Onirica (): quando l'IA sogna. Arte, algoritmi e psicoanalisi

di Elisabetta Marchiori

(Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi..

*Per citare questo articolo:

Marchiori E, (2025). Onirica (): quando l’IA sogna. Arte, algoritmi e psicoanalisi. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 71-92.

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Varcare la soglia di Onirica ()[1]

Era il tardo pomeriggio di una domenica autunnale del 2023 quando, passeggiando per Padova, la mia città, il mio sguardo è stato attirato da un manifesto dove, su uno sfondo dalle diverse sfumature di grigio, risaltava la scritta Onirica () fuse*. Questa cosa misteriosa si trovava nella Chiesa di Sant’Agnese, piccolo luogo di culto di origine medioevale nel centro della città. Sconsacrata nel 1949, la ricordavo come sede di un’officina e poi chiusa, in stato di completo degrado. Mi ci sono recata incuriosita, trovandomi dinanzi a un edificio magnificamente restaurato, scoprendo che da pochi mesi era stato restituito alla città come La nuova Sant’Agnese[2], spazio culturale e sede della Fondazione Alberto Peruzzo. Sono entrata senza sapere cosa aspettarmi, per trovarmi in un luogo immerso nella semi-oscurità, vibrante di voci e suoni.

Di fronte a me, su un grande schermo quadrato, veniva proiettato un flusso continuo di immagini in movimento, che si plasmavano e trasformavano sotto i miei occhi: ecco Onirica ()! Sulle pareti laterali e la volta scorrevano veloci, stagliandosi biancheggianti, le frasi pronunciate da voci sussurranti e discontinue, frammenti di frammenti di racconti che capisco immediatamente essere di sogni.

Sono rimasta avviluppata, quasi ipnotizzata, in un’esperienza polifonica e polisensoriale, in cui la percezione di suoni, immagini e spazio mi trasportava nella dimensione del sogno, quasi incarnandola.

Delle poche persone che si trovavano all’interno, di cui potevo distinguere solo i contorni, alcune rimanevano immobili, altre si aggiravano intorno lentamente, altre ancora si dirigevano a passi rapidi verso la sala illuminata oltre lo schermo oppure verso l’uscita, quasi a voler sfuggire a quella sorta di risucchiamento perturbante.

Ero avvolta in uno spazio dove i confini tra mondo interno ed esterno, immaginazione e realtà, si dissolvevano, e anche il tempo sembrava perdere consistenza, sospendendosi nel fluire dei sogni.

Con gli occhi fissi sullo schermo, popolato di forme, luci e ombre, la mia attenzione fluttuava, pronta a cogliere sequenze di immagini emerse da sogni altrui, che si agganciavano a quelle già impresse nel mio schermo interiore, risvegliando memorie sopite. I suoni, come corde invisibili, facevano vibrare il corpo. A tratti ho avuto la sensazione di essere trasportata dentro a un mio sogno, oppure di riconoscere brandelli di sogni affiorati nella stanza d’analisi.

Uno stimolo, visivo o sonoro, deve avermi sottratta a quella sorta di trance, spingendomi ad esplorare la stanza al di là dello schermo, dove ho trovato una serie di pannelli esplicativi da cui ho tratto le prime risposte alle domande che stavano affollando la mia mente. Questa esperienza, in après-coup, ha stimolato in me molteplici interrogativi, aprendo orizzonti su questioni estremamente complesse.

Ha stimolato in me molteplici interrogativi, incuriosendomi e facendomi affacciare a questioni affascinanti ed estremamente complesse.

Onirica () affascina e provoca il suo fruitore, soprattutto se psicoanalista: entra nel mondo del sogno, territorio dell’inconscio per eccellenza, indicando sentieri che, per me, si addentrano in selve oscure.

Onirica () si pone al confine tra sogno, scienza, tecnologia e arte: come potevo districarmi in ambiti che esulano dalle mie specifiche competenze ma che da sempre mi intrigano, o che, quando pertinenti, avrebbero richiesto la revisione di una bibliografia sconfinata? A questo punto mi son sentita cadere nella trappola della “sindrome del millepiedi”: più riflettevo su da dove iniziare e sulla vastità degli orizzonti di conoscenze che mi si aprivano davanti, più mi sentivo incapace di orientarmi. Ho cercato di capire, leggendo i testi raccolti nel Quaderno n. 5 (2023), pubblicato dalla Fondazione stessa ed esplorando vari siti[3] per capire che opera sia Onirica (), quali artisti l’abbiano creata, come e con quali aspirazioni.

Sono poi riuscita a superare l’impasse seguendo le mie libere associazioni e trasformandole in spunti per alcune riflessioni, senza alcuna pretesa di esaustività.

 

Anatomia del sogno artificiale

Onirica () è un’opera audiovisiva creata dallo studio fuse*[4], un collettivo artistico multidisciplinare fondato in Italia nel 2007, diretto da Luca Camellini e Mattia Carretti. Questo si dichiara impegnato a esplorare le possibilità espressive delle tecnologie emergenti e la loro relazione con l’essere umano, con l’obiettivo di interpretare la complessità dei fenomeni umani, sociali e naturali. Utilizza dati scientifici per generare installazioni multimediali e performance che fondono estetica e contenuto, combinando immagini, luce, spazio, suono, movimento, allo scopo di produrre esperienze sensoriali profonde nel fruitore. Le opere di fuse* sono riconosciute a livello internazionale e sono esposte in diversi spazi d’arte contemporanea e festival.

Nel caso di Onirica () gli artisti hanno utilizzato algoritmi di IA (Intelligenza Artificiale) per trasformare racconti di sogni in una sequenza di cortometraggi che si fondono uno nell’altro, dando vita a personaggi, oggetti e paesaggi in un flusso continuo di visioni oniriche.

I paesaggi sonori diffusi nell’ambiente sono progettati in modo tridimensionale, così da dare l’impressione di provenire da più direzioni, e le voci affiorano in modo discontinuo, richiamando la natura enigmatica dell’esperienza onirica. Questa scelta narrativa crea una tensione costante tra ciò che è comprensibile e ciò che sfugge, tra intelleggibilità e indecifrabilità, rispecchiando l’andamento tipico del sogno.

Questo progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione con le Banche dei Sogni dell’Università di Bologna e dell’Università della California Santa Cruz[5]. L’incontro tra artisti e ricercatori ha permesso di selezionare trenta racconti di sogni da un totale di 28.748 raccolti da volontari che hanno partecipato a sessioni di ricerca delle due Università. La scelta è stata determinata dalla ricchezza degli elementi visivi, dall’originalità e dai temi particolarmente coinvolgenti delle trame oniriche, riflettendo anche l’alternanza delle fasi NREM e REM del sonno.

Onirica () è stata presentata in anteprima italiana a Padova anzitutto in continuità con la lunga e consolidata tradizione di studi psicologici sperimentali legati alla percezione, alla visione e alle arti visive. Essa affonda le sue radici nella storica Scuola di Psicologia della percezione della sua Università, una delle più prestigiose in Italia e in Europa, fondata nel 1919. La sua fama è legata agli studi di figure di spicco come Vittorio Benussi, pioniere nelle ricerche sull’illusione ottica, e allo psicoanalista Cesare Musatti, considerato non solo uno dei fondatori della psicologia moderna italiana, ma anche il primo ad interessarsi del rapporto tra cinema, sogno e psicoanalisi. Egli ha evidenziato come le immagini cinematografiche, attraverso il loro potere evocativo, siano in grado di portare alla luce emozioni e conflitti interiori, e a sollecitare dinamiche psichiche profonde, toccando direttamente le corde dell’inconscio (Musatti, 2000).

Tale continuità riguarda inoltre l’ambito artistico. Infatti, negli anni ’60 Padova è stata il centro di un importante movimento noto come Gruppo N, formato da artisti interessati a esplorare l’interazione tra arte e percezione visiva, secondo i quali il pubblico è parte integrante dell’opera che, attraverso la percezione soggettiva, completa il significato delle creazioni. Testimone dei rapporti fra la ricerca scientifica e quella artistica delle avanguardie ottico-cinetiche è stata la straordinaria Mostra “L’occhio in gioco. Percezioni, impressioni e illusioni nell’arte”[6]. Onirica () appare porsi proprio in questa sorta di processo evolutivo scientifico, tecnologico e artistico.

L’IA applicata nell’analisi dei resoconti onirici, nella decodificazione dell’attività cerebrale, nella generazione di scenari artificiali e in ambito clinico sta ampliando enormemente le prospettive di ricerca sul sogno.

Consentendo interconnessioni inedite con le scoperte e le ricerche delle discipline tradizionali — come psicoanalisi, psicologia, psichiatria e neuroscienze — Onirica apre a un approccio multidisciplinare sempre più integrato, con ricadute sia sulla comprensione scientifica sia sulle applicazioni cliniche e creative. Da un lato, coinvolge scienziati di diversi ambiti: matematici e fisici, che elaborano modelli teorici per comprendere i sogni; linguisti computazionali, che analizzano il linguaggio onirico; ingegneri biomedici, che progettano dispositivi per monitorare e influenzare l’attività onirica. Dall’altro, chiama in causa artisti contemporanei, interessati a sperimentare le potenzialità creative dell’intelligenza artificiale.

 

Fabbriche di sogni nella mutazione digitale

È al cinema a cui penso immediatamente, come i più della mia generazione, come alla “fabbrica dei sogni” per eccellenza, ai film che avvolgono in atmosfere oniriche o mettono in scena sogni, opere di tanti acclamati registi (ricordo tra i tanti Buñel, Fellini, Hitchcock, Bergman, Lynch, Kurosawa, Nolan).

Onirica () i sogni li fabbrica, letteralmente, ed è stata installata in un contesto architettonico che mi ha evocato il Cinema Sala Pégasus di Spoleto, ospitato in una piccola chiesa medievale sconsacrata, quella di San Lorenzo. Lì, durante il Festival dei Due Mondi, si è svolta per diversi anni la Rassegna di Cinema e Psicoanalisi, di cui ho curato tre edizioni insieme a Claudia Spadazzi. Assistere alla proiezione di un film in quella sala, in compagnia di colleghi e cineasti, amplifica la possibilità — offerta dal buio di ogni proiezione — di entrare in quello che Metz (1977) definisce “stato filmico”: una “trance percettiva” di natura ipnotica, caratterizzata da una sovra-percezione che stimola tutti i sensi, accompagnata da una sottomotilità e da una riduzione della vigilanza, favorendo così la sospensione dell’interesse per il mondo esterno. Come nel sogno, anche al cinema ciò che affiora da scenari e trame è l’appagamento del desiderio, mentre lo schermo si trasforma in uno spazio di proiezione di conflitti e fantasie inconsce (Marchiori, 2017)

Il cinema tradizionale organizza immagini e suoni in una narrazione lineare, coinvolgendo lo spettatore, che rimane fermo, in un flusso temporale scandito da una sequenza predefinita. Si tratta di un’arte capace di modellare, in particolare, la percezione del tempo, mentre la video-installazione enfatizza l’interazione del corpo del fruitore con lo spazio, trasformando l’ambiente espositivo in parte integrante dell’opera. In entrambi i casi, però, l’incontro tra la psiche dello spettatore e l’universo emozionale del film o dell’opera mette in gioco l’irripetibile soggettività individuale, evocando fantasie consce e inconsce, attivando dinamiche di identificazione e proiezione, intrecciando tracce visive mnestiche e stimolando l’immaginazione, in un processo di costruzione di nuovi significati.

Un’opera come Onirica () sembra collocarsi al confine tra il cinema sperimentale e la video arte, condividendo entrambi una ricerca sulla forma, sul tempo e sul rapporto tra immagine e suono, insieme alla volontà di rompere con le tradizioni artistiche e di aprire nuove possibilità espressive (Tosi e Tosi, 2014). Precursori della video arte sono stati proprio gli artisti del Gruppo N, così come i rappresentanti dell’arte cinetica, dell’Op Art e artisti come Marina Apollonio[7]. Pur operando in ambito diverso, tra la loro e la video arte esistono affinità concettuali e punti di contatto, tra cui in particolare l’uso della tecnologia, che negli ultimi decenni sta rivoluzionando l’arte visiva e, in generale, le molteplici tipologie di audiovisivi di cui il cinema è “il generatore originario” (Simonigh, 2020, 15). Nel suo libro Il sistema audiovisivo. Tra estetica e complessità, Chiara Simonigh adotta un approccio ispirato alla “teoria della complessità” di Edgar Morin e ai suoi scritti sul cinema (Morin, 1956, 2018)[8], per descrivere come il sistema audiovisivo sia un fenomeno multidimensionale, che modella e riflette la cultura contemporanea. L’autrice lo definisce un “ecosistema interconnesso” che richiede, per essere studiato, una “inter-trans-disciplinarietà di teorie e metodi” (ibid. 17). I media audiovisivi rappresentano sempre più un sistema attraverso il quale il mondo diventa accessibile, comprensibile e interpretabile, fornendoci gli strumenti per interagire con la complessità delle connessioni che caratterizzano il nostro tempo. Essi costituiscono anche un habitat culturale ed estetico che viviamo quotidianamente e che, allo stesso tempo, contribuisce a modellare chi siamo. Gli audiovisivi si configurano così al contempo il prodotto e il motore dello sviluppo complesso dell’essere umano, della sua capacità di conoscere, sentire e interpretare la realtà.

L’IA è l’artefice principale di questa mutazione rivoluzionaria e riguarda tutte le espressioni dell’arte e in particolare dell’audiovisivo, non solo per gli aspetti tecnici (montaggio, suono, effetti speciali). Sta infatti assumendo un ruolo sempre più centrale, sia come strumento per generare immagini, animazioni e ambienti immersivi, sia come elemento integrato nelle narrazioni, sia per creare personaggi interattivi capaci di rispondere dinamicamente alle azioni dello spettatore.

Basti pensare che dal 2017 la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia ha una sezione interamente dedicata alle opere di realtà virtuale e alle nuove forme narrative rese possibili dalle tecnologie digitali, inclusi film in VR, esperienze interattive, installazioni immersive e progetti di realtà aumentata: la Venice Virtual Reality. Questo riconosce il ruolo cruciale della IA nel futuro della narrazione audiovisiva. Inoltre, nel 2024 Replay[9] ha proposto per la prima volta nell’ambito della mostra l’IA film festival, con il titolo Synthetic Stories, Human Hearts, una competizione internazionale di cortometraggi realizzati interamente o parzialmente con l’IA.

 

Tra inconscio psichico e inconscio tecnologico

Gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheep?) è il titolo del romanzo di Philip K. Dick (1968), diventato cult grazie alla trasposizione cinematografica Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Questo scrittore visionario è stato uno dei più straordinari anticipatori di quel futuro tecnologico che è diventato il nostro presente e del suo impatto sull’umanità. Dick ha immaginato mondi dominati da tecnologie invasive, dimensioni aliene e alienanti, esplorando territori che, negli anni ’50 e ’60, sembrava potessero esistere solo in una sua mappa fantastica. Ha descritto intelligenze artificiali, psichiatri virtuali, androidi capaci di provare empatia, ponendo domande cruciali sull’identità e sul confine tra essere umano e macchina, reale e artificiale, tra immaginazione e creazione tecnologica, dove il sogno è lo snodo cruciale.

La sua “pecora elettrica” è un surrogato artificiale degli animali reali in un mondo devastato, dove pochi privilegiati possono permettersi di possederne di reali, ed è il corrispettivo dell’androide o replicante. Il termine deriva dal greco ἀνήρ (uomo) e εἶδος (aspetto, forma), e indica un automa dalle sembianze umane, dotato di IA e di capacità avanzate di interazione con gli esseri umani.

I protagonisti della nota storia sono Rick Deckard, cacciatore di taglie incaricato di catturare e disattivare un gruppo di androidi ribelli, capeggiati da Roy Baty, che rifiutano la loro condizione di assoggettamento agli esseri umani. Sia nel romanzo sia nel film, benché con alcune differenze, pur non essendo al centro della narrazione in modo esplicito, i concetti di sogno e di inconscio rimangono sempre sottesi, sollevando una serie di questioni sull’identità, la differenza tra umano e macchina e le relazioni tra psiche e IA. Gli umani cercano un significato alla loro esistenza attraverso sogni, desideri e illusioni, e gli androidi? Nel romanzo sanno di non essere umani e non possono sognare, ma nella versione cinematografica il confine diventa più labile. La loro natura artificiale è messa in dubbio dal fatto che possiedono memorie impiantate: se hanno ricordi, desideri e sogni, sono ancora macchine?

Il Directors Cut di Blade Runner del 1992, rispetto alla versione originale, inserisce una scena in cui Deckard sogna un unicorno che corre in una foresta. Questo elemento è cruciale perché suggerisce che lo stesso Deckard potrebbe essere un replicante.

Alla fine, la domanda originale di Dick rimane aperta: è sognare ciò che ci rende umani? Eppure, nella mente risuona l’indimenticabile monologo di Roy Batty — che non compare nel romanzo ma è stato scritto per il film: ‘I’ve seen things you people wouldn’t believe […] All those moments will be lost in time, like.

I sogni prodotti da Onirica hanno dunque qualcosa in comune con i sogni dei replicanti in Blade Runner perché, come quelli, sono costruzioni artificiali, frutto delle memorie impiantate dall’esterno, ma sono esperiti come autentici. Entrambi non nascono da un’attività prettamente inconscia, ma diventano reali nella memoria del soggetto. Se i replicanti possono produrre sogni programmati, sviluppare empatia e emozioni genuine, anche un sogno creato da Onirica, esperito dallo spettatore, può lasciare un segno emotivo e diventare parte della sua biografia psichica.

I sogni di Onirica () hanno qualcosa in comune con quelli dei replicanti in Blade Runner. Sono costruzioni artificiali ibride, emergenti dall’interazione complessa di diversi soggetti: i sognatori, l’IA, gli artisti, il pubblico. L’IA, che ha accesso a narrazioni di sogni reali, traduce e rielabora racconti di sogni attraverso reti neurali, ma è l’intervento degli artisti a dare forma e significato a questo materiale. Con la loro sensibilità e il loro inconscio selezionano, impartiscono istruzioni come registi, dando vita a un’estetica che mescola il linguaggio algoritmico con l’immaginazione umana. Francesco D’Isa nel suo libro La rivoluzione algoritmica delle immagini. Arte e intelligenza artificiale (2024), sottolinea come gli algoritmi siano “strumenti che hanno bisogno di umani che li sanno usare” (ibid., p. 34) per co-creare arte. Tra questi e l’artista si instaura un dialogo generativo sinergico dalle frontiere nebulose, poiché lo spazio creativo di una IA viene plasmato dai dati forniti ed etichettati da esseri umani. Inoltre, il suo potenziale risulta condizionato dall’addestramento ricevuto, dalle limitazioni imposte e dall’assenza di determinate funzioni.

Qui interviene un altro protagonista, “l’inconscio tecnologico”, una sorta di estensione del concetto freudiano di inconscio, quel sistema psichico dotato di proprie dinamiche di funzionamento in cui risiedono contenuti che sfuggono alla coscienza, ma ne determinano il comportamento, il pensiero e l’affettività e che emergono attraverso sogni, lapsus, atti mancati, creatività e produzioni artistiche, sintomi nevrotici (Freud, 1915).

Pioniere di questa riflessione in ambito artistico è stato Franco Vaccari (1979), che ha teorizzato “l’inconscio tecnologico della fotografia”. Secondo questo artista, l’immagine non è solo un prodotto intenzionale dell’autore, ma è il risultato di un processo in cui da un lato la macchina fotografica registra aspetti imprevedibili della realtà, dall’altro produce esperienze estetiche autonome, cui il soggetto partecipa inconsapevolmente. Prima di lui, nel saggio Lopera darte nellepoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Walter Benjamin aveva proposto l’idea di “inconscio ottico”. Un contributo fondamentale a questa riflessione è stato dato anche da Gilles Deleuze e Félix Guattari (1972), che hanno ridefinito l’inconscio come una “macchina desiderante”, un sistema produttivo che genera connessioni e flussi di energia senza essere governato dalla mancanza. Guattari, nel suo saggio L’inconscio macchinico (1979), ha approfondito questa prospettiva, mostrando come l’inconscio sia influenzato da reti tecnologiche, strutture sociali e dispositivi mediali. Questa visione si lega all’idea di inconscio tecnologico, poiché anche le IA e i sistemi digitali funzionano come macchine desideranti, producendo continuamente associazioni, contenuti e simulazioni che interagiscono con il desiderio umano. In questa prospettiva, Onirica () non si limita a rappresentare sogni, ma li fabbrica appunto, attivando un flusso in cui l’inconscio del fruitore si connette all’inconscio tecnologico in un’esperienza onirica ibrida.

Pietro Montani (2014) ha sviluppato il concetto di “immaginazione tecnologica”, mostrando come i media digitali non siano meri strumenti passivi, ma dispositivi attivi che trasformano la nostra sensibilità e il nostro modo di esperire il mondo.

Nelle loro velocissime evoluzioni, oggi il digitale e l’IA possono essere visti come un nuovo archivio dell’esperienza soggettiva, una memoria esternalizzata e automatizzata. Maurizio Ferraris (2021) ha parlato di “documanità”, sottolineando come ogni interazione digitale lasci tracce e registri un’enorme mole di dati, creando un serbatoio di informazioni capace di influenzare la nostra percezione e il nostro comportamento in modo inconsapevole. Inoltre, nel suo lavoro più recente scritto con Guido Saracco, Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova (2023), ha esplorato l’interazione tra tecnologia e umanesimo, sottolineando l’importanza di una sinergia tra i due ambiti per promuovere un progresso sostenibile.

Bernard Stiegler e Franco “Bifo” Berardi hanno offerto due prospettive complementari ma distinte sull’inconscio tecnologico e il suo rapporto con il desiderio. Esso emerge come un nuovo territorio di mediazione tra soggettività e dispositivo, sollevando interrogativi su come l’esperienza psichica venga ridefinita nell’era dell’IA.

Stiegler (2015) ha evidenziato il rischio che le tecnologie digitali lo catturino e automatizzino, anticipando e orientando i comportamenti, e riducendo progressivamente la capacità dell’individuo di immaginare e desiderare autonomamente. Berardi (2017), invece, si è concentrato sulla mutazione della sensibilità prodotta dalla rete e dall’iperconnessione. L’accelerazione della comunicazione digitale modifica la modalità stessa con cui il desiderio si manifesta, rendendolo frammentato e immediato. Eliminando l’attesa o la mancanza, viene costantemente stimolato e soddisfatto in tempo reale, alterando profondamente la struttura dell’immaginario collettivo. L’inconscio tecnologico, in questa prospettiva, è un ambiente fluido e connettivo, in cui la sensibilità umana è continuamente riformattata dall’interazione con i dispositivi digitali.

Durante il webinar[10] proposto dall’IPA nel maggio 2024 sull’Intelligenza Artificiale, il filosofo Luca Possati, autore di due testi poderosi, The Algorithmic Unconscious: How Psychoanalysis Helps in Understanding IA (2021) e Unconscious Networks: Philosophy, Psychoanalysis, and Artificial Intelligence (2023), ha illustrato come nei suoi studi applica una lente psicoanalitica rispetto alle relazioni tra esseri umani e IA. Questo autore reinterpreta il concetto di identificazione proiettiva in senso bioniano, estendendolo al rapporto tra la mente umana e l’IA. Sarebbe proprio attraverso questo processo inconscio, che è anche una difesa contro contenuti dolorosi e la prima forma di relazione oggettuale e di interazione con la madre e l’ambiente, che il soggetto si relaziona con l’IA. Ha in particolare sottolineato le dinamiche attraverso le quali l’IA può non solo fare emergere contenuti inconsci, in particolare ricordi rimossi, ma anche plasmare l’inconscio stesso.

In questo scenario, Onirica () rappresenta un caso emblematico: un’esperienza immersiva in cui la tecnologia non è solo un mezzo di rappresentazione, ma un dispositivo che crea ambienti onirici, favorendo l’emersione di contenuti inconsci attraverso interfacce sensoriali e algoritmi narrativi, come nel cinema e, in generale nell’audiovisivo. Così il fruitore di Onirica () non è un osservatore passivo, ma interprete e co-creatore, poiché la sua percezione, il suo vissuto psichico e le sue associazioni inconsce attivano e completano l’esperienza. È l’inconscio dello spettatore che riempie i vuoti, costruisce connessioni e dà senso all’esperienza, mettendolo in dialogo con l’inconscio tecnologico.

 

L’algoritmo sul divano

Onirica () lancia una sfida alla psicoanalisi, entrando in un territorio — quello dei sogni e dell’inconscio — che a lungo la psicoanalisi ha ritenuto gli spettasse di diritto.

Appare a tutti gli effetti una creazione che attinge a una sorta di “serbatoio junghiano di icone archetipali” che generano una “manifestazione del nostro inconscio collettivo” (D’Isa, 2024, p. 65). Jung (1928, 1954) riteneva che questo trovasse espressione spontanea attraverso le visioni, i sogni e l’arte. In questo caso, l’algoritmo potrebbe essere visto — anche alla luce del concetto di “inconscio tecnologico” — come un’estensione contemporanea di tale processo, uno strumento che traduce i contenuti archetipici in forme visive accessibili a tutti, facilitando nel fruitore un processo di riconnessione con il proprio inconscio. In questo senso, l’opera potrebbe funzionare come un moderno rito collettivo di iniziazione o un viaggio interiore condiviso, che rimanda ad antichi rituali tribali o alle cerimonie dei misteri greci.

Sorprendentemente, Jung non viene citato da Trevisan, direttore della Fondazione e autore dello scritto dedicato a Onirica () “Il sogno come poesia della mente” (2023), quando sottolinea come l’opera si proponga di aprire “al fascino delle narrazioni oniriche che sono patrimonio di tutti, quasi attingessero a un grande archivio universale di ricordi riposti in vari cassetti da cui tutti prima o poi peschiamo. E che ci spiega qualcosa su quello che è il processo creativo che mette in atto ognuno di noi, artista o meno, regista o meno. Come diceva Borges: ‘Ciascuno di noi è un artista, perché ciascuno di noi sogna'” (ibid., p. 15).

Ancor più sorprendentemente, non viene nominato nemmeno Freud, ma piuttosto lo sviluppo post-freudiano e in particolare bioniano dello studio dei sogni (Bion, 1970), ricordando che questo autore “ha teorizzato che il sognare non è un’attività relegata allo stato di sonno, ma si manifesta anche — e in varie forme— durante la veglia. Senza il sognare continuo, di giorno e di notte, saremmo addirittura privi di strumenti per pensare e risolvere i nostri problemi”.

Quindi provo a mettere in gioco il padre della psicoanalisi, che lo merita uno spazio, chiedendomi che tipo di interrogativi potrebbe suscitare in lui, uomo dei primi anni del secolo scorso, Onirica ().

Sappiamo che già nel 1929 in Il Disagio della Civiltà, Freud descriveva l’uomo come “una specie di Dio-Protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di tutti i suoi organi accessori”. Si riferiva a quelle “acquisizioni della scienza e della tecnica”, a quegli “utensili” che al suo tempo erano i motori, gli occhiali, il grammofono e il telefono, “queste cose non solo appaiono fiabesche, sono in effetti l’appagamento di tutti, o meglio di quasi tutti i desideri delle fiabe”. Profetizzava “nuovi e inimmaginabili passi avanti” negli anni a venire, aggiungendo che questi “organi accessori” non formano un tutt’uno con l’uomo e “gli danno ancora filo da torcere” (ibid., p. 582).

Freud aveva espresso esplicite riserve sul cinema, che riteneva un mezzo inadeguato a rendere la complessità delle sue teorie, resistendo alle lusinghe di registi e produttori hollywoodiani. Tuttavia, era rimasto anche profondamente colpito dall’esperienza della visione delle immagini proiettate in Piazza Colonna: la descrive infatti con entusiasmo in una lettera ai suoi familiari il 22 settembre 1907 da Roma, raccontando di essere stato “completamente ammaliato” (cit. in Brunetta, 1979, pp. 69-70). Era quindi estremamente ambivalente rispetto al fascino della potenza della tecnologia e dell’impatto delle immagini sulla psiche.

E adesso che siamo immersi in un ecosistema digitale e l’IA – che da ausilio strumentale sta diventando parte integrante di nuovi paesaggi psichici – è in grado di riprodurre racconti di sogni, rappresentazioni visibili di contenuti manifesti, immagini al di fuori della nostra mente e al di fuori della stanza d’analisi, e le si attribuisce addirittura un proprio specifico inconscio? Credo si sentirebbe incuriosito e ammaliato, ma anche turbato e diffidente.

Secondo Freud (1899), il racconto del sogno – il contenuto manifesto – è una sorta di enigma attraverso il quale è possibile svelare l’inconscio del soggetto – il contenuto latente – che può emergere solo attraverso le libere associazioni del soggetto e compreso attraverso l’interpretazione dell’analista. Forse penserebbe che Onirica (), traducendo narrazioni in immagini visibili e fruibili, rischierebbe di generare quella che Jean Baudrillard (1981) ha definito “un’illusione di trasparenza”, ovvero la convinzione che qualcosa possa essere compreso solo perché è stato reso visibile. In realtà, come sostiene anche Byung-Chul Han (2012), la trasparenza può essere paradossale: più un’immagine sembra chiara e immediata, più essa si svuota di profondità e significato. Freud avrebbe potuto ritenere la generazione algoritmica di immagini oniriche una sorta di rimozione secondaria, ovvero un tentativo di tradurre il materiale onirico in un’estetica rassicurante e condivisibile, di dare forma visiva al caos del sogno. Avrebbe probabilmente sottolineato il pericolo di una riduzione estetizzante dell’esperienza del sogno, simile a quella operata dalla censura onirica stessa, che potrebbe riflettere il desiderio umano di catturare l’inconscio, che per sua natura resiste alla comprensione immediata.

Un altro interrogativo che Freud potrebbe porsi riguarda il cosa resta della funzione originaria dell’attività onirica. Egli riteneva il sogno un fenomeno irriducibilmente individuale, radicato nella storia e nel mondo interno del soggetto, inseparabile dalla sua esperienza soggettiva. Onirica (), invece, lavora in direzione opposta: estrae il sogno dalla dimensione intima e lo traduce in immagini visibili a tutti, de-soggettivizzandolo: esso non appartiene più solo al sognatore, ma diventa parte di un fenomeno collettivo e pubblico. Questo la avvicina certo alla visione junghiana e a quella bioniana, che fa coincidere il sogno con la capacità di pensare, ma ne sottolinea anche la valenza comunicativa, dando forma a uno spazio intersoggettivo in cui i sogni diventano punti di contatto tra menti sconosciute.

Di fatto, il progetto Onirica () di fuse* non avanza certo la pretesa di proporre una nuova o alternativa “via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio” (Freud, 1899, p. 553). Tuttavia, prima dell’interpretazione, anche nella stanza d’analisi si producono immagini, quelle proposte dal paziente con i suoi racconti, quelle proposte dall’analista stimolato dalle parole del paziente, quelle costruite insieme dalla coppia analitica, attivando quel “cinema mentale” dell’immaginazione, “che non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore”, di cui ha scritto Italo Calvino (1988, p. 93). In una prospettiva intersoggettiva e relazionale, al di là delle dinamiche transferali, le immagini assumono valenza comunicativa, favoriscono lo scambio affettivo e diventano indicatori del funzionamento dell’apparato psichico, anche in dimensioni gruppali (Mangini, 1999).

Calvino ha ripreso anche l’espressione freudiana “pensare per immagini” (Freud, 1923, p. 484), cogliendo l’occasione per mettere in guardia, già trentacinque anni fa, del pericolo che stiamo correndo di perdere questa facoltà umana fondamentale in un tempo in cui “la memoria è ricoperta di strati di frantumi di immagini, dove è sempre più difficile che una figura fra tante riesca ad acquistare rilievo” (ibid., p. 103).

In questa prospettiva, non sono da sottovalutare certamente i lati oscuri dell’IA, da cui ricercatori di ogni ambito, scienziati e filosofi, mettono in guardia. Solo per citare un esempio tra i tantissimi, il filosofo Éric Sadin sulle pagine di La lettura del Corriere della Sera del 2 febbraio 2024, punta i riflettori sulla “macchina implacabile” che minaccia l’occupazione, l’istruzione e la cultura. Riguardo l’arte, in particolare, ritiene che gli artisti si illudano si tratti di un’ulteriore tappa dell’evoluzione dell’arte. Infatti si tratterebbe della “usurpazione, da parte di un apparato dedicato, del nostro genio umano nel produrre testi, immagini e suoni […] una macchina implacabile che si prepara a stritolare la cultura”. È pur vero che le IA sono di per sé, almeno per il momento, prive di spinta autonoma di originalità. D’Isa afferma che il vero problema sta nel fatto che tendiamo a  antropoformizzare le macchine, che “somigliano troppo a noi […] se vogliamo limitare i danni non dobbiamo renderle più umane, ma più disumane” (D’Isa, 2024, pp. 148-149).

L’IA è una creazione dell’uomo, ma ciò che la distingue dalle tecnologie precedenti è la sua capacità di apprendere autonomamente, di riscrivere parte dei propri processi interni, di migliorarsi attraverso il proprio stesso utilizzo. Inoltre, il progressivo sviluppo della sua autonomia rende sempre più opachi i processi decisionali, noti come black box, un termine che indica l’inaccessibilità del funzionamento interno delle reti neurali. Sebbene l’IA possa fornire risposte accurate e previsioni complesse, il percorso logico che porta a tali decisioni rimane spesso ignoto ai loro stessi creatori e utilizzatori (Bathaee, 2018)[11].

Tale opacità richiama il concetto di inconscio tecnologico, poiché Freud ha mostrato che, per l’essere umano, “l’Io non è padrone a casa propria” (Freud, 1917, p. 448), così oggi si può dire che l’essere umano non è padrone dei meccanismi decisionali delle IA, che egli stesso ha creato, che derivano da stratificazioni di calcoli estremamente complessi. Non si tratta solo di una questione tecnica, ma pone le basi per un’inedita forma di conoscenza che sfugge al controllo umano.

 

Senza conclusioni: il sogno continua

Onirica () non è solo un montaggio di sequenze oniriche generate dall’IA, ma una creazione ibrida che incorpora l’inconscio collettivo dei sognatori, quello individuale degli artisti e dei fruitori, e l’inconscio tecnologico che emerge dai processi algoritmici.

Si potrebbe pensare a Onirica () come a un’illusione poetica dell’inconscio: un’opera che affascina e inquieta, evocando emozioni e stupore, immergendo lo spettatore nell’Unheimlich, il perturbante (Freud, 1919). Ciò che appare familiare assume un carattere di estraneità, qualcosa che sembra umano, ma tradisce la sua natura più profonda. L’inconscio tecnologico non è l’inconscio psichico, l’IA non prova desideri, non ha un rimosso (forse un interdetto?), può attingere dal patrimonio dei sogni umani e generare nuove narrazioni e immagini, ma non ne sperimenta la necessità, né il conflitto, né la liberazione. Il suo sogno è una creazione priva della spinta trasformativa che il sogno rappresenta per la psiche umana.

Durante il webinar già citato sull’Intelligenza Artificiale, Leora Trub ha sottolineato la necessità di “fare un passo avanti” rispetto a una tecnologia che sta cambiando tanto velocemente e propone novità minacciose per il nostro modo di pensare, mentre Fernando Castrillón ha affermato: “Non possiamo continuare a guardare noi stessi mentre il mondo va avanti”. Onirica () ci richiama alla necessità di aggiornare le competenze psicoanalitiche riguardo la capacità di creare, immaginare, sognare “in questi tempi ‘fuor di sesto’, per citare nel contempo William Shakespeare (1603) e Philip K. Dick (1959)” (Marchiori e Moroni, 2024, pp. 873-874), confrontandoci con la complessità del presente e la mutevolezza delle sue dinamiche. È una prospettiva che ci affascina e ci spaventa, perché richiede di rinunciare a certezze consolidate e a ridefinire il nostro dialogo con l’inconscio.

In questo contesto, l’arte si configura come uno spazio di resistenza e sperimentazione, un luogo in cui la tecnologia amplifica l’inconscio tecnologico, plasma l’inconscio psichico e rinegozia il rapporto tra soggetto e dispositivo, tra umano e macchina.

Se il sogno è il custode della nostra vita psichica, Onirica () ci ricorda che, anche nell’era dell’IA, la sua forza trasformativa non si esaurisce, ma continua a risiedere nella capacità umana di sostare nell’incertezza e nella meraviglia dell’ignoto.

 

 

BIibliografia

Baudrillard J. (1981). Simulacri e simulazione. Milano, SugarCo, 1985.

Bathaee Y. (2018). The Artificial Intelligence Black Box and the Failure of Intent and Causation. Harvard Journal of Law & Technology, 31(2), 889-938.

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Vaccari F. (1979). Esposizione in tempo reale e linconscio tecnologico. Torino, Einaudi.

 


NOTE

[1]A questo link un video prodotto dalla Fondazione Peruzzo, che offre un assaggio dell’opera e di cui si consiglia al lettore la visione prima della lettura  

[2] https://insideart.eu[3] #fondazionealbertoperuzzo, Hestetika.

[4] https://www.fuseworks.it

https://www.fabrica.it

[5]https://psicologia.unibo.it/laboratori-di-ricerca

[6] Fondazione Cariparo https://800anniunipd.it/event

[7] La Collezione Peggy Guggenheim a Venezia ha ospitato dal 12 ottobre 2024 al 3 marzo 2025 la mostra “Marina Apollonio. Si tratta della più ampia retrospettiva mai realizzata in Italia dedicata all’artista, una delle principali esponenti dell’Arte Optical e Cinetica internazionale.

[8] sul-cinema-unarte-della-complessita-di-morin

[9] https://www.reply.com

[10] https://youtu.be IPA

[11] https://jolt.law.harvard.edu

Elisabetta Marchiori, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

elisabetta.marchiori@spiweb.it

*Per citare questo articolo:

Marchiori E, (2025). Onirica (): quando l’IA sogna. Arte, algoritmi e psicoanalisi. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 71-92.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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