Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
Silvia Mondini
(Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Segretario Scientifico del Centro Veneto di Psicoanalisi.
Davide Sisto
(Torino), Filosofo, Ricercatore del Dipartimento di Studi Umanistici
Università degli Studi di Trieste; Prof. a contratto Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Torino.
*Per citare questo articolo:
Mondini S. (2025). Voci e “carni” che restano: il destino dell’Io e del corpo nell’era digitale. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 152-165.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Davide Sisto, filosofo e tanatologo, da diversi anni porta avanti una riflessione sull’interazione tra le tecnologie digitali e alcuni aspetti fondanti dell’esperienza umana, incrociando questioni che la psicoanalisi da sempre interroga nella loro dimensione inconscia: la memoria, l’identità e i limiti della condizione umana.
Il suo percorso teorico unisce sensibilità umanistica e attenta analisi critica delle trasformazioni in corso, concentrandosi in particolare sui nodi concettuali che emergono all’intersezione tra corporeità e dimensione digitale.
In che modo le nuove forme di archiviazione e condivisione dei dati personali — immagini, testi, interazioni — contribuiscano alla costruzione di un’“immortalità elettronica” che solleva interrogativi profondi sul rapporto tra l’individuo e la propria traccia, tra la morte e il suo diniego, tra il lutto e il desiderio di permanenza? In questa prospettiva, la rete si configura non solo come dispositivo tecnico ma anche come spazio simbolico in cui si ridefiniscono le modalità del lutto, della memoria e della trasmissione intergenerazionale.
Tali cruciali questioni vengono affrontate a partire da un’impostazione filosofica che propone una rielaborazione critica del rapporto tra umano e tecnologico, mettendo in primo piano l’urgenza di un ripensamento capace di misurarsi con le implicazioni etiche e culturali dell’esperienza digitale senza mai trascurare la domanda relativa a che cosa significhi – oggi – essere soggetti capaci di costruire un’identità, di ricordare e di elaborare la perdita in un ambiente sempre più smaterializzato.
Nel dialogo che si apre con questa intervista, alla quale Sisto ha acconsentito con generosa disponibilità, ci proponiamo di esplorare la possibilità di un confronto fertile tra la sua prospettiva e quella della psicoanalisi, nella speranza che tale intersezione possa generare nuovi spunti di riflessione.
Silvia Mondini: Ti ho conosciuto in rete, nel momento più drammatico del primo lockdown. Mentre i nostri schermi venivano saturati dai continui aggiornamenti sul numero dei contagi e dei decessi, sei riuscito a restituire valore ad un pensiero che rischiava di collassare sui dati. In quel marzo 2020, così cupo e sospeso, sei stato tra i primi a proporre su vasta scala una toccante riflessione sul tema della morte e del lutto individuando nei dispositivi digitali un’inedita “ancora di salvezza”, un “antidoto incorporeo” al trauma provocato dal Covid-19[1].
“Un virus che dava l’impressione di far scomparire nel nulla le persone – scrivevi – privandole del sostegno fornito dalla presenza dei congiunti e imponendo a questi ultimi la frustrazione di non poter vedere e toccare i corpi delle persone amate. Ne derivava una morte in balia della solitudine e di un lutto difficilmente elaborabile anche a causa della mancanza di quel rito che – come afferma Jacques Derrida – ontologizza i resti indentificando le spoglie e localizzando i defunti”. (ibid.)
In questa circostanza inattesa e drammatica, hai riconosciuto il ruolo di (parziale) sostegno offerto da tablet, liste di addio e funerali in streaming.
Davide Sisto: Il Covid ha reso evidente una trasformazione già ampiamente in atto, portando alla luce come molti di noi avessero da tempo ampliato la propria identità oltre la mera presenza fisica, estendendola attraverso schermi, profili, avatar e spazi digitali. Questa familiarità con la molteplicità dell’Io segna una rivoluzione profonda: prima dell’era digitale, l’unico modo per estendere la propria presenza oltre il corpo era affidato all’immaginazione o alla corrispondenza. Il COVID-19 ha enormemente amplificato questo fenomeno anche perché, per la prima volta nella storia, siamo stati i primi esseri umani costretti “per legge” a non uscire dalle proprie abitazioni e a coltivare le relazioni tramite le nostre estensioni digitali. Ritengo che questo sia un dato oggettivo, al di là di ogni giudizio di valore, e che ci spinga a una riflessione più ampia su nuove implicazioni e possibilità.
SM: Cercando di applicare una chiave di lettura psicoanalitica alla molteplicità dell’Io prima citata, è interessante osservare come la tecnologia renda oggi tangibili alcune delle caratteristiche fondamentali di quell’ “essere di frontiera” descritto da Freud, la cui coerenza e unitarietà è più un’esigenza della coscienza e del narcisismo che un dato di fatto. L’Io, sviluppatosi dallo strato più esterno dell’Es per influenza della realtà esterna (Freud, 1922, 1932, 1938), si trova non solo coinvolto nella mediazione tra le loro diverse esigenze ma anche implicato in processi antitetici aventi a che fare con le dinamiche tipiche del narcisismo e con la necessità di difendersi dall’eccesso di stimoli. Da un lato, dunque, tende all’unificazione e alla sintesi (1914), dall’altro mostra una propensione a scindersi al fine di difendersi da un eccesso di stimoli provenienti dalla realtà – esterna o interna – o dal loro conflitto (Freud, 1938). E che dire, infine, del suo essere per natura “molteplice” in quanto frutto delle innumerevoli identificazioni, spesso contradditorie, che lo compongono.
DS: Il Novecento ha messo in discussione quell’idea di una identità forte e coesa che fino a quel momento era risultata dominante all’interno delle teorie filosofiche occidentali. Con alcune eccezioni, queste ultime presupponevano l’idea di un soggetto contrapposto all’oggetto, sottolineando così l’esistenza di due statuti rigidamente separati. Il Novecento, invece, ha introdotto un nuovo modo di concepire la dimensione umana, giungendo finalmente a comprendere l’intuizione di David Hume che individuava nell’identità qualcosa che va ben oltre il soggetto. Le tecnologie digitali hanno ben presto intercettato e amplificato questa prospettiva, enfatizzando la nostra natura multi-identitaria; Patricia Wallace[2] parla a questo proposito di network Self: non siamo mai uguali a noi stessi, non solo perché l’identità è un continuo divenire ma anche perché ci mettiamo diversamente in gioco a seconda della persona con cui ci relazioniamo. Non si tratta di incoerenza, bensì della messa in gioco di diversi frammenti di sé, spesso irriducibili ad un’unità coerente. In questo senso, il digitale non crea la molteplicità dell’Io, ma la rende visibile e operativa.
SM: A questo proposito, mi preme sottolineare come la tecnologia, proprio nel suo facilitare la propensione dell’Io a scindersi (Freud,1938), finisca con il consentire al soggetto l’evitamento di quella quantità di lavoro psichico indispensabile per sostenere il pensiero, il confronto con l’altro e l’integrazione di vari aspetti di sé. Questo si configura ai miei occhi come un’involontaria sollecitazione alla malafede intesa come fenomeno che si colloca al limite tra conscio e inconscio, in cui il soggetto mente a sé stesso (M. Baranger, 1990). Il fine ultimo della malafede così intesa coincide con il bisogno di mantenere l’onnipotenza eludendo la castrazione, ossia l’esperienza del limite, e il confronto autentico con l’altro. Curioso constatare come alla base della malafede si ritrovi quella stessa dinamica proteiforme che hai descritto a proposito dell’avatar (dal sanscrito avatāra, “discesa” sulla terra del dio Vishnu e alle sue diverse manifestazioni). L’ avatāra indica infatti una transizione dal piano trascendente a quello immanente, movimento che consente al divino di assumere molteplici incarnazioni, ciascuna dotata di tratti peculiari ma tutte riconducibili ad un’origine unitaria. Analogamente, l’avatar digitale instaura un ponte tra l’ideale e il reale, tra l’onnipotenza e l’esperienza, rendendo possibile una molteplicità di narrazioni, spesso contraddittorie o persino inconciliabili (Sisto, 2023, p.128-129). Allo stesso modo, l’Io del soggetto in malafede si configura come una molteplicità di identificazioni non sedimentate, contemporanee e contradditorie che impediscono la formazione di un autentico senso di sè. Ne risulta un’identità camaleontica, che si esprime attraverso una serie di personaggi non integrabili e privi di una vera e propria realtà interiore. Integrare questi diversi personaggi implicherebbe una rinuncia ai loro aspetti incompatibili e, conseguentemente, lo svanire di quel sentimento di onnipotenza che si regge sull’evitamento del contatto con l’altro (e la realtà) tramite il ricorso a molteplici maschere. Non è un caso che queste persone risultino sfuggenti quanto il Proteo della mitologia, il dio marino che pur di sottrarsi al contatto con i comuni mortali, si trasformava in qualsiasi animale o elemento (Baranger, 1995, p.9-19), proprio come Vishnu.
DS: Eppure l’avatar, opportunamente utilizzato all’interno dei videogiochi o dei profili social, può consentire a persone affette da gravi disabilità fisiche una diversa espressione di sé o, persino, una valorizzazione di alcuni aspetti altrimenti sacrificati o confinati all’interno delle mura domestiche. In ogni caso la finzione, qualunque sia il mezzo attraverso cui si esprime, è di per sé una forma di realtà virtuale intrinseca all’essere umano. Fin dall’infanzia, ciascuno di noi utilizza la finzione rappresentativa per ampliare le proprietà conoscitive, psicologiche e relazionali, permettendo a tutte le molteplici sfaccettature della propria identità di manifestarsi, trascendendo concetti fini a sé stessi come omogeneità, coerenza e immutabilità. Gli avatar rendono tangibile il carattere molteplice dell’identità umana, che, nella dimensione online risulta disseminata nei vari luoghi digitali in cui vengono prodotti, condivisi e registrati frammenti di sé. Ognuno può affidare al proprio avatar aspetti che non desidera assumere in prima persona.
Mi sembra che al di là della chiave di lettura che vogliamo attribuire a questo fenomeno, l’essere umano sia sempre stato incline a espandere i propri confini oltre i limiti della presenza psicofisica.
SM: spesso nei tuoi libri fai riferimento alla definizione di “carni digitali”, che cosa intendi con questa espressione?
DS: È una definizione che ho ripreso da Margaret Gibson e Clarissa Carden (2020)[3], nonché dal filosofo Patrick Stokes. Mi piace molto perché il termine carne richiama l’idea di una nostra vulnerabilità e, al contempo, sottolinea la possibilità di investire emotivamente le nostre estensioni online sino a considerarle parte della nostra stessa identità. Le azioni prodotte attraverso i nostri profili, sia quelli legati alla messaggistica privata, sia quelli relativi ai diversi social network, provocano effetti nella realtà quotidiana spesso imprevedibili, sia in senso positivo che negativo. Inoltre, ogni “azione” compiuta online viene registrata rimanendo disponibile ben oltre la nostra morte biologica. L’investimento emotivo del defunto nei confronti della propria carne digitale rimane influenzando l’elaborazione del lutto di chi resta e trasformandosi, talvolta, in una sorta di simulacro con cui mantenere una relazione. L’esistenza di una “carne digitale” ci induce a riflettere sull’eredità digitale e sulla necessità di individuare, per tempo, chi si occuperà della gestione dei nostri profili e dell’enorme quantità di dati che rimangono in rete dopo la nostra scomparsa. Credo sia un aspetto fondamentale, anche perché l’idea di una vulnerabilità che si estende anche ai nostri avatar digitali evidenzia quanto la tradizionale distinzione tra reale e virtuale sia ormai superata.
Oltre a questo, ritengo importante considerare come i social e alcuni progetti di intelligenza artificiale mirino a trasformare ciò che rimane disponibile on line in qualcosa che risponde alle esigenze dei vivi. Oggi si discute molto della possibilità di disporre di strumenti in grado di garantire un’esistenza post-mortem e un “collegamento” con chi resta. Mi sono occupato per la prima volta di questo tema una decina di anni fa, quando tali tentativi erano numericamente inferiori e gli strumenti per realizzarli molto meno accessibili. Oggi, con la diffusione di ChatGPT, la situazione è radicalmente cambiata; l’intelligenza artificiale viene impiegata in modo tale che, in base ai dati e alle informazioni acquisite, possa rispondere come avrebbe fatto la persona scomparsa. Basti pensare ad Alexa a cui è sufficiente ascoltare un solo minuto di registrazione per riprodurre la voce di chi non c’è più, permettendo a chi rimane di proseguire un dialogo che non sarà più solo immaginario. Si tratta di esperimenti all’ordine del giorno, tanto in Asia quanto in Occidente, dove la richiesta di thanabot è in costante crescita, proporzionale al tentativo di operare un diniego della morte e della perdita. Si tratta, ovviamente, di fenomeni che sollevano innumerevoli questioni di carattere emotivo, psicologico, etico e giuridico. Inizialmente, questi strumenti miravano a riprodurre l’atteggiamento del defunto; ora si tenta di introdurre qualcosa che si estenda oltre la semplice ripetizione, quasi fosse possibile generare un proseguimento attivo della sua esistenza in base ai dati immagazzinati. Nei vari tentativi di dare una interpretazione etica o giuridica dei fenomeni emerge la preoccupazione che il defunto possa fare affermazioni che in vita non avrebbe mai pronunciato. In ogni caso, è fondamentale chiarire che, sebbene l’intelligenza artificiale possa sostituire il ricordo personale con una narrazione diretta e riprodotta artificialmente, questa possibilità è ben altra cosa rispetto all’immortalità.
SM: In fondo, rientriamo in quel diniego dell’esperienza della perdita e della separazione che conduce – come più volte hai sottolineato – a circondarsi di morti proprio nel momento in cui si vuole inseguire il mito dell’immortalità. Nei tuoi scritti hai spesso sottolineato come Facebook, nato come social network, si sia trasformato poi in una potentissima agenzia di marketing e ora si stia dirigendo a diventare il più grande cimitero digitale, contribuendo alla creazione di una sorta di autobiografia culturale collettiva (Goldsmith, 2017). Si calcola – scrivi – che nel 2098 gli utenti deceduti sorpasseranno quelli in vita (Sisto, 2022, p. 83).
DS: Nel settore si parla di immortalità digitale, ma trovo che questa definizione sia più che altro un’operazione di hype[4]. Il vero problema è come gestire le identità digitali dopo la morte biologica, dal momento che quest’ultima riguarda esclusivamente la presenza psicofisica del singolo individuo. La morte, unica nostra certezza, è totalmente indifferente alle attività svolte e gestite online. Sarebbe dunque utile pertanto predisporre, accanto al testamento biologico, anche un testamento digitale anche se in Italia manca al momento una legislazione specifica in materia. In tal senso ciascuno dovrebbe registrare tutte le credenziali di accesso ai luoghi digitali che frequenta più assiduamente e stabilire quali “anime” informazionali mantenere attive e quali destinare all’oblio. Inoltre, dovrebbe indicare le modalità con cui queste identità digitali devono rimanere in vita: lasciate libere di vagare autonomamente e anarchicamente nello spazio digitale, oppure gestite da un erede indicato. In tal senso, la Death Education, unita ad una più consapevole gestione dei nostri io digitali, potrebbe contribuire a migliorare significativamente il nostro rapporto con i social network in relazione alla memoria e all’oblio.
SM: Prima di concludere, considerate le diverse chiavi di lettura che entrambi applichiamo a questi aspetti, mi viene spontaneo chiederti se, secondo te, esiste un inconscio digitale e, se sì, come lo intendi.
DS: Mah, dovrei rifletterci con maggior attenzione. Potrei dire che l’inconscio digitale è una sorta di prolungamento in rete di aspetti di cui non abbiamo immediata coscienza. I profili di ciascuno rivelano aspetti che sfuggono all’intenzione; penso che alcuni di questi possano ricondursi all’inconscio come da te inteso, mentre altri si situino molto più vicino alla sfera dell’influenza sociale. Diciamo, forse, che sarei propenso a intendere l’inconscio digitale come un elemento che si colloca tra qualcosa che per definizione sfugge e qualcosa che cerca uno spazio/un luogo altrimenti assente nella realtà esterna. Penso, ad esempio, al bisogno di condividere il dolore, a ricercare nei social un luogo capace di accogliere emozioni che off-line risulterebbero inopportune. Su TikTok, ad esempio, questo bisogno è piuttosto evidente. Direi pertanto che l’inconscio digitale potrebbe essere pensato come una dimensione volta ad intercettare bisogni non soddisfatti o originati da una mancanza di origine socio-culturale.
SM: Questo tuo modo di intendere l’inconscio digitale mi ricorda piuttosto la funzione del Nebenmensch freudiano, ovvero, di quell’essere umano prossimo (Freud, 1895, p. 235), quel soccorritore che all’origine della vita (e possibilmente anche oltre) risponde al grido, al bisogno, alla tensione dando luogo ad un “intendersi” che trasforma il dolore in un’esperienza tollerabile. Un concetto che, pur intercettando il bisogno di ciascun umano, si differenzia nettamente dall’inconscio psicoanaliticamente inteso.
DS: Credo, comunque, che il digitale possieda un profondo legame con la capacità creativa e immaginativa. Esso ci consente di attraversare nuovi spazi – dai social ai videogiochi – offrendo la possibilità di dare libero sfogo alla creatività e di esprimersi attraverso rappresentazioni di sé particolari: i Nickname, la messa in scema di sé attraverso modalità differenti. Ritengo molto più interessante osservare il fenomeno del digitale dal punto di vista artistico piuttosto che quello scientifico; dopotutto, il digitale non fa altro che rimettere in gioco il bisogno umano di trascendere l’aspetto oggettivo, di oltrepassare i confini, nutrendo forme di creatività che si avvicinano agli aspetti onirici o letterari.
SM: questo mi ricorda associativamente quanto osservato di recente all’interno della Biennale d’Arte attualmente in corso – Stranieri Ovunque/ Foreigners Everywhere – e negli eventi ad essa collaterali. Al suo interno sono contenute istallazioni che utilizzano il digitale e l’intelligenza artificiale per rappresentare una nuova origine del mondo e dell’universo. Penso, ad esempio, alla videoinstallazione Swell of Spaec(i)es di Josèfa Ntjam – artista, performer e scrittrice di origine franco-marocchina – capace di immergere lo spettatore in una dimensione in cui organico e inorganico si fondono e confondo, generando forme materiche che ricordano vermi, polipi e cellule generate dal plancton trasportato dalle correnti e dal moto ondoso e recentemente ritrovato nello spazio cosmico apparentemente privo di vita. Ntjam integra la scienza, la mitologia e la storia decoloniale per dar forma ad un mito di creazione circolare, lavorando con specialisti in simulazione e AI generativa. Qualcosa di analogo lo si ritrova anche nel suggestivo padiglione della Germania, in cui l’opera di tre diversi artisti rappresenta scenari futuri che si intersecano con distruzioni passate senza alcuna distinzione temporale.
Questo, per associazione, mi fa pensare a quanto osservato di recente alla Biennale d’Arte attualmente in corso – Stranieri Ovunque / Foreigners Everywhere – e agli eventi collaterali che la accompagnano. Vi si trovano installazioni che utilizzano il digitale e l’intelligenza artificiale per rappresentare, o forse evocare, una nuova origine del mondo e dell’universo.
Penso, ad esempio, alla videoinstallazione Swell of Spaec(i)es di Josèfa Ntjam[5] – artista, performer e scrittrice franco-marocchina – capace di immergere lo spettatore in una dimensione in cui organico e inorganico si fondono e si confondono, generando forme materiche che ricordano vermi, polipi e cellule. Queste primordiali forme di vita deriverebbero dal plancton, tradizionalmente trasportato dalle correnti marine, e recentemente rintracciato nello spazio ultraterreno e apparentemente privo di vita. Ntjam intreccia scienza, mitologia e storia decoloniale per costruire un mito di creazione circolare, avvalendosi della collaborazione di specialisti in simulazione e intelligenza artificiale generativa.
Un’elaborazione affine si può ritrovare anche nel suggestivo padiglione della Germania, dove le opere di tre artisti differenti evocano scenari futuri che si intrecciano con distruzioni passate, in un continuum temporale che sospende ogni distinzione tra “prima” e “dopo”.
DS: Questo aspetto mi sembra, tuttavia, più legato alle prime teorie sulla cultura digitale che univano la letteratura con l’anarchia della rete. Penso ad esempio ai primi teorici delle differenze di genere, ai predecessori dei movimenti LGBTQ+ che individuavano nelle identità digitali una rivendicazione del bisogno di trascendere i confini imposti. Esisteva allora un’interpretazione del digitale molto interessante e creativa, penso, ovviamente, anche all’intera cultura cyberpunk. Oggi, invece, stanno prevalendo letture meno ottimistiche, quasi cospirazionistiche, che utilizzano la fantascienza per delineare orizzonti apocalittici piuttosto che visioni di espansione e possibilità. In ogni caso, riconosco che non molto tempo fa un centro sociale fiorentino mi ha sorpreso invitandomi a parlare di uno dei miei libri. Solitamente, chi frequenta i centri sociali ha una visione piuttosto critica del digitale, considerandolo un’espressione del capitalismo; eppure, proprio in quel contesto, ha riscontrato una prospettiva in cui la fantascienza conservava ancora quel potere creativamente ottimistico che aveva un tempo.
SM: A proposito di cyberpunk, leggendo i tuoi libri ho colto quanto la tua grande passione per la musica abbia influenzato il tuo pensiero.
DM: Sì, per qualche tempo ho lavorato anche come giornalista musicale e sono da sempre legato alle controculture metal, hard rock, dark che, tra gli anni 60/90 hanno avuto un ruolo basilare nella crescita delle generazioni che le hanno attraversate. Pur consapevole che la mia è una visione di parte, credo che queste culture abbiano offerto – e continuino ad offrire – un’opportunità unica di affrontare temi alquanto delicati quali la morte, la sofferenza, il rapporto con le sostanze. La scena di Seattle, in tal senso, è fortemente indicativa. Ora, però, non ti voglio tediare con questi argomenti e ti ringrazio per avermi seguito.
SM: Grazie a te per questo scambio di pensieri.
Bibliografia
Baranger M. (1990). Malafede, identità e onnipotenza. In Willy e Madaleine La situazione psicoanalitica come campo bipersonale. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011.
Freud S. (1895). Progetto di una psicologia. O.S.F., vol. 2.
Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. O.S.F., vol. 7.
Freud S. (1922). L’Io e L’Es. O.S.F., vol. 9.
Freud S. (1932). Introduzione alla psicoanalisi. (nuova serie di Lezioni). O.S.F., vol. 11.
Freud S. (1938). Compendio di psicoanalisi. O.S.F, Vol. 11.
Freud S. (1938). La Scissione dell’Io come processo di difesa. O.S.F, Vol. 11.
Goldsmith K. (2017). Perdere tempo su Internet. Torino, Einaudi Editore.
Sisto D. (2018). La morte si fa social. Torino, Bollati Boringhieri.
Sisto D. (2020). Ricordati di me. Torino, Bollati Boringhieri.
Sisto D. (2022). Porcospini digitali. Vivere e mai morire on line. Torino, Bollati Boringhieri.
Sisto D. (2023). I confini dell’umano. la tecnica, la natura, la specie. Bologna, Il Mulino.
NOTE:
[1] https://www.doppiozero.com/
[2] Patricia Wallace insegna alla Graduate School del Maryland University College. Si occupa di psicologia delle relazioni e dell’apprendimento.
[3] Margaret Gibson e Clarissa Carden autrici di “Digital Legacy and Memory: Online Lives, Death and Immortality“ (Palgrave Macmillan, 2020), testo che esplora come la memoria e l’identità si trasformano nell’era digitale, in particolare attraverso la persistenza online dopo la morte.
[4] Hype, inteso come gonfiatura, grande entusiasmo. Termine utilizzato soprattutto nel mondo dei social e dello spettacolo per indicare la strategia utilizzata per creare grandi aspettative.
[5] https://www.las-art.foundation/
*Per citare questo articolo:
Mondini S. (2025). Voci e “carni” che restano: il destino dell’Io e del corpo nell’era digitale. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 152-165.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Condividi questa pagina:
Centro Veneto di Psicoanalisi
Vicolo dei Conti 14
35122 Padova
Tel. 049 659711
P.I. 03323130280