Scomparsa di senso e senso in giacenza ne “La madre morta” di A. Green. Una complessità da riscoprire.

di Patrizia Paiola

André Green scriverà il suo celebre testo La madre morta nel 1980, ponendolo a completamento del suo libro Narcisismo di vita narcisismo di morte (1983), di cui costituisce l’ultimo capitolo.

In un’intervista successiva, racconta che quando scrisse questo lavoro non era “completamente consapevole di ciò che andava affermando”, evocando un senso di scoperta (1999, 104).

Risulta comunque evidente che egli intende porre tale concetto in continuità con le problematiche relative al narcisismo e nella dialettica narcisismo di vita/narcisismo di morte. Ma questa volta, egli ritiene di avere sorpreso i suoi lettori a causa della sua “tendenza ad attribuire un ruolo così importante al trauma materno, in un periodo della psicoanalisi in cui si insiste molto sulle vicissitudini dell’organizzazione intra-psichica, e si è molto prudenti sul ruolo esercitato dalla congiuntura” (1980, 297). Ma va subito a precisare che non si tratta di congiunture già descritte, dovute agli effetti di separazioni precoci o dovute alla perdita reale della madre e al suo lutto.

Nel complesso della madre morta la situazione non è omologabile alla posizione depressiva o al trauma della separazione reale. “Al contrario, indipendentemente dall’evoluzione spontanea verso la posizione depressiva, si è avuto un importante apporto materno. Tale apporto interferisce con la liquidazione della posizione depressiva, complicandone il conflitto relativo, con la realtà di un disinvestimento materno percepibile dal bambino tanto da ferirne il narcisismo” (1980, 298, corsivo mio).

A questo proposito, indica una differenziazione tra diverse forme di angoscia, che comportano tutte distruttività, siano esse derivate dalla perdita dell’oggetto parziale o totale, o del Super-Io e della sua protezione. Ma queste ultime non comportano una mutilazione sanguinante (angoscia “rossa”, di castrazione), bensì hanno il colore del lutto: il bianco o il nero. Viene qui ripreso il concetto, espresso in precedenza insieme a J.L. Donnet nel libro L’Enfant de ça, di psicosi bianca.

Ne emerge la “serie bianca” (blanc in francese significa bianco, ma è anche lo spazio vuoto): allucinazione negativa, psicosi bianca, lutto bianco. Insieme che definisce una patologia del vuoto o del negativo, “risultato di una delle componenti della rimozione primaria: un disinvestimento massiccio, radicale e temporaneo che lascia delle tracce nell’inconscio in forma di buchi psichici, successivamente riempiti da reinvestimenti…  Le manifestazioni dell’odio e i processi di riparazione che ne conseguono sono manifestazioni secondarie a questo disinvestimento centrale dell’oggetto primario, materno” (1980, 270). Si tratta pertanto di fare i conti con “una imago che si è formata nella psiche del bambino in seguito ad una depressione materna, trasformando brutalmente l’oggetto vivente, sorgente di vitalità del bambino, in una figura lontana, atona, quasi inanimata che impregna molto profondamente gli investimenti di certi soggetti in analisi e pesa sul loro destino libidico, oggettuale e narcisistico” (1980, 265).

La madre, dunque, in tale congiuntura resta in vita, ma se ne percepisce la morte psichica in termini di disinvestimento libidico sul bambino, e questo tornerà a ridestarsi nel transfert giacché, secondo Green, il complesso della madre morta è una rivelazione del transfert, il più delle volte riflettendo lo scacco di una vita affettiva, per quanto riguarda l’amore e/o la vita professionale.

In questi casi i sintomi nevrotici classici avranno un valore secondario e l’analisi della loro genesi non porterà la chiave del conflitto. Riscontreremo invece l’emergere di un sentimento di impotenza collegabile ad una “depressione di transfert” (in opposizione alla nevrosi di transfert), ripetizione di una depressione infantile il cui tratto essenziale è che essa si determina in presenza dell’oggetto, assorbito in un lutto. Le cause – tutte comportanti una delusione narcisistica – possono essere diverse: la perdita di un figlio, di un parente, di un amico, o un rovescio di fortuna nella famiglia, il padre che trascura la madre, un’umiliazione, un aborto. Un evento che produrrà un cambiamento brusco, autenticamente mutativo dell’imago materna. Ne consegue la formazione di un nucleo freddo, marchio indelebile sugli investimenti erotici del soggetto, caratterizzato oltre che dalla perdita di amore anche dalla perdita di senso. Poiché – rammentiamolo – il bambino non dispone di alcuna spiegazione che renda conto di quanto è avvenuto e, “vivendosi al centro dell’universo materno, interpreta questa delusione come conseguenza delle sue pulsioni verso l’oggetto”. Tutto ciò sarà ancora più grave qualora questi problemi insorgano nel momento in cui il bambino scopre l’esistenza del terzo, determinando una triangolazione precoce e zoppicante (1980, 274-275).

Le difese messe in atto a questo punto sono diverse. Innanzitutto, il disinvestimento dell’oggetto materno e l’identificazione con la madre morta. Una sorta di uccisione psichica dell’oggetto compiuta senza odio, dalla quale non dobbiamo arguire una distruttività pulsionale. Si crea piuttosto un buco nella trama delle relazioni d’oggetto. Comparirà quasi obbligatoriamente un’identificazione con l’oggetto secondo una modalità primaria, nel tentativo di ristabilire un’unione mimetica con la madre, “diventando non come l’oggetto, ma l’oggetto stesso”: condizione della rinuncia all’oggetto e della sua contemporanea conservazione, attraverso un’incorporazione cannibalica inconscia. Di qui il suo carattere alienante (1980, 276).

Il cambiamento brusco, rimasto senza ragione, e la conseguente perdita di senso portano al rivolgimento nel contrario con l’attribuirsi da parte del bambino della responsabilità, in una sorta di megalomania negativa.  Egli crederà che la colpa sia legata alla sua maniera di essere, e di fatto in questo modo “gli viene proibito di essere”. Ciò gli impedirà di deviare l’aggressività distruttiva all’esterno a causa della “vulnerabilità dell’immagine materna” (cfr. “L’uso dell’oggetto” e l’idea di “spreco” in D.W. Winnicott).

Ma la perdita di senso può imporre anche altre difese, tipo lo scatenamento di un odio secondario con desideri di incorporazione regressiva, con note di sadismo anale maniacale, e l’eccitamento auto-erotico. Infine, la ricerca del senso perduto “struttura lo sviluppo precoce delle capacità fantasmatiche ed intellettuali dell’Io”, in forma di coazione a immaginare, o coazione a pensare. Una sorta di autoriparazione attraverso un “seno posticcio” per mascherare il buco dell’investimento. Questo tentativo di padroneggiare la situazione traumatica attraverso attività intellettuali, creative o artistiche sarà votato all’insuccesso per quanto riguarda l’economia psichica, poiché il soggetto resterà vulnerabile nella vita affettiva e il sentimento di impotenza riemergerà, per l’incapacità a riparare l’oggetto in lutto (2002, 1000). Inoltre, si determina la rimozione delle tracce mnestiche del contatto precedente con la madre, con incistamento dell’oggetto, trasformando l’identificazione positiva in identificazione negativa, “cioè con il buco lasciato dal disinvestimento” (1980, 279-281). Si viene così a creare un nucleo freddo che brucia e anestetizza come il ghiaccio. Esso si organizza con un triplice scopo: mantenere l’Io in vita, rianimare la madre morta, competere con l’oggetto del lutto nella triangolazione precoce.

Il complesso della madre morta si allaccerà ad altre significative formazioni della vita psichica. Attraverso il fantasma della scena primaria cercherà di dare una forma alla relazione di rivalità, vissuta come apocalittica cancellazione anziché come una mera esclusione. Il padre, all’interno di un complesso di Edipo al quale mancano gli aspetti più differenziati, susciterà più che un’angoscia di castrazione un sentimento di rabbia, impotenza e paralisi senza rimedio (2002, 1000).

Green a questo punto propone l’interessante ipotesi del destino dell’oggetto primario “come struttura inquadrante dell’Io, ospitante l’allucinazione negativa della madre”. Il complesso della madre morta mostra il fallimento di questo processo, destinando le rappresentazioni a iscriversi in questa dolorosa vacuità che fa venir meno la loro capacità di legarsi, in vista di un pensiero preconscio (2002, 999-1000).

Ma possiamo chiederci se la mancanza di senso, nella sua iscrizione come buco nella psiche, possa costituirsi anche come “senso in giacenza”, in attesa di essere riattivato da un reinvestimento che avviene in un contesto molto diverso, nuovamente mediante la presenza dell’altro.

Questo sembra essere ciò a cui allude Green quando, ricostruendo le tappe della scoperta di questo complesso, si domanda: “Di che senso si tratta dunque? Un senso perduto e ritrovato. Sarebbe concedere troppo a questa struttura presignificativa, e la sua riscoperta è molto più dell’ordine della scoperta. Forse un senso potenziale, al quale manca soltanto l’esperienza analitica – o poetica? – per diventare un senso veridico” (1980, 303).

 

Bibliografia

Green A. (1980). “La madre morta”. In Narcisismo di vita narcisismo di morte. Roma, Borla, 1985.

Green A. (2002). “Mère morte (Complexe de la -)”. In De Mijolla A. (a cura di). Dictionnaire International de la psychanalyse. Paris, Calmann-Lévy, 2002.

Kohon G. (1999). La madre morta. L’opera di André Green. Milano, la biblioteca di Vivarium, 2007.

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