (come nel caso di Richard nella famosa analisi della Klein) rappresentava gli oggetti e i conflitti del suo mondo interno.
Tuttavia, da questo seminario è emerso un altro fatto sorprendente. La sessione successiva alla discussione clinica è stata dedicata a una discussione generale sul lavoro dei colleghi ucraini nella situazione attuale. E non c’era altro argomento che la guerra. Interrompendosi a vicenda, i colleghi hanno raccontato storie terribili – e piuttosto realistiche – dei disastri, storie di pazienti gravemente traumatizzati, sentimenti condivisi di paura, rabbia e impotenza. Hanno anche condiviso strategie per lavorare e superare con successo queste situazioni.
Come si può comprendere questo strano contrasto tra la discussione clinica e quella generale? È avvenuta una scissione per cui l’esperienza traumatica della guerra non è emersa nelle sedute con il paziente e nella discussione clinica, ma è stata scissa tra l’analista e il gruppo ed è stata messa in atto nella discussione generale? Oppure la guerra è stata un’occasione di competizione specifica intorno al “fallo letico” (Schmidt-Hellerau, 2008)[1]? Oppure c’era una terza o quarta ragione?
Nei mesi estivi ho visitato molte città dell’Ucraina e alcuni luoghi molto diversi tra loro. Ho incontrato colleghi, pazienti, psicologi volontari, medici, studenti, migranti e semplici abitanti di diverse città. Una delle cose che mi ha colpito di più è stata la diversità con cui la guerra viene vissuta nei diversi luoghi. In alcuni momenti mi è sembrato che, avendo percorso appena cento chilometri, non mi stessi muovendo tra città e nemmeno tra Paesi, ma tra universi diversi.
In una delle discussioni recenti politiche è stato detto affermato che la Russia e l’Ucraina stanno combattendo due guerre diverse: L’Ucraina è impegnata in una guerra patriottica e di liberazione, mentre la Russia ne combatte una religiosa, contro gli eretici. Mi è sembrato che per diversi ucraini, in diverse parti del Paese, ci siano anche guerre abbastanza diverse (naturalmente non in modo così radicale).
In alcune zone non c’è stato nemmeno un bombardamento o una distruzione, ma la gente sente la guerra in modo molto acuto – come propria, ma allo stesso tempo come qualcosa di lontano. Aiutano i rifugiati, l’esercito, fanno volontariato, sono patriottici. Tuttavia, la guerra è lontana, sta accadendo ad altri e non impedisce loro di condurre una vita normale: aprire ristoranti, pensare a nuovi progetti lavorativi, ecc.
In altri luoghi la guerra c’è stata, ha lasciato tracce fisiche e mentali, ma ora c’è la pace e sono riprese tutte le attività: concerti, ingorghi, progetti… Allo stesso tempo, poiché le ferite fanno ancora male, sia le persone che le città sono pronte a stare in guardia e a proteggere il loro territorio in qualsiasi momento – a volte per motivi molto reali, a volte per motivi immaginari.
Nella mia città natale, Charkiv, ho incontrato l’atmosfera più deprimente. Non c’erano gli orrori di Mariupol o Bucha (anche se si sentiva parlare di cose che accadevano non lontano dalla città), tuttavia la città è caduta in uno stato depressivo. I bombardamenti continui e quotidiani, anche se di intensità ridotta, la mancanza di una fine visibile della guerra, l’esaurimento emotivo: tutto questo crea la sensazione di trovarsi in un reparto per pazienti affetti da depressione grave. Visi dimessi, amimici, voci inespressive, che corrispondono all’argomento della conversazione con rabbia che esplode periodicamente… Allo stesso tempo, a poco più di un’ora da lì si può vedere una città in festa, con concerti sui tetti, giovani spensierati sdraiati sull’erba, bambini che passeggiano e non prestano attenzione ai suoni degli avvisi di raid aerei[2]. Credo che a questo elenco di descrizioni manchi forse la cosa più importante: la situazione sul campo di battaglia. Ma allora solo le persone di lì dovrebbero parlarne.
A mio avviso, questa mappa emotiva dell’Ucraina può essere presentata anche come una mappa della mente con i luoghi delle possibili reazioni psicologiche alla guerra. La guerra attuale è diversa dalle grandi guerre del passato, la prima e la seconda guerra mondiale. Questa guerra non è totale, coinvolge un numero limitato di persone, risorse e territori (naturalmente questo è per ora, e, naturalmente, per l’Ucraina e molte delle sue regioni la guerra è catastrofica). Inoltre, questa guerra si svolge in un mondo globalizzato, con reti di comunicazione, informazione e disinformazione, ben sviluppate, con la possibilità di spostamenti rapidi e molti altri progressi tecnologici. Tutto ciò influisce sia sull’esperienza della guerra sia sul lavoro psicoanalitico e psicoterapeutico.
Circa la società Ucraina di Psicoanalisi, circa la metà dei membri è emigrata dal Paese, molti si sono trasferiti in altre regioni e solo una piccola parte può rimanere nella propria città. Una percentuale ancora maggiore di rifugiati e sfollati è presente tra i nostri candidati. L’UPS è un gruppo di studio IPA, abbiamo 16 membri, tra cui 6 analisti di training, e 28 candidati. Il processo di sviluppo negli ultimi anni è stato piuttosto rapido (Mirza, Romanov, 2022). La guerra lo ha interrotto, tuttavia siamo riusciti a ripristinare sia il lavoro che il training.
Il precedente periodo di lavoro durante la pandemia di Covid-19 ci aveva insegnato a utilizzare strumenti per il lavoro online, e oggi solo pochi possono permettersi di lavorare in studio. La maggior parte di noi svolge attività di terapia, supervisione, seminari, analisi e formazione online. Inoltre, quasi tutti siamo coinvolti in varie forme di volontariato: con le vittime di guerra, con gli psicologi del primo soccorso, con i militari, con gli sfollati interni, con i rifugiati, ecc.
Uno stimolo importante per le riflessioni mie e dei miei colleghi è stato lo studio dell’esperienza degli psicoanalisti britannici durante la seconda guerra mondiale e dopo di essa (vedi Frank, 2020; Milton, 2018; King, 1989; Bion, 1940; Jones, 1941; Money-Kyrle, 1941; 1951; Dics, 1973).
Ci sono molte cose che mi sorprendono in questa storia. Innanzitutto la partecipazione attiva degli psicoanalisti alla discussione e alla soluzione dei problemi sociali urgenti del periodo bellico e postbellico, lasciando i loro studi, ma non il loro impegno nella psicoanalisi. A mio parere, il contributo degli psicoanalisti e degli scienziati di altri settori con conoscenze psicoanalitiche alla discussione sulle cause della guerra, sui mezzi per raggiungere la pace, sul funzionamento della propaganda e della crudeltà è sottovalutato e necessita di ulteriori riflessioni e integrazioni negli studi sociali. I lavori di H. Dics, R. Money-Kyrle, E. Glover in Gran Bretagna, E. Kris in Inghilterra e negli USA (Kris, Speier, 1944; Leites, Kris, 1947), N. Leites negli USA (Leites, 1977), F. Fornari in Italia (Fornari, 1974), A. and M. Mitscherlichs in Germania (1975), T. Adorno nehli USA e in Germania (Adorno, 1951), e molti altri contengono importanti intuizioni e, secondo molte testimonianze, hanno dato un contributo significativo alla creazione del mondo postbellico e all’elaborazione dei traumi storici (, 2013; Adorno, 1959).
D’altra parte, vale la pena di osservare più da vicino l’influenza della realtà esterna del tempo di guerra sul destino della psicoanalisi stessa, sui suoi modelli teorici, sui conflitti di gruppo e sulle decisioni istituzionali, spesso sottovalutati (King & Steiner, 1991). Senza un’adeguata riflessione, tale influenza può portare – e di fatto ha portato – a gravi errori nell’applicazione dei concetti psicoanalitici alla descrizione e alla spiegazione dei processi sociali (Pick, 2012). .
Inoltre, anche considerando le potenziali insidie dell’abuso della metodologia psicoanalitica, non può non colpire la devozione alla psicoanalisi delle precedenti generazioni di analisti. La corrispondenza di M. Klein, in cui propone il concetto di “Munich Complex” per spiegare la passività di fronte alla distruttività onnipotente proiettata sulla figura del padre/Hitler, e la sua idea di “Hitler interno”, i ragionamenti di Jones sul fenomeno del “quislingism”, le riflessioni di W. Bion sulla necessità di misure sociali per distinguere tra ansie inconsce e pericoli reali, le idee di N. Leites e E. Kris sugli sforzi della propaganda per assoggettare l’individuo al gruppo e alle sue varie forme: tutte queste intuizioni sembrano incredibilmente attuali.
Membri dell’UPS: sull’impatto della guerra sul lavoro di uno psicoanalista
Ispirandomi all’esperienza dei miei predecessori, ho invitato i membri e i candidati dell’UPS a rispondere ad alcune domande relative all’impatto della guerra su loro stessi, sui loro pazienti e sul lavoro con loro (vedi Appendice). La maggior parte di coloro che hanno accettato di rispondere alle domande ha parlato dell’impatto catastrofico dell’esperienza bellica sui partecipanti e su tutte le componenti del processo analitico o terapeutico. Di seguito sono riportati alcuni esempi.
La domanda sugli esempi di temi militari nel lavoro analitico o terapeutico
“La paziente parla dei genitori di una sua amica, che vivono a Mariupol, con i quali non c’è stato alcun contatto per diverse settimane. In seguito, si è scoperto che la madre è uscita in strada ed è stata fatta saltare in aria da una mina, il padre ha raccolto parti del suo corpo e ha cercato un posto per seppellirla. Questa amica non è mai riuscita a far evacuare il padre dalla zona di occupazione. La storia è correlata alla condizione della paziente, al suo senso di caos, all’incapacità di ricomporsi. Si sente come se stesse ‘cadendo a pezzi’”.
La domanda sui sogni causati dalla guerra
“Ho sognato che io e mio marito eravamo a casa, nel nostro appartamento. Stavo preparando le mie cose e all’improvviso abbiamo sentito un’esplosione. Il nostro figlio più piccolo, grazie a Dio, non era con noi. Ci siamo bloccati e siamo caduti sul pavimento, provando una sensazione di paura muta”. Ancora questa parola: “muta”. E poi, poi mi alzo e vado a vedere cosa è successo. Vedo che non c’è la cucina, non c’è il soggiorno, ma vedo il cielo. E nel sogno penso: ‘Uff! Meno male che sono riuscito a raccogliere le nostre cose’”. Anche in sogno mi comporto così. Anche se mi spaventa pensare che ora non abbiamo più nulla”.
(Lo stesso paziente): “Ho sognato che io e mia madre andavamo ad un lago. Stavamo andando a nuotare. Ma abbiamo visto tante macchine affondate, erano tutte in questo lago. Mia madre ha deciso di prendere qualcosa di valore da queste auto. Lei è così. Poi prende qualcosa, la prende e vediamo delle anime che volano fuori da queste macchine e cercano di trascinarmi nel lago. Grido alla mamma: “Perché hai bisogno di tutta questa roba?”. Ma lei non si fermava. A volte riesco a svegliarmi in un sogno. Questa volta ho provato più volte, ma il sogno continuava. Ho provato paura, orrore muto… Di nuovo muto…”.
La domanda sull’influenza dell’esperienza di guerra sul transfert
“I soldati erano nel seminterrato, gli venivano lanciate granate, c’era un incendio, stavano soffocando, erano feriti, i russi li aspettavano al piano di sopra. Avevano già detto addio alle loro vite. Tuttavia, due giorni dopo, i russi furono costretti a ritirarsi e i soldati ucraini poterono uscire dal seminterrato. Hanno smesso di fidarsi dei loro comandanti di vario livello perché li avevano messi in questa situazione. In ospedale, durante le consultazioni, quando si passava a raccontare di sé, della propria vita e delle proprie relazioni prima della guerra, sentivo un atteggiamento negativo nei miei confronti: “Non ne parlerò, non so come userete queste informazioni contro di me…”. Ho già avuto una così brutta esperienza”.
La questione dell’intrusione della realtà esterna della guerra nel lavoro analitico
“Durante la seduta abbiamo sentito un allarme aereo, la paziente ucraina dice: “Allarme!”. Mi sento in ansia per la sua vita. Le dico: “Forse ora è pericoloso, forse è meglio andare al rifugio”. La paziente risponde: “Prima di raggiungere il rifugio l’allarme finirà”. La seduta continua. Ho provato sentimenti difficili, pensando che continuando la seduta stavo mantenendo il diniego del pericolo, ma mandare forzatamente la paziente al rifugio mi avrebbe trasformato in un genitore severo. Secondo esempio: una seduta è stata saltata perché il paziente si trovava in un rifugio antiatomico durante la seduta. La seduta persa è stata pagata. Ma come terapeuta, avevo dei dubbi sul fatto che fosse giusto accettare il pagamento in questo caso”.
La maggior parte dei colleghi ha anche riferito la difficoltà della relazione di transfert/controtransfert in situazioni in cui il paziente e l’analista si trovano in luoghi diversi, a volte in Paesi diversi, e uno dei due potrebbe potenzialmente trovarsi in una situazione più pericolosa. I sensi di colpa, il tradimento, i corrispondenti atteggiamenti di sincera preoccupazione o di falsa sintonia, l’evitamento di argomenti delicati, ecc. sono reazioni abbastanza prevedibili.
La maggioranza ha indicato che solo un piccolo numero di pazienti non ha menzionato o ha menzionato appena la guerra. È stato notato che molto meno spesso i pazienti hanno iniziato a portare i sogni nelle sedute. Tuttavia, quando è stato chiesto ai colleghi se potevano ricordare esempi di miglioramento delle condizioni dei pazienti con lo scoppio delle ostilità, quasi tutti sono stati in grado di citare tali esempi.
Non attribuisco a questa indagine un grande significato come studio scientifico credibile. Piuttosto, può essere considerata una raccolta preliminare di impressioni. Come ogni indagine di questo tipo, impone in qualche modo agli intervistati una certa corrente di pensiero– guerra, esperienze traumatiche, ecc. Mi sembra interessante confrontare i dati di questo sondaggio con l’esperienza analitica, mia e dei colleghi, nella quale, a mio avviso, la realtà appare un po’ più complicata.
Esempi di lavoro analitico in tempo di guerra
Esempio clinico 1: А.
La paziente A., una giovane donna di 30 anni, ha iniziato la sua analisi a causa di difficoltà nelle relazioni con gli uomini e di insicurezza. Gran parte del nostro lavoro analitico riguardava in questo periodo era concentrato sul suo attaccamento a una relazione sado-masochistica piuttosto perversa con un partner – sia dal punto di vista sessuale che psicologico – che riproduceva in gran parte la percezione delle relazioni dei suoi genitori, nonché le sue stesse esperienze infantili in un’atmosfera di privazione e abuso psicologico.
Nell’aprile del 2022 lavoravamo online e ci trovavamo in città diverse. Nella prima seduta, dopo una settimana di pausa, A. parlava in un modo che mi faceva sentire distaccato, incapace di entrare in contatto con le sue emozioni. Anche se parlava di eventi piuttosto drammatici: i suoi genitori erano sotto occupazione, la città in cui viveva veniva periodicamente bombardata, aveva sviluppato un’ansia paranoica per il tremolio dei lampioni fuori dalla finestra, che considerava segnali di artiglieri, ecc. A un certo punto, riferì di aver sentito tremare il pavimento e di aver temuto che fossero iniziati i bombardamenti. In quel momento ho avuto paura per lei e le ho chiesto se dovevamo fermarci e se poteva trovare un posto sicuro per sé. Allo stesso tempo, ho sentito i rumori delle riparazioni dietro il muro del mio ufficio e mi sono chiesto se avessero potuto influenzare la paziente. Lei mi rispose che non aveva sentito nessun allarme aereo e che il pericolo era improbabile – si sentiva distaccata. Forse le sembrava solo che ci fosse una situazione di pericolo… Questo mi ha dato l’opportunità di attirare la sua attenzione su questa sensazione: da cosa era distaccata e come immaginava la cosa di cui aveva paura?
In risposta, A. ha parlato della sua paura di confondere la realtà con la fantasia. Se sente il pavimento tremare quando non sta succedendo, può accadere anche il contrario: non si accorgerà del pericolo reale quando arriverà. A. quel punto, ho pensato che fosse riuscita a convincermi della realtà del pericolo – lo scuotimento del pavimento – tanto che non sapevo nemmeno con certezza se stesse accadendo nel mio ufficio o se provenisse dalla sua stanza. Ho detto che era importante che mi trasmettesse il senso della realtà della catastrofe che le stava accadendo.
In seguito, A. ha ricordato i racconti della nonna sulla deportazione durante la seconda guerra mondiale. Sua nonna ha detto di essersi sentita paralizzata. Gli invasori russi ora si comportano peggio dei tedeschi… E disse anche che non aveva paura della morte, ma di perdere un braccio o una gamba – di essere paralizzata, indifesa di fronte al potere degli estranei, il che ricordava molto i racconti di sua nonna. Poi è passata al tema della lingua: i suoi genitori parlano “surzhik”, un misto di russo e ucraino, ma lei era molto orgogliosa del suo russo corretto. Ora si sentiva incerta se questa fosse davvero la sua lingua o quella dei suoi nemici? C’era un po’ di confusione. L’ho interpretata dicendo che A. provava molta paura e vergogna per la storia della sua famiglia e del suo Paese. Ma appartiene a lei e non è pronta a cederla a nessuno. Ho notato che A. ha provato un grande sollievo.
Alla seduta successiva, A. ha condiviso un sogno. In esso, camminava con la nonna in una foresta tra alti pini. Era un’insegnante di scuola. Poi si fermò un’auto rossa che le portò a una festa. A. si rotolò sull’erba e i suoi vestiti cambiarono colore. Nel sogno c’era un’atmosfera di divertimento con ristoranti e vino. Ha fornito sempre più dettagli e spiegazioni. Ho richiamato la sua attenzione sull’atmosfera sessuale del sogno. All’inizio era sorpresa, poi ha condiviso una fantasia sul sesso con diversi uomini e coppie. In seguito, ha ricordato un altro sogno: sull’occupazione russa o tedesca, e su come aveva sedotto la guardia per ottenere cibo e conquistarla.
La discussione su questi sogni ha portato a parlare delle inibizioni sessuali di A., della sua avversione a molestare gli uomini (“baci bavosi”) e del comportamento abusivo del padre durante la sua infanzia.
Commenti.
Questo breve pezzo di materiale clinico può essere visto da diverse prospettive. Si può vedere l’attualizzazione di un’esperienza traumatica transgenerazionale in una situazione di minaccia reale. Si può pensare all’influenza della storia personale sulla percezione degli eventi attuali (Romanov, 2021). Credo sia interessante anche riflettere sulla possibilità e sulla difficoltà di trasmettere un’esperienza drammatica in una situazione di lavoro online. Dal punto di vista del transfert, ciò che colpisce è il passaggio graduale dal distacco a una sorta di “infezione” (penso attraverso una massiccia identificazione proiettiva), poi alla percezione degli interventi dell’analista in modo maniacale e sessualizzato, quindi a una sensazione di intrusione e abuso. Nel contesto di questo articolo, però, mi interessa la questione dell’influenza reciproca della realtà traumatica esterna – la minaccia dei bombardamenti, l’occupazione – e della realtà interna, derivata sia dall’esperienza storica e preistorica della paziente, sia dall’attività delle sue pulsioni, ansie, difese e fantasie. Mi ha particolarmente colpito la sua consapevolezza della minaccia di confusione tra l’uno e l’altro – la follia, appunto – e anche la rapidità con cui, dopo aver “sbrogliato”, A. si è mossa verso l’esplorazione della sua storia e della sua sessualità. Ci si può chiedere se le minacce esterne non siano passate in secondo piano per entrambi troppo rapidamente, cioè maniacalmente. Ma avevo la forte convinzione che i problemi della vita sessuale, così come una storia personale piuttosto traumatica, in questa fase del lavoro fossero effettivamente qualcosa di più significativo nella vita di A. rispetto alla guerra fuori dalla finestra.
Esempio clinico 2: B.
La paziente B., di circa 50 anni, proviene dalla città ucraina in cui vivo anch’io, ma per molti anni ha vissuto tra questa e una vicina città russa. I suoi affari e la sua famiglia erano sparsi nelle due città e nei due Paesi, ma le sue radici, i suoi ricordi e i suoi amici d’infanzia sono legati all’Ucraina. Ha percepito la guerra come una catastrofe, ha cercato timidamente di esprimere la sua indignazione per la guerra nel suo ambiente russo (è rimasta in Russia e non ha più potuto entrare in Ucraina), ha aiutato i rifugiati e i parenti ucraini. Tuttavia, dopo un po’ di tempo, il nostro lavoro è tornato alla normalità e B. ha iniziato a parlare soprattutto delle sue relazioni con gli uomini. Dopo il divorzio dal marito, non è riuscita a trovare una nuova relazione per molto tempo, e alla fine ha trovato un uomo con cui non si sentiva né masochisticamente sottomessa né arrogante. Lui aveva autorità nei suoi confronti per via della sua posizione, ma la cosa che li ha uniti in modo particolare è stato il loro comune atteggiamento nei confronti della guerra.
Per un po’ di tempo, la discussione di queste relazioni, delle speranze, delle paure e delle delusioni di B. occupò l’intero spazio dell’analisi. Uno dei problemi era la rabbia di B. per le restrizioni sessuali religiose del suo partner. Discuteva con me di queste relazioni più e più volte, a volte ero completamente immerso nelle loro complessità, nella connessione della sua scelta con il transfert del padre, nella storia personale, ecc. La guerra che infuriava intorno, che riguardava me, i suoi parenti e la nostra città natale, sembrava sempre più lontana. Periodicamente “riemergevo” da queste discussioni, e non potevo fare a meno di chiedermi se il suo ostinato evitare e negare argomenti riferito alla guerra e alla sua rilevanza, così come negava che l’intera storia d’amore fosse costruiti come una ritirata [ritiro] psichica.
Se parlarne le avrebbe fatto tornare in mente le sue vere preoccupazioni o se erano i miei stessi pensieri sulla guerra a tormentarmi? Un giorno, B. ha accennato casualmente alle esplosioni nella sua città ed è passata rapidamente all’argomento dei tabù sessuali legati alla sua infanzia, ecc. Questo mi ha dato l’opportunità di richiamare la sua attenzione sul suo rapido evitamento dell’argomento guerra. In risposta, B. ha improvvisamente ricordato una dei ricordi più deprimente della sua infanzia: il villaggio di sua nonna (la madre della madre), che non sorrideva mai e guardava spesso la foto del figlioletto che era saltato in aria calpestando una mina rimasta dopo la seconda guerra mondiale… A questo punto, la sua storia d’amore cominciò ad assomigliare all’atteggiamento dei bambini rannicchiati sotto le esplosioni delle bombe. Ricorda che il suo amante le inviò una foto di soldati di Mariupol di notte – non bambini, ma uomini feriti. Lui piangeva e questo l’aveva scioccata. Ho pensato che questo fosse ciò di cui aveva paura quando parlava della guerra con me: avremmo pianto insieme, completamente impotenti. In effetti avevo le lacrime agli occhi, ma i miei sentimenti non erano insopportabili. Spero che la nostra interazione in quel momento sia stata migliore rispetto all’irrigidimento del contatto della paziente con la nonna – e, come sapevamo, con la madre – e credo che sia per questo che alla fine della seduta mi disse con particolare sincerità: “Grazie!”.
Pensavo che B. fosse davvero grata per quella seduta. Ma iniziò quella successiva (dopo il fine settimana) accusandomi di aver ignorato il tema dei problemi sessuali con il suo uomo e il loro legame con i divieti di sua madre. Avevo una chiara percezione della connessione tra questi temi, e che era la nonna/madre, con la faccia morta e depressa, l’autorità che proibiva l’amore. Forse sono diventato lo stesso divieto riportandola al tema della guerra. D’altra parte, B. ha ricordato la masturbazione infantile, che mi è sembrata un esempio di fuga dalla depressione verso la sessualizzazione. In seguito alla discussione di questi argomenti, ha iniziato a parlare della paura che il suo partner invecchi e che la loro storia d’amore si trasformi nella cura di un vecchio malato.
Commenti
In un certo senso, questo esempio mi sembra l’opposto del precedente. L’immersione nelle relazioni romantiche e la loro discussione – il “romanticismo familiare” nel transfert si è rivelato una difesa contro i sentimenti depressivi e le ansie depressive associate alla guerra. Tuttavia, come nel primo esempio, l’approfondimento di queste esperienze ha mostrato quanto l’attuale situazione catastrofica, che distrugge molte delle sue relazioni personali, i suoi affari e i suoi parenti, riecheggi la sua storia di interazione con una madre/nonna depressa e gli schemi stabili delle relazioni oggettuali interne agite nel transfert: “Non hai diritto alla tua vita, non devi turbare tua madre”, ecc.
In generale, la personalità di B sembra più depressiva: i suoi sogni tipici erano spesso incentrati su case distrutte, cimiteri e persone perdute. Allo stesso tempo, la sua vita sembrava una serie di tentativi di affrontare la depressione, sua e delle persone che la circondavano, in molti modi diversi e talvolta con successo. Naturalmente, la guerra ha attualizzato le sue ansie depressive più profonde e l’illusione edipica nella sua funzione di ritiro e pseudo-riparazione. Suppongo che per un certo periodo io abbia colluso con questa fantasia velleitaria e che, una volta separatasi da essa, la paziente abbia affrontato i suoi oggetti interni profondamente distrutti. La crudeltà e il senso di colpa si sono rapidamente trasformati, attribuiti sia alla paziente che a me, ai suoi oggetti esterni e interni.
Esempio clinico 3: C.
Il paziente C è nato nella parte orientale dell’Ucraina e ha perso la madre all’età di 4 anni. Secondo le sue parole, questa perdita ha provocato una “reazione matura”, che avrebbe poi manifestato come risposta in tutte le difficoltà della vita. Negli anni della scuola, C ha sofferto di asma bronchiale, che è riuscito a superare con l’aiuto di uno speciale allenamento respiratorio. Da allora controlla la sua respirazione “correggendola”. In psicoterapia C si presenta come un paziente molto “compiacente”; segue le regole, fornisce il materiale, riflette sulle interpretazioni, ma allo stesso tempo provoca nel terapeuta una sorta di paralisi della relazione. Con l’inizio della guerra questa costellazione è cambiata, il paziente ha iniziato a esprimere il suo malcontento nei confronti della terapeuta, anche se in un contesto del tutto inaspettato.
Così, in una delle sedute, C ha iniziato a rimproverare la terapeuta di “eccessiva tolleranza”. Si trattava della scelta della lingua (tra russo e ucraino) fatta dal terapeuta. C parlava nella sua lingua madre, il russo, mentre esprimeva l’opinione che sarebbe stato più appropriato per il terapeuta e per tutti coloro che lo circondavano imporre a lui e ad altre persone di parlare l’ucraino. Si sforzava personalmente di parlare ucraino nei luoghi pubblici, ma i suoi sforzi erano apparentemente insufficienti. Alcune “persone orribili” non volevano seguirlo e rispondere in ucraino.
La terapeuta era in difficoltà di fronte alle accuse del paziente e alla loro natura confusa: “Voglio costringerla a costringermi…”. La terapeuta aveva ripetuto più volte di essere pronta a dialogare con il paziente in qualsiasi lingua si trovasse a suo agio, sottolineando anche che l’ucraino è sempre più diffuso.
Questo non solo non aveva rassicurato il paziente, ma, a quanto pare, lo aveva deluso ancora di più. Disse: “Un ambiente in cui si parla ucraino è importante per me, mi renderebbe le cose più facili. Mi sembra che tutto rimarrà così com’è” (Inizia a piangere amaramente).
“L (la città natale di C) è sempre stata una città russofona. Solo il 15-20% parla ucraino. Sono andato da una parrucchiera, i cui genitori vivono a R (città ucraina occupata). Dice che è tutto a posto, hanno portato i bambini a K (città russa) per una vacanza, hanno provveduto ad un risarcimento e a tutto ciò che era necessario”. Poco dopo C continuò: “Lei è l’ennesima persona sonnolenta che si rifiuta di assumere responsabilità nella mia vita. Non vuole introdurre regole che portino a un cambiamento. È come pretendere da un bambino di crescere senza il coinvolgimento dei genitori…”.
Commento
Questa seduta mi ha colpito sia per il suo contenuto controintuitivo, sia per la rivelazione della struttura interna della personalità e delle relazioni del paziente. La madre, con il suo latte, la sua lingua e la sua aria, lo ha tradito e ora C deve imparare a controllare completamente la respirazione, il nutrimento e la parola. Ha bisogno di assistenza in questo processo di apprendimento, ma di un’assistenza che sia la sua assistenza, cioè di un controllo che dimostri l’inutilità di tutto ciò che è materno.
Le lacrime amare, che esprimono un’esperienza di perdita più profonda della rabbia, dimostrano che questo meccanismo non funziona. “Rimarrà così per sempre”, dice il paziente, “i bambini saranno portati via”, una buona madre non tornerà mai più. Tutto ciò che può fare è lamentarsi della madre cattiva ma idealizzata del controllo: l’assenza delle sue dure regole è equiparata all’assenza di cure.
C’è una via d’uscita da questo vicolo cieco e dalla confusione?
In questo, come nel primo esempio, si può notare il portato significativo che il problema della lingua rappresenta per i pazienti. Sia A che C sono cittadini ucraini di lingua russa, ma percepiscono la loro lingua madre come la “lingua del nemico”, la parte traditrice del sé, che deve essere combattuta (in un momento particolare per A, e costantemente per C).
Non mi addentrerò negli aspetti politici e ideologici di questo argomento così delicato per l’Ucraina. Tuttavia, forse, questa carrellata clinica può far luce su di esso da un’angolazione importante. E. Jones e M. Klein hanno esplorato le disavventure dell’onnipotente figura distruttiva nel mondo interiore e nelle proiezioni dei pazienti (l’“Hitler interiore“, secondo Klein, il “Quislingismo” secondo Jones) (Milton, 2018; Frank, 2020; Jones, 1941). Hanno descritto tali manovre difensive come l’identificazione con la figura onnipotente e distruttiva e la sottomissione passiva ad essa[3].
Seguendo questa linea di ragionamento, possiamo supporre che entrambi i pazienti descritti stessero cercando di superare l’introiezione realizzata – nella loro percezione – della figura distruttiva e l’identificazione di questa con una parte del sé.
Il sogno di A sulla seduzione della guardia può servire come prova di ciò.[4]
Il passo successivo, che si manifesta già consapevolmente in analisi, è il tentativo di eliminare il nemico interiore, o il traditore in un modo particolare, per il quale il terapeuta avrebbe dovuto fornire assistenza a C (essenzialmente, assumendo il ruolo dello stupratore in modo positivo), mentre A l’ha ottenuto attraverso una sessualità a tinte virili (oltre a elementi di sadomasochismo, come possiamo ricordare).
Il sogno di A sui vestiti che cambiano colore dimostra, a mio avviso, che una tale esatta “escissione” della parte pericolosa del sé deve portare a una trasformazione dell’intera personalità.
Breve conclusione
L’impatto della guerra sui pazienti, sugli analisti e sulla situazione analitica stessa varia in una gamma piuttosto ampia. Possiamo osservare reazioni di diniego e, al contrario, di esagerazione difensiva (diniego) dell’impatto della guerra, l’attualizzazione di esperienze traumatiche precoci e transgenerazionali e la rifrazione della percezione della realtà esterna attraverso il prisma delle dinamiche interne di pulsioni, difese e conflitti.
L’importanza di una particolare questione dipenderà da molti fattori. Tra quelli esterni, è importante considerare se entrambi i partecipanti alla relazione analitica sono esposti ai reali effetti traumatici della guerra o se possono lavorare almeno in relativa sicurezza. La situazione del lavoro online è complicata dal fatto che il paziente e l’analista possono trovarsi in situazioni diverse. Tuttavia, i fattori interni non sono meno importanti: la forza dell’Io, la dominanza di meccanismi di difesa maturi o primitivi (sia nel paziente che nell’analista), i modelli interiorizzati di relazioni oggettuali. Vale la pena sottolineare anche l’importanza dei fattori sociali.
Il sentimento pubblico e la propaganda bellica provocano sia manovre proiettive paranoiche che autosacrifici masochistici (Money-Kyrle, 1941; Leites & Kris, 1947).
Tutto ciò rende la relazione analitica vulnerabile, soggetta a influenze distruttive da diversi lati. Ma questo non la rende meno preziosa. La guerra “spezza i legami che uniscono le persone”, come Freud notò nel 1915 (Freud, 1915). In seguito riformulò questo concetto come una minaccia alle forze vincolanti dell’eros, dell’amore e dell’identificazione, proveniente dall’istinto di morte (Freud, 1933). Come ho cercato di dimostrare nei miei esempi, le disconnessioni si verificano anche nel mondo interno, il che rende il lavoro analitico particolarmente difficile e importante in queste circostanze.
Sarebbe imprudente trarre conclusioni di ampia portata sulla realtà sociale e politica sulla base di un’esperienza clinica limitata. Molti psicoanalisti di spicco, come F. Fornari e H. Segal, hanno seguito questa strada con un certo successo, anche se si possono citare alcuni casi di gravi fraintendimenti causati dall’astrazione ingiustificata da parte degli psicoanalisti della loro esperienza personale con i pazienti e dal trasferimento di tale esperienza in ambiti non clinici. Ma anche nei limiti della riflessione strettamente clinica è difficile non pensare ai pericoli di una simile forma di scissione del sé, in cui una porzione viene percepita come “infida”, identificata con l’aggressore onnipotente, mentre un’altra porzione viene vista come depurata dal male, perfetta, ma del tutto fasulla (come è accaduto con il problema della “lingua del nemico” come traditore interno nei casi di A e C).
Tali conseguenze di processi simili, come l’indebolimento del sé e la distorsione della percezione degli altri, sono state descritte dalla Klein nel classico lavoro sui meccanismi schizoidi (Klein, 1975). Questo problema è stato riscontrato da tutti e tre i pazienti sopra descritti, compreso B, per il quale la soluzione si è rivelata più complessa e la “disattivazione” di una delle porzioni del sé ogni volta si è rivelata di breve durata, anche alternata a tentativi di integrazione. Forse, la ragione di ciò risiede nel periodo di analisi più prolungato, oppure potrebbe risiedere nel generale tipo di personalità depres-siva di B.
Sembra che non ci sia nulla di inaspettato nel modo in cui la guerra attualizza e intensifica nella psiche meccanismi primitivi come la scissione, l’identificazione pro-oggettiva, l’idealizzazione della distruttività onnipotente, ecc. Questioni più complesse emergono quando si studiano le varie forme e combinazioni in cui si manifestano. Emergono anche quando ci si interroga sulle loro funzioni che in certi momenti, almeno soggettivamente, permettono la sopravvivenza, mentre in altri momenti indeboliscono estremamente l’individuo e il gruppo
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(Tradotto da Paolo Fonda e Anna Cordioli)
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APPENDICE
Questionario per i membri e i candidati dell’UPS sull’influenza della guerra sul lavoro analitico e terapeutico
NOTE
[1] N.d.c.: l’articolo “Il fallo letico” di Cordelia Schmidt-Hellerau è stato edito in Italiano in “Parricidio e figlicidio: crocevia d’Edipo” a cura di P. Campanile, 2008, Rivista di Psicoanalisi, Monografie, Ed. Borla, Roma
[2] Il luogo che ho descritto qui, Dnipro, è cambiato rapidamente nella sua atmosfera durante il periodo in cui stavo scrivendo questo articolo. Ora ricorda Charkiv e tutta l’Ucraina nel periodo dei primi attacchi.
[3] F. Fornari ha anche indicato il sollievo nel caso di proiezione o “esportazione” del terrore interiore nel nemico esterno (Fornari, 1974). W. Bion, a sua volta, ha sottolineato la necessità di delineare una linea di demarcazione tra i terrificanti “incubi infantili” e i nemici reali, ai fini di un’azione efficace durante la guerra (Bion, 1940).
Ciò è indicato anche da D. Bell in una recente pubblicazione, dove mette in dubbio la descrizione della situazione militare come funzionante in posizione paranoide-schizoide (Bell, 2022, p. 680).
La questione della proporzione tra meccanismi “normali” e “patologici” nella psiche di un “soldato efficiente”, così come di qualsiasi altro partecipante all’azione militare, è stata esplorata da molti psicoanalisti durante la prima e la seconda guerra mondiale (Freud et al., 1921; Eissler, 1960).
[4] Questo ricorda la “fusione tra sé e l’oggetto” in una situazione traumatica descritta da W. Bohleber (Bohleber, 2007, p. 342).
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