Dal Notes Magico all'Infosfera: Traccia e Ascolto nell’Opera di Julie Mehretu

di Silvia Mondini

(Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Segretario Scientifico del Centro Veneto di Psicoanalisi.

*Per citare questo articolo:

Mondini S. (2025). Dal Notes Magico all’Infosfera: Traccia e Ascolto nell’Opera di Julie Mehretu. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 93-109.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Qui di seguito il video dell’intervista a Julie Mehretu di cui si consiglia la visione prima della lettura del presente lavoro.

Credit Palazzo Grassi, Venezia.

L’arte trattiene il tempo, lo cattura in una dimensione di transito, in cui il passato si intreccia con le molteplici possibilità del divenire. Nella tensione tra desiderio di continuità e spinta alla rottura, essa incorpora forze di polarità opposte, giocando tra consonanze e dissonanze.

Allo stesso modo, la teoria freudiana propone una visione dell’essere umano sospeso tra mutamento e conservazione, in cui coesistono livelli storico-psichici attraversati da gradienti di trasformazione molto diversi: ciò che sopravvive rende il nuovo e l’antico inestricabili, non definibili attraverso linee di frattura univoche (Balsamo, 2019).   

 

Questa dialettica tra continuità e rottura trova un’eco potente nel lavoro di Julie Mehretu, la cui produzione artistica sembra tradurre visivamente le tensioni psichiche che attraversano il tempo, la memoria e l’individuo; le sue imponenti opere si nutrono della corrente di molteplicità che attraversa il presente, restituendola nel punto di convergenza tra gesto pittorico e precisione tecnologica, tra memoria e orizzonti futuri, tra “cartografie immaginarie” (Pineault, 2024) e paesaggi che, al di là di ogni intenzione dell’artista, sembrano porsi in dialogo con le “vecchie” teorie freudiane.

Teorie che, pur sottoposte alle trasformazioni del presente e alla scoperta di un “ottavo continente”[1] (Cordioli, 2022) sempre più affollato, mantengono una propria sorprendente attualità.

In questo vorticoso scenario in cui l’esperienza individuale si confronta con un intreccio di narrazioni possibili – reali e virtuali, analogiche e digitali, autentiche e ingannevoli, presenti e passate – prende forma l’opera dell’artista afro-americana.

 

Nata ad Addis Abeba nel 1970 da padre etiope e madre statunitense, Julie Mehretu è una delle figure più rilevanti dell’arte contemporanea. La sua storia personale è segnata dall’esperienza dell’esilio poiché, a seguito dell’ascesa al potere del regime dittatoriale di Mènghitsu Hailé Mariam (1977), la sua famiglia si trasferisce nel Michigan. Qui, pur crescendo in un contesto culturalmente elevato[2], si confronta con forme di marginalizzazione che alimentano la ricerca di una prospettiva capace di oltrepassare confini geografici, culturali e identitari. Una ricerca che si traduce nel posizionamento queer, nel legame con la pittrice Jessica Rankin con cui è stata sposata e ha avuto due figlie e nella fondazione di Deniston Hill, residenza per artisti e laboratorio di scambi creativi.

L’incontro tra memoria e algoritmi che caratterizza l’opera di Mehretu incarna un movimento politico-culturale che oltrepassa i tradizionali confini della soggettività. Pur senza farne esplicito riferimento, la sua produzione artistica si inserisce all’interno di un orizzonte (trans)femminista che sfida le opposizioni binarie e reinterpreta il soggetto alla luce delle teorie post-strutturaliste. In quest’ambito, la figurazione[3] (Haraway, 1985; Braidotti, 1994) non è solo una modalità artistica, ma un modo di pensare la soggettività stessa: un’identità non più fissa, ma “nomade” (Braidotti, 2024), attraversata da tensioni tra organico e inorganico, umano e non umano, biologico e tecnologico.

 

Un richiamo irresistibile per una psicoanalista attenta al presente e consapevole che per essere davvero “contemporanei”, per “percepire e afferrare il proprio tempo” è necessario è assumere una posizione anacronistica: prenderne le distanze, guardarlo con sguardo distaccato, coglierne le oscurità senza coincidere con esso né cedere alle sue pretese (Agamben, 2009). E’ proprio da questa distanza critica che la memoria si configura, ancora, come processo vivo, attraversato da continue riscritture, da spostamenti e riemergenze impreviste. Una memoria che non si limita a conservare ma che trasforma, rilancia, e in cui persiste – sempre e comunque – l’immortale traccia di eros. Un eros inteso non solo come desiderio che attraversa le tre dimensioni del tempo (Freud, 1907) ma anche come libido che tesse legami tra il singolo individuo e la collettività e, infine, come gesto di connessione, volontà di radicare l’esperienza di sé in un processo che si fa movimento, transito – sia esso migratorio, culturale o politico – , rifiuto delle categorie rigide e fisse, ricerca di dialogo, spinta verso nuove forme di espressione.

 

Il Notes magico: un ponte tra psicoanalisi, arte e digitale

Ho “incontrato” Julie Mehretu qualche mese fa visitando Ensemble, la grande mostra che Palazzo Grassi/Fondazione Pinault dedica ai suoi venticinque anni di carriera e alle molteplici interazioni che la legano ai sette amici artisti le cui opere dialogano con le sue.

Mentre salivo la grande scala di accesso ai saloni espositivi mi sono trovata di fronte Among the Multitude XIII (2010-2012), l’opera immagine della mostra curata da Caroline Bourgeois. La mia sensazione immediata fu quella di trovarmi davanti a una coloratissima versione 4.0 di quel Notes Magico a cui Freud, cent’anni fa, dedicò un famoso saggio. Un’ associazione fulminea, personalissima, così potente da indurmi a non vedere i possibili (e forse evidenti) punti di contatto con Pollock, Kandisnsky o, considerando il trasudante movimento, con alcune opere futuriste. Un’ idea improvvisa che, in après coup, avrebbe trovato un’inaspettata conferma nelle parole della storica dell’arte Patricia Falguières e che, in ogni caso, costituisce il focus attorno a cui ruotano i miei pensieri.[4]

 

Note:

[1] Proprio a fine anni Sessanta, all’apice del fenomeno del baby-boom, l’umanità ha prodotto qualcosa del tutto nuovo: un ottavo continente, popolato oggi da quasi 9 miliardi di persone. Si chiama Web (Cordioli, 2022).  

[2] Il padre è un docente universitario di geografia, la madre un’insegnante montessoriana.

[3] Il cyborg, forse la figurazione più emblematica di questa prospettiva, diviene un modello di pensiero capace di esprimere la fluidità e l’interconnessione della vita contemporanea (D. Haraway, 1985; Braidotti, 1994). 

[4]  “Il percorso delle tracce mnesiche attraverso i diversi livelli dell’apparato psichico” e l’emergere con forza dell’immagine “dalla distanza spazio temporale fra gli strati” ricorda il Notes Magico descritto da Freud (Pì’. Falguirès, 2024, p.269- 270).

Ph. Mondini S.

A questo ingegnoso strumento, antesignano meccanico degli attuali dispositivi elettronici, Freud ha dedicato uno scritto, breve ma assai suggestivo: Note sul notes magico (1924). In esso ne descrive con attenzione la funzione di supporto alla memoria e il meccanismo di funzionamento, sorprendentemente simile all’apparato percettivo descritto in Al di là del principio di piacere (1920): una superficie composta da un foglio a due strati, sempre pronta ad accogliere nuove annotazioni, e una sottostante tavoletta di cera che ne conserva le tracce in modo permanente ma non immutabile (il sistema mnesico).

Il primo strato corrisponde all’apparato percettivo e alla sua doppia funzione di proteggere dall’eccesso di stimoli e accogliere quelli significativi, il secondo equivale al sistema mnesico e alle dinamiche che lo abitano. Andando oltre le similitudini, Freud descrive non solo il ruolo di “antenna” svolto dall’apparato percettivo – attraverso cui l’inconscio si estende nel mondo esterno alla ricerca di stimoli – ma anche il carattere discontinuo di questo movimento di protrusione e ritiro da cui deriverebbe la possibilità di percepire lo scorrere del tempo.

 

Tornando alla mia associazione iniziale e alla sorpresa di ritrovarla espressa nelle parole di un altro, mi sembra che la pittura di Mehretu offra al contempo una rappresentazione del Notes e dell’overloading che oggi investe lo psichico: se il sistema percettivo è costretto a processare un flusso continuo di informazioni – “reali” e digitali, immagini, suoni, testi, notifiche – senza soluzione di continuità, il rischio è che il processo di selezione degli stimoli diventi inefficace o addirittura collassi. Senza approfondire le ricadute sul piano individuale e clinico, ricordo che, nella teoria freudiana, quantità e qualità sono intrinsecamente collegate. Ne deriva un’alterazione di tutte le funzioni collegate al sistema P-C (percezione, memoria, “antenna” dell’inconscio, rappresentazione del tempo) con conseguente difficoltà di trasformare l’esperienza percettiva in memoria significativa.

Collegandoci alla storia personale dell’artista, non è da escludere che l’overloading non rappresenti solo un modo per tradurre il disordine della contemporaneità ma anche una “figurazione”, una “cartografia” di un flusso ininterrotto di memorie, traumi e possibilità che caratterizza il nostro tempo.

 

Tracce e luoghi psichici 

La teoria freudiana configura il ricordo come una struttura mobile e dinamica che, a partire dalla traccia[1], si costruisce e si trasforma attraverso il legame con nuove esperienze e associazioni.

Pontalis, riprendendo la profondità del saggio sul Notes, sottolinea come la traccia, nella sua essenza, sia “fuori dal tempo, anche fuori dal linguaggio […] cessa di essere muta e inerte, divenendo viva e inventiva solo quando entra in connessione con altre tracce” (Pontalis, 2024, pp. 21-23) tramite la regola delle libere associazioni.

Green, sempre in riferimento al Notes, aggiunge:

“Percezione e memoria si escludono forse nel loro modo di apparire alla coscienza, ma sguardo esterno e sguardo interno si riflettono reciprocamente nel compito di assicurare l’immersione nel presente, appoggiata invisibilmente sulla ricerca che lega l’attuale all’inattuale” (Green, 1993, cit. in Munari, 2024, corsivo mio).

 

Il percorso di Julie Mehretu inizia negli anni Novanta con il disegno e le ‘cartografie’, e da qui si evolve verso una pittura stratificata che impiega inchiostro e colori acrilici; ogni strato cancella parzialmente ciò che lo precede, dando vita a nuove immagini che “emergono con forza dalla distanza spazio-temporale tra gli strati e dal loro contatto imprevisto” (Falguieres, 2024, p. 270), ovvero, in quel “luogo” virtuale che si genera tra superfici. È proprio qui, in questo sistema di punti virtuali, che si situa quel “luogo psichico” che Freud “congettura” sin dall’inizio della sua produzione teorica[2]. Ed è sempre qui che diviene possibile la continua trasformazione derivante dall’incontro tra tracce eterogenee e riscrittura.

Dalla metà degli anni Dieci, l’artista integra nella sua pratica immagini fotografiche divenute simbolo degli eventi di realtà che rappresentano (catastrofi, ascesa degli autoritarismi, guerre) e ampiamente diffuse on line. Queste immagini, testimonianza del suo interesse per la politica e l’attualità, vengono poi modificate digitalmente, incorporate nel dipinto attraverso tecniche di stampa e incisione e, infine, mascherate dalla stratificazione pittorica sino a trasformarsi in pura astrazione.

In questo elaborato processo che può durare anche anni, l’evento reale, il materiale originario, viene nascosto o si dissolve, divenendo ciò che l’artista stessa definisce “fantasma” (Mehretu, 2019).  

Per Falguières (2024) l’intera economia delle sue opere suggerisca una profondità virtuale senza fondo, una pura latenza, uno spazio intermedio che trattiene l’energia delle immagini originarie, criptandole ma lasciandole affiorare a tratti, in un continuo reinventarsi dall’interno.

 “Il soggetto del dipinto coincide così con la rimozione della fotografia e con il farsi delle immagini secondo un processo che richiama il lavoro del sogno, descritto nella prima topica freudiana (ibid. 269-270).

Le dinamiche di condensazione, tipiche dei processi onirici, risuonano anche nella scelta dei titoli, quasi sempre capaci di unire, legare e sovrapporre il livello concettuale a quello tecnico-espressivo. Among the Moltitudo, ad esempio, evoca sia la condizione dell’Io in relazione a una moltitudine di altri (interni, esterni, digitali), sia un metodo di lavoro che integra l’azione pittorica dell’artista con l’intervento di numerosi collaboratori e della tecnologia digitale.

 

Dal Notes magico al flusso

Un secolo fa, quando Freud scriveva le sue osservazioni sul “Notes magico”, difficilmente avrebbe potuto immaginare che, nell’arco di alcuni decenni, la rivoluzione tecnologica avrebbe trasformato quel supporto per la memoria in un oggetto da museo e ridefinito la condizione dell’essere umano in modo imprevedibile.

Oggi, quell’ individuo che Freud esortava a riconoscere di “non essere più padrone in casa propria” (Freud, 1922) vive immerso in una dimensione “onlife” (Floridi, 2015), dove reale e digitale si intrecciano in modo inestricabile. Condizione, questa, che inevitabilmente rilancia e al tempo stesso sovverte la questione – già centrale nella teoria freudiana – dell’ambiguità dei confini interno esterno, Io altro, realtà finzione descritta nelle topiche freudiane e nelle dinamiche psichiche in esse contenute. Non più di oggetti concreti che fungono da supporto alla memoria ma un accesso immediato e potenzialmente illimitato all’informazione e alla connessione con l’altro. Ne deriva una trasformazione radicale della concezione del corpo che da entità organica e delimitata diviene interfaccia fluida, ibridata dalla tecnologia e sempre più iscritta in reti di connessione (Haraway, 1985; Braidotti, 2009, 2013).

 

Eppure, nonostante queste profonde differenze, mi è sembrato di cogliere un possibile punto di contatto tra il grande esploratore dello psichico e la pittrice; pur operando in ambiti distinti e con intenti differenti, entrambi si confrontano con la necessità di costruire un linguaggio astratto capace di dare forma all’invisibile: il primo attraverso un sistema teorico che mira a rappresentare il funzionamento psichico dell’individuo, la seconda attraverso una ricerca visiva che esplora la complessità del presente.

“Come costruire un linguaggio astratto capace di descrivere questo momento storico e culturale? E, soprattutto, dove si collocano l’azione e la persistenza?” (Mehretu, 2024, p. 258).

E’ da questo duplice l’interrogativo che prende forma la ricerca di Mehretu le cui opere – nate dall’intreccio tra gesto, l’azione pittorica e precisione digitale – danno forma ad un universo entropico in cui l’enorme quantità di informazioni si muove in un equilibrio instabile tra cancellazione e persistenza.

Sorprende, tuttavia, come, pur separati da un centinaio di anni e operando attraverso registri diversi, entrambi, abbiamo saputo immaginare e rendere visibili luoghi/spazi virtuali in cui un’enorme quantità di dati, iscrizioni, tracce si muovono e si trasformano in relazione al tempo.

Così come l’inconscio non elimina le tracce ma le rielabora attraverso sovrapposizioni e riscritture, anche i dipinti di Mehretu costruiscono luoghi in cui ogni segno, pur potendo emergere o scomparire in base alle diverse circostanze offerte dal presente, non si dissolve mai del tutto.

Da questa prospettiva, la sua opera sembra restituire in chiave visiva e contemporanea tanto il modello archeologico rappresentazionale della prima topica (associatività, rimozione, ricordo), quanto le dinamiche interno/esterno, i confini sfumati, l’ambiguità, i processi di trasformazione e legame propri di quella seconda; di quella seconda topica che proprio nel momento in cui mira a rappresentare concettualmente l’individuo, lo elimina dalla sua rappresentazione visiva.

Resta però fondamentale ricordare che “l’individuo è […] un Es psichico, ignoto e inconscio” (Freud, 1922, p. 486), e che “ciò che chiamiamo Io non è altro che una particolare evoluzione dell’Es, determinata dall’influenza che il mondo esterno esercita su di esso (1922, 1932, 1938). In linea di massima la teoria freudiana escludere un contatto diretto tra l’Es e la realtà esterna fatta eccezione per quella piccola area dell’Es che presenta un’assenza di confine con la realtà esterna (1932) e di cui Freud, in maniera assai curiosa, lascia ai posteri solo una traccia visiva (l’ovoide del 1932) senza spendere parola alcuna. Traccia visiva che stimola il pensiero di un individuo “non solo incompleto, non solo fratturato o scisso ma anche indefinito” (Semi, 2009, p. 45).

 

Quali differenze e somiglianze esistono allora – se esistono – tra un individuo così concepito come incompleto, fratturato, scisso e indefinito, e la molteplicità del soggetto post-moderno? Come distinguere le leggi dell’Es – l’atemporalità che in esso domina, l’assenza di contraddizioni e di antinomie, la ricerca del piacere – dal soggetto contemporaneo, che si struttura nel fluire costante del movimento, nel transito – sia esso migratorio, culturale o politico – nel rifiuto delle categorie rigide e fisse, nella ricerca di dialogo, ricerca di nuove modalità espressive?

 

Psicogeografie dell’invisibile

Osservando la pittura di Julie Mehretu da una prospettiva freudiana, ci si può domandare se la forza della sua opera non consista proprio nel “rendere visibile l’invisibile” (Pontalis, 2014, p. 48) portando in superficie ciò che di norma resta celato nei recessi del lavoro psichico. Come già osservato, la sua “poetica della stratificazione” dà luogo a spazi virtuali in cui linee, segni e frammenti si sovrappongono come resti di un tempo non lineare generando paesaggi che sono insieme mappa, memoria e figurazione. Qui le tracce si incontrano, si rincorrono, si dislocano aprendosi, infine, come ogni cartografia che si rispetti, a luoghi a venire.

Il fatto è che nell’opera di Mehretu il concetto di “cartografia” può essere intenso secondo tre accezioni diverse ma sfumanti l’una nell’altra.

La prima è quella classica, geografica: Mehretu parte da mappe reali, da planimetrie urbane, da coordinate spaziali e poi le frammenta, le ricompone secondo logiche centrifughe che trasformano la mappa in un luogo di tensione, conflitto, possibilità.

La seconda, tipicamente cyberfemminista, non descrive dall’alto ma si costruisce nel percorso, nella relazione, nella molteplicità dei punti di vista. È la cartografia del nomadismo teorico e politico, della differenza intesa come apertura, delle “psicogeografie dello spazio”[3] (Palazzo Grassi/Fondazione Pineault, 2024).

La terza, forse la più inattesa, è quella che possiamo definire cartografia psichica: una sorta di traduzione visiva – certamente non intenzionale – di alcuni nodi della teoria freudiana, in particolare quelli legati alla prima e seconda topica. La stratificazione, l’intreccio temporale, la presenza di tracce parzialmente cancellate o riemergenti, rimandano a un modello della mente non unitario né stabile, ma segnato da forze che si sovrappongono, si scontrano e si sedimentano nel tempo. La tela diventa luogo che accoglie una scena interna, dove le pulsioni, le memorie, i resti si articolano in forme nuove.

Questa apertura al molteplice – geografico, psichico, affettivo – risponde all’urgenza contemporanea e politica di ripensare i confini dello psichico non più in termini stabili, ma come un territorio fluido, eterogeneo, contaminato.

 

Ma questa urgenza, che oggi si impone con tale forza sul piano politico-culturale era già stata psicoanaliticamente raccolta da Lorena Preta quando, alla fine degli anni Novanta, invitava a costruire “nuove geometrie della mente” (1999), capaci di mettere in relazione esperienze, discipline e linguaggi diversi al fine di creare uno “spazio elaborativo trasversale, in cui le fantasie originarie possano entrare in dialogo con le novità imposte dalla realtà esterna” (p. 18).

In questo senso l’artista afro-americana incarna una pratica volta a mettere in scena la trasformazione del soggetto in relazione alla realtà esterna: la sua posizione queer, la scelta di un’arte relazionale e collettiva, il rifiuto del genio solitario a favore di un sapere condiviso. Ogni atto creativo nasce dall’esperienza vissuta, da un sapere che si radica nel corpo e nella memoria, e che diventa resistenza alla disumanizzazione (Mehretu, 2024). È solo attraverso questa esperienza – concreta e non mediata – che possiamo emergere da una realtà contorta, in cui “non possiamo essere sicuri di ciò che vediamo o sentiamo perché molte cose vengono manipolate attraverso l’IA e i computer”; una realtà in cui ci domandiamo “che cosa è reale e che cosa non lo è? Che cosa è questa narrazione? […] Gli artisti di colore, quelli esiliati e quelli che si sono visti negare l’umanità hanno dovuto fare affidamento su un’ostinazione interiore, immaginata collettivamente, ed è a questo spazio collettivo di conoscenza che si rivolgono molti creativi (Mehretu, pp. 257-259).

Un’arte politica, dunque, e profondamente etica. Un’arte che non pretende di risolvere le contraddizioni del presente, ma le raccoglie, le mette in forma, rendendole pensabili. Un’arte che al pari della psicoanalisi indaga l’interiorità del soggetto nel suo legame con le differenze: tra culture, tra memorie, tra saperi. E che, come una cartografia a venire, prova a disegnare – pur senza garanzie – i contorni mobili di uno spazio psichico nuovo, dove il pensiero possa ancora trovare dimora visiva.

 

L’ascolto nell’arte contemporanea: tra pratica estetica, istanza politica e deriva conformista

L’arte ha sempre intrattenuto un dialogo con la scienza, la conoscenza e, in tempi più recenti, con la psicoanalisi. Viene spontaneo domandarsi se questo rapporto di contiguità sia ragione sufficiente a spiegare la crescente frequenza con cui il tema dell’ascolto – elemento centrale dell’esperienza analitica – emerge dall’orizzonte dell’arte contemporanea, fino a configurarsi come traccia che attraversa i territori della politica, della memoria e dell’alterità.

Nelle più recenti edizioni della Biennale di Venezia, l’ascolto sembra operare come elemento trasversale che incide nell’alternanza di esposizioni dedicate all’Arte e all’Architettura.

Nella Biennale di Architettura del 2023 – “Laboratorio del futuro” – a cura di Leslie Lokko, esso emerge come invito latente che attraversa i diversi padiglioni, quasi a delineare il sapere architettonico come un’arte dell’ascolto – dell’altro, del presente e del divenire – declinato attraverso le istanze della diaspora africana e l’urgenza della decolonizzazione. Similmente, nella Biennale d’Arte del 2024 “Stranieri Ovunque”, curata da Adriano Pedrosa, lo straniero – inteso come queer, migrante, nomade, indigeno – diviene paradigma della contemporaneità. Al suo interno, il Padiglione Italia, con Due qui / To Hear di Massimo Bartolini, rende l’ascolto la struttura portante di un’esperienza etica ed estetica: un’immersione sonora che trasforma lo spazio espositivo in un ambiente in cui l’udire rifiuta la passività e diviene “atto”, pratica relazionale, postura epistemologica, dispositivo che interrompe la continuità del già noto per accogliere il perturbante, l’”estraneo familiare” (Freud, 1919), l’indecifrabile, ciò che è fuori dalla sintassi dominante.

“Nel tendere l’orecchio, che è una forma di inazione, tace l’Io, presupposto di differenziazioni e delimitazioni. L’Io che tende l’orecchio si immerge nel tutto, nell’illimitato, nell’infinito” (Byung-Chui Han, 2023 cit. da Luca Cerizza, 2024).

Nella Biennale di Architettura 2025 di prossima apertura, “Intelli-gens”, il curatore Carlo Ratti riprende il tema dell’impatto della crisi ambientale, proponendo una visione in cui l’architettura deve reinventarsi integrando intelligenza naturale, artificiale e collettiva. Il titolo, che richiama il latino gens (gente), sottolinea la necessità di un approccio capace di coniugare tradizione, innovazione e partecipazione interdisciplinare; un’ibridazione dei codici, dunque, volta ad espandere l’esperienza oltre i confini umani e terrestri e che si articola in tre sezioni (Natural Intelligence, Artificial Intelligence e Collective Intelligence).

Queste tre edizioni, pur affrontando temi apparentemente diversi – l’Africa e la diaspora, la condizione di straniero e l’integrazione tra intelligenza umana e artificiale – risultano legate da un denominatore comune: l’ascolto e l’apertura all’altro come strumenti essenziali per favorire il dialogo interculturale, il superamento del pensiero binario e il ripensamento del rapporto tra uomo, tecnologia e ambiente. Tutti aspetti che compaiono anche nella pratica artistica di Julie Mehretu al punto da sollecitare un quesito fondamentale: questo filo rosso, questo trait d’union, non rischia, forse, di tradursi in un’indicazione conformista. L’arte contemporanea, quando si allinea alle logiche dell’infosfera, della risonanza e della visibilità, rischia facilmente di appiattirsi rendendo labile il confine tra una pratica originale e trasformativa e una deriva conformista.

Ed è proprio qui che si delinea la differenza tra ascolto analitico e ascolto del contemporaneo: se il primo implica sospensione del giudizio e disposizione ad accogliere l’ignoto o quel che si conosce da sempre senza saperlo, il secondo sembra inscriversi in una logica ripetitiva in cui la forza di un’opera si misura attraverso un codice estetico e concettuale già dato, piuttosto che attraverso la sua capacità di generare interrogativi e sollecitare risposte individuali e inattese. Quando l’opera diviene “narrazione del contemporaneo”, rischia di trasformarsi in una retorica del tempo che soffoca la libertà e l’autonomia individuale.

L’ascolto, per mantenere vitalità, deve farsi sospensione, zona ambigua al cui interno il pensiero oscilla tra fantasia e realtà, incrocia metaforicamente le due “topiche”, insegue le tracce, scopre le stratificazioni operate dal tempo e apre nuovi percorsi.

 

In questo percorso di riflessione, ho dato ascolto alle mie associazioni. Dopo grandi digressioni tra passato e presente, continuo ad interrogarmi se il soggetto contemporaneo nella sua “molteplicità”, nel suo essere “collettivo e plurale” sia davvero così diverso dall’ individuo aperto, incompleto e indefinito (Semi, 2009) che la psicoanalisi ha posto al centro della ricerca dalle sue origini[4] sino alla formulazione di un testo – l’Io e l’Es – che apre la strada a molte ipotesi e anticipazioni degli sviluppi futuri e contemporanei.

Ancora non ho trovato una risposta definitiva.

 

Bibliografia

Agamben G. (2008). Che cos’è il contemporaneo? Roma, Nottetempo.

Balsamo M. (2019). Ascoltare il tempo presente. Tempo e storia nella cura psicoanalitica. Milano, Mimesis Editore.

Braidotti R. (2018). La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea. In D. Haraway (1991) Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo. Milano, Feltrinelli.

Braidotti R. (2024). In Metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire. Roma, Castalvecchi. 

Byung-Chul H. (2023). Vita contemplative o dell’inazione. Milano, Nottetempo, 2023.

Cerizza L. (2024). Ascolto come incontro in Due qui/to Here. Padiglione Italia Biennale 2024.

Cordioli A. (2022). Social and a-social Psychoanalis. Challenges and frustration in overcoming our ideal’s comfort-zone. (Speech, FEP, Vienna, 2022).

Falguières P. (2024). Tra lusco e brusco. In Ensamble. Pesaro, Marsilio Arte, 2024.

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Mehretu J. (2003). Conversazione con David Binkley e Kinsey Katchka, A conversation with Julie Mehretu, in Ethiopian Passeges. Dialogues in Diasphora, catalogo della mostra (Washington D.C., National Museum of African Art, Smithsonian Istitution, 2 maggio -7 dicembre 2003).

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Trione V. (2021). Artivismo. Arte, politica, impegno. Torino, Einaudi.

 


NOTE:

[1] La traccia è l’elemento che nel sistema mnesico corrisponde alla percezione del sistema P-C (Freud, 1924).

[2] “I sistemi psichici corrisponderebbero più a dei punti virtuali situati tra due lenti che non ai suoi pezzi materiali” (Laplance e Pontalis, p.603). 

[3] Definizione tratta dall’ handout di sala curato da Palazzo Grassi/Fondazione Pineault (2024).

[4] Molteplicità delle personalità psichiche: l’identificazione permette di prendere alla lettera questa frase (Freud, 1897, p. 59).

Silvia Mondini, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

silvia.mondini36@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Mondini S. (2025). Dal Notes Magico all’Infosfera: Traccia e Ascolto nell’Opera di Julie Mehretu. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 93-109.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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