Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Cristiano Lombardo
(Padova e Conegliano), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.
*Per citare questo articolo:
*Per citare questo articolo:
Lombardo C. (2025). Non perdere il filo del corpo per uscire vivi dal labirinto digitale. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 27-52.
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Premessa
Apparecchiature digitali tra le più varie sono ormai entrate nella vita di ognuno, come i telefoni cellulari e gli smartphone, questi ultimi da non intendersi soltanto come naturale evoluzione del cellulare, ma come vera e propria interfaccia di connessione digitale al web, social network compresi.
Se solo una trentina di anni fa, per comunicare attraverso la rete, occorrevano un computer piuttosto potente, un modem con un accesso fisico ad una linea fissa, ed il tutto occupava più o meno una stanza – adesso – con un dispositivo che sta nel palmo di una mano e da cui quindi non ci si separa mai si può fare molto di più in molto meno tempo, vivendo in una dimensione di costante iperconnessione, nella quale la mente può rappresentarsi prossima a qualunque oggetto seppure molto distante nella realtà spazio-temporale.
Lucy
Lucy, come molti suoi coetanei che entrano in studio, tiene lo smartphone nella tasca dei jeans, rispettosamente silenzioso, e – tranne forse un paio di volte in cui mentre arriva sta leggendo un messaggio – non avrò mai nemmeno l’occasione di vederlo. La dimensione percettiva dominante nel lavoro con lei è quella dell’inerzia, di una stasi psico-fisica che sul lettino si appalesa come immobilità quasi assoluta che si fa mutismo. Con Lucy possono trascorrere anche molte sedute nelle quali solo poche sparute parole salgono a galla da un silenzio densissimo, come bolle d’aria, in quelle sedute la sento fragile come un germoglio, bisognosa di cure e nutrimento che spesso temo di non riuscire a darle perché avulsa dal registro verbale.
Un giorno, titubante, al termine di una seduta dolorosa nella quale ha cercato di portare ‘qualcosa’ che forse nemmeno lei sa o conosce fino in fondo, si ferma e mi dice “posso mostrarle una cosa?”. Da quando abbiamo cominciato il lavoro la comunicazione con lei è così delicata ed instabile, che non appena la vedo frugarsi la tasca destra dei pantaloni alla ricerca del suo smartphone, non ci penso proprio a dirle che avrei preferito che mi descrivesse a parole quel che stava pensando, e d’acchito le rispondo: “Certo”.
A quel punto dal lettino-sommergibile emerge il suo braccio, come un periscopio che sale dalle profondità marine nelle quali vive inabissata, ha in mano il cellulare e sul suo schermo fa scorrere dei disegni a matita molto belli e particolari, “li ho fatti io” mi dice, “in realtà mi sono ispirata ad altri disegni di una community, io in quel mondo mi ci riconosco”. Credo che buona parte del lavoro che poi abbiamo fatto sia cominciato in quel preciso momento, ma soprattutto in quel preciso modo: a Lucy il suo corpo non basta, non lo capisce, ed ha dovuto servirsi di una protesi di cui si fida e di cui comprende meglio il funzionamento, per mostrarmi qualcosa di sé.
Estensioni dello psiche-soma ed estensioni del setting
Questo è solo uno dei tanti esempi possibili che raccontano quanto l’uso di certi dispositivi, ormai entrati nell’uso comune, abbia modificato il corpo della psicoanalisi stessa, ovvero il setting. C’è tra gli analisti chi ha mantenuto su questo una posizione più classica, preferendo avere una linea telefonica fissa, spesso in un’altra stanza dello studio, con una segreteria telefonica, probabilmente per abitudine e non solo per ragioni di tecnica, limitando – per così dire – l’uso dello smartphone a comunicazioni personali. Ma è altrettanto evidente come tra le nuove generazioni di psicoanalisti le cose vadano diversamente, ed ora come ora siano sempre di più i colleghi, me compreso, che utilizzano un solo telefono cellulare.
Il setting si sa è anche qualcosa di personale, che almeno all’inizio della cura rappresenta l’estensione del corpo dell’analista, riflettendone la personalità e il gusto. Alcuni preferiscono mantenere uno studio il più possibile asettico o neutrale, in modo da ampliare al massimo il ventaglio delle possibili proiezioni dei pazienti e così facendo lo mantengono piuttosto spoglio di libri, quadri, fotografie e tutto ciò che possa fornire ‘indizi’ su di sé e sulla sua personalità. Altri non riuscirebbero a lavorare in un ambiente così poco ‘caldo’ e personalizzano la stanza d’analisi in vari modi.
E il nostro smartphone? Una volta si sarebbe risposto che mai e poi mai avrebbe potuto/dovuto invadere lo spazio sacro della stanza d’analisi, ma è un dato di fatto che ora questo accade con una certa disinvoltura e non solo ad opera dei pazienti. Un po’ come se si trattasse di un semplice paio di occhiali, lo si può trovare chiuso dentro ad un cassetto o ad una borsa, oppure appoggiato da qualche parte, tra-lasciato, ma comunque sempre presente. Le considerazioni che possiamo fare al riguardo sono talmente tanto numerose e disparate che avverto a questo punto la necessità di fare, per parte mia, alcune doverose premesse prima di proseguire.
Due punti, a capo
Per evitare di perdersi negli spazi siderali di un ambito potenzialmente infinito come quello dell’universo digitale, del quale lo smartphone rappresenta solo un terminale di comunicazione, sento prima di tutto il bisogno di fissare due punti di repere, di ancoraggio, che delimitino almeno in parte il campo di indagine riducendo il rischio di andare alla deriva.
I punto
Come spesso accade in questi casi mi rivolgo alle prime geniali intuizioni di Freud che ne L’Io e l’Es (1923) affermava: “L’Io è anzitutto un essere corporeo, non è soltanto un’entità superficiale, ma è esso stesso la proiezione di una superficie” (p. 488), ovvero una proiezione della superficie corporea da cui origina e che egli paragona all’homunculus. Qui Freud descrive l’Io come un’entità strettamente legata alle sensazioni corporee e alla percezione dei confini fisici, che si forma a partire dalle esperienze sensoriali e motorie, che definiscono i confini tra il sé e il mondo esterno.
Freud in realtà non ha parlato della mente umana come di una ‘proiezione del corpo’ in termini espliciti, ma il concetto emerge in diversi passaggi delle sue opere, specialmente quando discute il rapporto tra psiche e corpo, la genesi della rappresentazione mentale e il ruolo del corpo nell’inconscio, nel Progetto di una psicologia scientifica (1895) e più tardi ne Il disagio della civiltà (1930). Tuttavia nella Standard Edition del 1927, nel passaggio de l’Io e l’Es sopra citato (p. 488), appariva la seguente nota in inglese[1]: “Cioè l’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venir considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo, e inoltre, come abbiamo visto, il rappresentante degli elementi superficiali dell’apparato psichico.”
Questo, come dicevo, è – almeno per me – il primo importante punto di repere: uno psichico che origina dal somatico di cui esso stesso fa parte. L’enfasi posta da Freud sulla pelle come superficie di contatto, come confine tra corpo e mondo reale, tra Sé e altro da Sé, richiama in modo preciso quello di un Io che ha la medesima funzione di una sorta di epidermide psichica, che da un lato contiene e dall’altro separa e confina. Concetto poi ripreso da molti, tra cui Didier Anzieu con il suo L’Io-pelle (1985), fino al più recente Sotto la pelle di Alessandra Lemma (2005), un testo che ho trovato di grande interesse in relazione alle attuali pratiche di piercing, tatuaggi e chirurgia estetica che riprenderò più avanti.
II punto
Come secondo punto di repere farò ugualmente riferimento a Freud, il quale in una nota del 1938 dice: “Lo spazio può essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun’altra derivazione è verosimile. […] La psiche è estesa, di ciò non sa nulla” (Risultati, Idee, Problemi, p. 566). Non si tratta di un’affermazione svolta in modo compiuto all’interno di una riflessione più ampia ed organica, e nemmeno di una vera e propria ipotesi di lavoro, tantomeno un postulato, è semplicemente – se così si può dire – un’idea, una breve nota trascritta a mano, insieme ad altre, su un foglio. Per me si tratta di un’intuizione, un’ipotesi di lavoro che il padre della psicoanalisi avrebbe avuto intenzione di esplorare e sviluppare se la morte non fosse sopraggiunta solo alcuni mesi più tardi.
Certo si può obiettare che trattandosi di un’affermazione così insatura, essa apra a talmente tanti scenari che risulta oggettivamente difficile trarne qualche auspicio. Nella mia personalissima interpretazione tuttavia, dopo avere affermato che la psiche nasce come proiezione del somatico, ed in particolare delle sensazioni che si accumulano ai confini della corporeità, sulla pelle, Freud è come se ci dicesse che lo psiche-soma potrebbe funzionare a sua volta un po’ come un gas libero di espandersi nello spazio, utilizzando quest’ultimo – seppure ‘inconsapevolmente’ – alla stregua di una superficie di proiezione.
Prima in una direzione e poi in un’altra, un po’ come un’onda del mare che dopo avere viaggiato fino alla costa poi ritorna indietro con la risacca. Alla nascita, ma forse anche già da prima, le sensazioni, gli affetti – o per dirla con Racalbuto (1994) gli affetti-sensazione – provenienti dai vari distretti corporei e dal derma vengono introiettati in guisa di pelle virtuale andando a formare la psiche. Successivamente però essa, nel tentativo di estendersi, è libera di ri-proiettarsi in quello che Freud definisce ‘spazio’, peraltro senza averne contezza.
Immagino questo processo come una sorta di solve et coagula alchemico, come una specie di assimilazione e accomodamento piagettiani, un gioco di correnti che si alternano in un respiro ciclico, onda e risacca appunto. Mi sono soffermato su questi due punti perché, a mio avviso, uno dei rischi maggiori nell’affrontare argomenti come quelli legati al digitale, ai mondi virtuali ed al cyberspace, è quello di farsi sedurre da punti di vista ‘tecnici’, caratterizzati da astrazioni e intellettualizzazioni disancorate, o forse dovrei dire ‘disincarnate’ da ogni punto di partenza, da ogni premessa. E la premessa per me, l’ancora (di salvezza?), nella cura psicoanalitica, è sempre il corpo. Comincerei da qui allora, nel guardare ai cambiamenti operati nelle nostre vite, nelle nostre relazioni e nel nostro lavoro dal ‘digitale’.
Ibridazioni, contaminazioni, chimere e metamorfosi: il body-horror[2] nel cinema di David Cronenberg
C’è un bel lavoro di Isaac Tylim del 2012 dal titolo The Techno-Body and the Future of Psychoanalysis, in cui l’autore esplora il concetto di ibridazione del corpo umano con macchinari di vario genere e per farlo si serve del lavoro del regista cinematografico David Cronenberg. In molte sue pellicole[3] Cronenberg sembra addirittura ossessionato dal rapporto tra corpo e tecnologia, immaginando un futuro nel quale tecnologico e biologico si fondono nel tentativo di superare ognuno le proprie limitazioni. Questa sorta di nuova metamorfosi kafkiana in parte è inquietante e perturbante, in parte grottesca, ma in qualche modo anche foriera di progresso. Come nell’opera di molti scrittori di fantascienza, da Philip Dick ad Isaac Asimov, il processo può essere descritto nei due sensi: quello di una tecnicizzazione dell’organico e del biologico, oppure quello di una organicizzazione o incarnazione del tecnologico.
In ogni caso nel cinema di Cronenberg è sempre il corpo al centro del racconto identitario, un corpo materico greve, fatto di carne, sangue e ogni sorta di fluido corporeo, che raramente lo spettatore recepisce come rappresentazione di parola, ma molto di più come rappresentazione di cose, composto da elementi β inelaborati, che permangono nella sua psiche probabilmente in attesa di essere tradotti, alfabetizzati, causando quindi un senso di grande inquietudine ed affaticamento.
The Fly – “Be afraid. Be very afraid.”[4]
Parecchi anni fa vidi al cinema una delle sue poche pellicole di cassetta: The Fly (La Mosca, 1986), con nel cast, un ancora poco conosciuto Jeff Goldblum e Geena Davis. Nel film Goldblum interpreta uno scienziato, Seth Brundle, eccentrico, strambo e un po’ nerd, il quale a causa di una certa sua bizzarra pigrizia, soffrendo di mal d’auto, inventa un macchinario per il teletrasporto. Dunque ci troviamo di fronte a un apparecchio tecnologico che almeno nelle intenzioni del suo creatore dovrebbe servire a prescindere i limiti dell’umano rappresentati dalla sua corporeità.
Fin qui tutto bene, la macchina – come sempre in questi casi – all’inizio funziona più che bene, scompone dentro al terminale d’ingresso la materia dell’oggetto da trasmettere nelle sue componenti di base, le quali poi vengono riassemblate dentro al terminale d’uscita. Le cose si complicano quando Seth, ubriaco, preso da un impeto di rabbia e gelosia nei confronti di Veronica, una giornalista con cui ha cominciato a frequentarsi, decide di teletrasportare sé stesso, corpo e mente.
Al principio sembra essere andato tutto per il meglio, almeno fino a quando il suo comportamento comincia a cambiare, Seth ora si sente più forte e più prestante del normale, ma col tempo anche il suo carattere muta e comincia a diventare scostante ed aggressivo. Cosa è successo? Durante l’esperimento, frutto di quello che un analista chiamerebbe un ‘agito’ – cioè di un’azione non sufficientemente maturata e pensata – una piccola mosca è entrata nella cabina di trasmissione insieme a Seth ubriaco e vendicativo. Il risultato è che avendo rilevato il DNA di entrambi, il macchinario lo ha scomposto, per poi riassemblarlo, insieme.
Mi sono chiesto a lungo che fine avesse fatto quel film di successo[5] che rispetto ad altre pellicole si vede girare pochissimo in televisione e pay-tv. Alla fine ho pensato che la stessa sorte era toccata ad altre pellicole di Cronenberg, probabilmente perché il suo cinema, affrontando il tema del corporeo e di ciò che vi è al suo interno, risulta perturbante per gli spettatori che inconsciamente vi riconoscono qualcosa di ancestralmente vero, ma al contempo di disturbante.
In The Fly ad esempio, assistiamo al fenomeno dell’ibridazione, in cui DNA umano si fonde con quello di un insetto, una mosca, lasciando intravedere il miraggio di poteri inauditi che possono trascendere i limiti del corporeo, un po’ come accade a Peter Parker dopo che è stato morso da un ragno e si trasforma nel più famoso dei supereroi.
Qui invece la metamorfosi a partire da un ospite che entra dentro, diventando quindi interno – una parte del Sé – apre a scenari ben più disturbanti perché muta corpo e carattere del protagonista fino a trasformarlo in un mostro irriconoscibile, un vero e proprio alieno, nel senso etimologico di altro-da-sé. Cronenberg che aveva già affrontato queste tematiche in una delle sue prime pellicole, Shivers (Il demone sotto la pelle) del 1976, in The Fly le sviluppa ulteriormente mostrando, quasi senza pietà, l’impossibilità di evadere dai limiti imposti dal corpo inteso come incarnazione del Sé.
Lemma, nel libro che ho già menzionato, Sotto la pelle (2011), nel capitolo dal titolo Territori occupati e parti estranee parla del cinema di Cronenberg come chiave di lettura nel lavoro con un paziente molto grave, con il quale ha lavorato 9 anni, anch’egli fan del regista e di cui conosceva molto bene i lavori cinematografici.
Per l’autrice: “il contributo distintivo dei suoi film è che essi riguardano il modo in cui anche il cosiddetto corpo ‘normale’ o parti di esso possono essere profondamente inquietanti – il vero e proprio fatto di essere-in-un-corpo[6] – è qualcosa contro cui tutti noi lottiamo, e che genera profonde ansie contro le quali sviluppiamo difese individuali e sociali. I suoi film ritraggono, in modi diversi, la compulsione a cambiare realtà modificando il corpo” (126).
Viktor Tausk e la macchina influenzante
Esempi di contaminazione (potremmo chiamare così un’ibridazione non positiva) tra uomo e macchina non li troviamo solo nella fantascienza e nel cinema, un esempio paradigmatico sono i lavori di Viktor Tausk, psichiatra e allievo di Freud che poi divenne psicoanalista, il quale già nel 1919 aveva scritto un interessante lavoro intitolato Sulla genesi della “macchina influenzante” nella schizofrenia. In questo lungo e articolato scritto, l’autore illustrava alcune tra le più diffuse modalità di delirio persecutorio nei pazienti schizofrenici, i quali spesso si sentivano controllati da un presunto macchinario in grado di rubare, modificare e influenzare i propri pensieri. La genialità della rilettura del fenomeno da parte di Tausk, effettuata alla luce delle recenti acquisizioni psicoanalitiche, fu quella di postulare l’esistenza di un macchinario esterno come proiezione della dimensione corporea del paziente schizofrenico.
A mio modo di vedere Tausk fu tra i primi a intuire l’importanza fondamentale del corporeo nel complesso rapporto tra uomo e macchina, tema ancor più attuale oggi, vista la prepotente accelerazione del progresso tecnologico che, negli ultimi decenni, come un treno in corsa, è lanciato ad una velocità tale da rendere vano ogni tentativo di comprensione del fenomeno in termini di impatto psichico e sociale. Nel delirio paranoide dei pazienti di Tausk, la macchina influenzante è un dispositivo esterno al Sé, questo grazie ai meccanismi di difesa schizoidi che hanno la funzione di proiettarne al di fuori le parti ritenute cattive o pericolose, Klein docet.
Extended body – Augmented reality
Ma cosa succede quando il macchinario in oggetto gode di una prossimità maggiore rispetto al corpo, come accade ai moderni dispositivi tecnologici, con i quali simbioticamente abbiamo oramai imparato a convivere? Se per uno smartphone possiamo appunto parlare ancora di prossimità, che pensieri possiamo fare ad esempio su smartwatch, smartglass e smartring? Dispositivi che trovano la loro principale ragion d’essere nella contiguità con il corpo di chi li indossa. La maggior parte di essi possiede sofisticati sensori in grado di interfacciarsi con diversi indici corporei come la pressione sanguigna, la temperatura, la conduttanza cutanea ecc., sostituendo anche dispositivi esterni, come carte di identità, carte di credito, tessere sanitarie, chiavi della macchina e così via.
Gli smartglass ad esempio devono la loro versatilità a quella che in gergo tecnico viene chiamata augmented reality, ovvero la possibilità di frapporre uno schermo trasparente ricco di informazioni, simile a quello di un computer o di uno smartphone, tra l’occhio e la realtà circostante. In questo caso non sarà nemmeno necessario accendere un dispositivo digitale e guardare il suo schermo per ottenere delle informazioni, queste saranno sempre embedded nell’atto stesso del guardare[7], cioè disponibili in background, ‘aumentando’ la realtà visibile ai nostri occhi con informazioni di ogni tipo. Per fare un esempio di realtà aumentata ci si può immaginare di guardare attraverso questi smartglass mentre si cammina in città, vedendo sovrapposta alla normale visuale le indicazioni tipiche di un sistema GPS di navigazione stradale con indicazioni sul traffico, gli orari dei negozi ecc. Finora ho parlato di contiguità, dato che comunque questi dispositivi sono tutti – per ora – ad uso esterno, ma c’è già qualche estroso personaggio che non ha esitato a farsi impiantare chip sottocutanei dotati delle medesime funzioni, rendendo presente il futuro dell’ibridazione tra umano e tecnologico.
The electrified mind
The electrified mind è un’espressione molto usata oltreoceano, ma è anche il titolo di un libro di Salman Akhtar, psichiatra e psicoanalista, nel quale l’autore esplora le implicazioni dell’essere sempre ‘connessi’ sul nostro modo di pensare, comunicare e relazionarci. Nel 2025 si stima che siano circa 30 miliardi i dispositivi collegati in modo permanente ad internet, circa 4 a persona. La domanda che credo sia ineludibile a questo punto è: in che modo la mente ‘si estende’ e si modifica attraverso l’uso di questi device che funzionano un po’ alla stregua di assoni e dendriti neuronali? E come cambia la percezione, anche inconscia, del nostro corpo di rimando a tutto ciò? Com’è l’onda psichica? E quale è l’entità della sua risacca nel corporeo?
Todd Essig nel suo articolo Psychoanalysis lost-and found-In our culture of simulation and enhancement, affrontando questo tema arriva ad asserire in modo anche provocatorio, che non ha più senso parlare di cyberspace inteso come registro delle comunicazioni digitali separato dalla realtà, perché oggigiorno, soprattutto per i più giovani l’essere disconnessi da internet e conseguentemente dai social network, dalla e-mail, dalla messaggistica, è semplicemente impensabile: la loro realtà fisica e mentale è sovrapposta a quella virtuale. Dove per virtuale non si dovrebbe intendere ‘incorporeo’, ma solo diversamente corporeo, aggiungo io. Lo stesso termine avatar, molto usato in ambito digitale per indicare un alter-ego virtuale, dematerializzato, etimologicamente deriva dal sanscrito avatāra, e ha al contrario il significato di discesa – nel corpo – ovvero di incarnazione, proprio come nel caso delle incarnazioni del dio Vishnu sulla terra.
Se davvero prerogativa della mente umana è quella di estendersi, anche attraverso utensili e protesi tecnologiche, ha ancora meno senso discutere sulla liceità o meno di ciò, perché semplicemente questo accadrà e basta. Accadrà attraverso l’uso degli strumenti che l’uomo, unico tra gli animali, è in grado di costruire per sé e di utilizzare. Secondo André Leroi-Gourhan, etnologo, antropologo e archeologo francese, il primo strumento creato-modificato dall’uomo è proprio il suo stesso corpo, frutto dell’interazione con l’ambiente che ne avrebbe modificato anche lo sviluppo anatomico. La verticalizzazione del rachide, che ha permesso la stazione eretta, ha liberato al contempo gli arti superiori da compiti di locomozione e ha permesso la nascita della tecnica attraverso l’uso di strumenti creati con le mani, a cui hanno fatto seguito l’aumento del volume cranico e l’evoluzione degli organi di fonazione per favorire il linguaggio.
Avatar
Come ci ha detto Freud la mente si forma dal corpo come sua proiezione, e – all’interno di un processo circolare – reinvestendo il corpo, lo modifica a sua volta, per poi estendersi oltre. Ciò che sta cambiando molto rapidamente tuttavia è il medium sul quale la mente può ‘innestarsi’, mi viene da usare questo termine invece del più comune ‘proiettare’ per non incorrere nell’errore di considerare totalmente dematerializzati i medium digitali, come cyberspace e realtà virtuale.
Lucy, all’interno della community a cui sente di appartenere, è libera di mostrarsi come vuole, prescindendo dal gender, oppure cambiandolo a suo piacimento come molti altri suoi attributi fisici reali, ma sarebbe un errore considerare questo come una semplice menzogna o un camouflage. Tutta la sua psiche, inconscio compreso, è appena il caso di ricordarlo, è in gioco nel processo di estensione/proiezione in uno spazio virtuale – non immateriale – nel quale possono trovare rappresentazione, e dunque espressione, parti di lei non integrate e mute. Per certi pazienti come Lucy, quella nel virtuale, nel cyberspace o come vogliamo chiamarlo, non è soltanto una fuga, è certamente anche quello, ma non soltanto, non è solo il nascondimento di qualcosa, ma ne è invece anche l’espressione. I disegni, per lei, sono come parole di grafite che possono prendere forma, corpo, solo in quella community su internet, trasformandosi in contenuti digitali condivisi anche con l’analista attraverso l’interfaccia dello smartphone.
Nei casi come quello di Lucy un rischio è certamente rappresentato dalla potenza e dalla duttilità di ciò che ho chiamato medium, qualcosa di così grande da sembrare magico, onnipotente e immediato, capace cioè di superare con un click una delle dimensioni più caratterizzanti e al contempo uno dei limiti inamovibili della realtà: il tempo. Tutto sembra diventare davvero disponibile nel tempo di un click, come un colpo di bacchetta magica, o di bisturi.
Giulio
Giulio lavora senza gioia nell’azienda che fu del padre e che lui gli ha lasciato. I profitti sono buoni, in teoria dovrebbe esserlo anche la sua situazione affettiva, visto che convive con una donna a cui vuole bene, ma quando arriva nel mio studio sembra come grigio, opaco. Si finge brillante, cercando di ricalcare le orme paterne e i fasti di un lavoro che in realtà non gli è mai interessato, ma che è incapace di lasciare. È molto conformista e anche in seduta mi sembra che faccia fatica ad esprimere ciò che sente e che desidera. A volte ho l’impressione che vorrebbe lasciare tutto e scappare urlando, forse anche dall’analisi, ma non ci riesce. Una giornata primaverile più calda del solito vedo spuntare dalla sua camicia arrotolata sul braccio, l’inchiostro di un tatuaggio nero. Quando glielo faccio notare si vergogna e poi fa come se niente fosse, credo si senta un po’ in colpa perché non è riuscito a parlarne con me, ma per lui passare dalle parole a volte è davvero una sfida impossibile.
A differenza di Lucy che sembra non possederle nemmeno, Giulio usa le parole come figurine da scambiare, per dare agli altri – analista compreso – quello che pensa si voglia da lui, ostentando una bravura tutta di facciata che cela una profonda insicurezza e un grande senso di inadeguatezza (anche fisica). La punta dell’ago del tatuatore, vista da una certa prospettiva, non è troppo diversa da quella della matita digitale di Lucy, serve per raffigurare l’irrappresentabile a parole, incarnando, sostanziando, la possibilità di una soluzione im-mediata (anche proprio nel senso di non mediata). Soggetto e oggetto della rappresentazione collassano uno sull’altro e si definiscono a vicenda. Lemma nel suo articolo, Inchiostro, buchi e cicatrici (2014) ci ricorda come il derma sia l’organo più grande del corpo e anche molto altro: “È la «tela» su cui proiettiamo le nostre fantasie e le nostre paure (Mifflin, 1997, in Lemma, 2014). È il primo punto di incontro del tocco dell’altro. È anche un contenitore: tiene l’interno intatto. La pelle così agisce da confine, fornendo la sensazione di essere un’interiorità in relazione a un’esteriorità. Questo confine può essere soggettivamente sperimentato come un sito per incontrare l’altro o come un guscio che protegge il Sé dall’altro” (p. 705, corsivo mio).
A man called horse
Partendo dall’assunto che in moltissime culture, anche primitive, la pelle è la superficie sulla quale vengono inscritti segni del rango e dello status sociale, ci si può rendere conto che ‘i segni sulla pelle’ sono spesso collegati a importanti rituali di passaggio in termini evolutivi o di appartenenza di gruppo. Kim Hewitt nel suo Mutilating the Body: Identity in Blood and Ink (1997) afferma che “Il dolore fornisce significato al processo, mentre il corpo finale ‘alterato’ sostiene l’illusione che il ‘vecchio Sé’ sia stato rimpiazzato da una nuova versione” (p. 39).
Una perfetta esemplificazione di tutto questo la possiamo ritrovare in un film degli anni ’70 dal titolo A man called horse, nel quale un aristocratico inglese di nome John Morgan (interpretato da un magistrale Richard Harris), a caccia nel West insieme ad altri, viene attaccato dai Sioux e fatto prigioniero. Come tale non gode più di alcun diritto e come illustra il titolo del film, ora non ha più nemmeno dignità umana, ma può soltanto svolgere la mansione di cavallo da soma per l’anziana madre del capo del villaggio.
Senza dilungarmi oltre mi limito a dire che in sostanza il film racconta del lungo e difficile processo di integrazione del protagonista all’interno della tribù, il cui percorso umano e sociale è condizionato dal passaggio attraverso un importante rituale cerimoniale denominato prova del dolore, durante il quale all’apprendista vengono effettuate delle profonde incisioni con degli artigli d’aquila sulla pelle ai lati dei pettorali. A questo punto gli vengono fatte passare sotto ai muscoli delle stecche forate alle estremità, probabilmente di osso o di corno animale, a cui sono assicurate delle funi che serviranno ad issare di peso il corpo del novizio, che se resiste alla prova potrà diventare un loro pari, sposando una donna ed avendo dei figli.
Questo tipo di cerimonie a sfondo mistico/religioso hanno tuttavia anche una importante funzione sociale: spesso coincidono con precise tappe dello sviluppo, una delle quali è tipicamente l’entrata in adolescenza. Non solo, approfondendo lo studio antropologico di certi popoli, come quello degli indigeni nordamericani, si può comprendere che prove come quella descritta sopra, non sono dei meri rituali di sopportazione del dolore, ma constano di molti altri significati.
Ad esempio uno di questi è di offrire un dono – talvolta di sangue – alla terra. In ogni caso il principio è che gli esseri umani disponendo in vita soltanto del proprio corpo, l’unico bene che ci appartiene dalla nascita, attraverso un piercing compiono un atto votivo, un’offerta alla madre terra. Le donne invece erano esentate da questo genere di rituali perché il sangue mestruale ed il parto erano già considerati offerte alla terra.
A me non sfuggiva che quello attuato da Giulio era in realtà anche il suo primo atto di protesta. L’aveva attuato nonostante il parere contrario della famiglia e senza nemmeno accennarne in analisi, l’intento dunque era chiaro: da un lato trasgredire alle regole della famiglia da cui proveniva come figlio, affermando di non volersi sentire più tale e volendo, al contrario, essere trattato e riconosciuto come adulto.
Mi colpiva in particolare che questo tatuaggio apparisse come una sorta di manica nera, una seconda pelle scura priva di motivi, simboli o scritte di qualunque tipo. Era come se una parte del nero, della rabbia che teneva reclusa dentro di sé avesse infine trovato il modo di venire a galla e di mostrarsi nel corpo: di incarnarsi.
Essere come l’oggetto ideale – diventare l’oggetto ideale
C’è un altro bel lavoro di Alessandra Lemma dal titolo L’invidia e il corpo materno (2018), nel quale l’autrice affronta il tema dell’uso della chirurgia estetica in alcuni suoi pazienti, parlando anche di tutte quelle modificazioni corporee indotte da pratiche di modificazione della pelle, intesa come superficie/contenitore del corporeo, come tatuaggi, piercing, inserzione di protesi e scarificazione:
“Questo aspetto richiede un’attenta analisi delle relazioni oggettuali interiorizzate e di come esse influiscono sulla capacità di un individuo di relazionarsi con gli altri.
Nello specifico, è necessario comprendere la relazione che il bambino instaura con il primo corpo con cui interagisce – quello della madre. […] In alcuni degli individui che trovano nella modificazione del proprio corpo una soluzione al dolore psichico, possiamo osservare come questa modificazione abbia la funzione di aggirare l’esperienza di ricevere, di essere in qualunque modo dipendente dall’altro.” (p.46).
Questo è certamente uno dei motivi che – almeno nella mia esperienza – ha sempre fatto sì che sentissi questo genere di pazienti di difficile trattabilità. La figura dell’analista come doppio materno non viene soltanto odiata – cosa che andrebbe ancora bene visto che talvolta si lavora maggiormente in presenza di un transfert negativo – ma viene invece tenuta ad una distanza tale da impedire l’instaurarsi con essa di ogni forma di dipendenza terapeutica e di transfert.
Spesso tutto ciò che viene fornito dall’analista a questi pazienti in termini di ‘seno buono’, quando non viene ignorato perché troppo distante, viene fatto oggetto di attacchi invidiosi che ne corrodono con ineffabile regolarità ogni intento nutritivo, vanificandoli e spesso pervertendoli. Sono d’accordo con Lemma quando fa notare come l’obiettivo di questi pazienti sia diventare l’ideale (dell’Io) e non essere come l’ideale (ibidem). È anche per questo che in loro latitano ironia e capacità metaforiche, le quali – almeno nella mia visione della pratica clinica – sono importanti strumenti di scambio e comunicazione tra analista e paziente.
Adolescenza e fantasie di autocreazione
Come ho già avuto modo di dire[8] però esiste anche una fase evolutiva dello sviluppo in cui possiamo trovarci di fronte ad un funzionamento psichico analogo: l’adolescenza. In adolescenza torna in auge l’imitare per essere di cui parla Gaddini (1968), essenzialmente basato sul registro visivo. In questo lavoro parlavo appunto della tendenza adolescenziale ad appendere i poster dei propri eroi cinematografici o musicali alle pareti della propria camera in guisa di specchi che riflettono, senza soluzione di continuità, l’imago di come un adolescente vorrebbe diventare. Diventare l’ideale in adolescenza significa ‘operare’ sul corpo tagliandosi i capelli, truccandosi e muovendosi come l’ideale, nel tentativo – vitale – di diventare lui. Ma se l’adolescenza rappresenta una normale fase evolutiva della crescita, nella quale si assottiglia fin quasi a perdersi l’uso del come se ed emergono dinamiche basate sul mimetismo identitario, esistono anche i pazienti di cui si è detto sopra – spesso vittime di traumi – nei quali questa modalità di funzionamento è stabile ed ha funzione strutturante.
In questi pazienti la necessità di diventare e non di essere come – modificando fisicamente o in altro modo il proprio corpo – al fine di prendere il posto dell’oggetto, ha da un lato la funzione primaria di appagare quell’invidia ‘kleiniana’ che li divora, e dall’altro di soddisfare quella che Lemma chiama fantasia di autocreazione (ibidem). Ovvero il ricorso all’uso della chirurgia estetica intesa come capacità auto-generativa di nascita per partenogenesi, al fine di rescindere e denegare ogni possibile legame con il materno.
Jean Baudrillard nel suo lavoro The Ecstasy of Communication (1988) definisce questi pazienti “copie senza originali”, a causa del loro bisogno primario di diventare qualcosa a prescindere dallo ‘stampo materno’ da cui provengono. Lemma sempre a proposito del corpo precisa: “non possiamo far nascere noi stessi. Il corpo è la testimonianza della nostra relazionalità. Da nessun’altra parte questa ‘verità’ è sentita così intensamente come nei nostri corpi. Il corpo è il testamento della nostra relazionalità. La corporeità condivisa della madre e del bambino, da cui tutti noi dobbiamo emergere, è la versione incarnata della dipendenza psichica” (2018, p. 46, corsivo mio).
Identità digitali e spazi virtuali
Mi rendo conto che aver parlato di questo genere di pazienti potrebbe indurre a chiedersi cosa mai possa accomunarli a quelli che fanno un uso sempre più massiccio del digitale attraverso device, o attraverso gli spazi da essi generati, come realtà virtuali e cyberspace. In realtà un punto in comune c’è, e nel mio modo di vedere è proprio il corpo. Sarebbe un errore considerare i pazienti come Lucy, lontani dal corporeo solo perché si rifugiano e si identificano in mondi digitali che molti considerano eterei e incorporei.
I device digitali definiti smart, cioè intelligenti, possono modificare il corpo grazie ad una tale prossimità da esso da renderli ormai in tutto e per tutto delle sue estensioni. Inoltre con l’avvento di Internet gli spazi potenziali di comunicazione che si aprono con queste interfacce sono praticamente illimitati. Corpo e mente si espandono, si contraggono, si modificano grazie a nuove esperienze reali, dove per realtà intendo anche realtà virtuali. Mente e corpo, onda e risacca. Questo tipo di pazienti, soprattutto quelli che nutrono vere e proprie fobie verso aghi, lame, ecc. e che sono angosciati dal dolore fisico, difficilmente farà ricorso al bisturi per in-scrivere nei propri corpi modificazioni come soluzioni ai loro problemi ed al proprio dolore psichico.
Ma forse – attualmente – questa non è l’unica via di fuga percorribile, e oggigiorno io credo che esistano anche altri sistemi, non meno magici ed immediati, per cercare rifugio rispetto alla propria sofferenza, solo basati su un altro concetto di corpo. Nel cyberspace in fondo è più facile scampare allo sguardo di coetanei aggressivi, alle lusinghe di adulti ambigui, al confronto con l’altro sesso. Anzi, una delle maggiori qualità dei mondi virtuali è che sono un po’ come i pianeti della cintura esterna di una galassia periferica dei romanzi di fantascienza: nessuno viene a cercarti, nessuno sa chi o come sei. In pochi click chiunque può crearsi una nuova identità, alterando a piacere quella di partenza o addirittura stravolgendola completamente.
Essere-in-un-corpo ed embodiment
In uno spazio virtuale è anche possibile occultare aspetti non integrati del Sé (tipicamente l’identità di genere) il cui riconoscimento altrui provocherebbe altrimenti un dolore psichico insopportabile. Cionondimeno anche una fuga lascia sempre delle tracce, e la scelta della corporeità virtuale non fa eccezione, restando comunque ‘ancorata’ ad un corporeo fatto di carne, sangue, umori.
Lucy all’inizio era soprattutto spettatrice di ciò che accadeva nella community a cui si era avvicinata, si sentiva l’ultima arrivata ma poteva tranquillamente starsene in disparte a osservare ciò che succedeva. I disegni di altri, tra artisti e semplici appassionati, contribuivano a dar forma alle sue fantasie di embodiment in corpi chimerici di creature fantastiche dai poteri magici e dalla forza straordinaria. Potersi incarnare in questi corpi virtuali, significava poter allentare significativamente la pressione che alla sua età deriva dall’essere-in-un-corpo, un corpo già deformato ed irriconoscibile a causa della ‘montata pulsionale’[9] adolescenziale, un corpo da dissimulare dentro a felpe enormi con un cappuccio a prova di anonimato.
Per la prima volta gli schiaccianti sensi di colpa e di vergogna che provava per “non essere come molti coetanei”, potevano lasciare spazio alla curiosità di guardare ‘altri’ simili e le loro rappresentazioni artistiche, anche sessualmente esplicite, finalmente senza sentirsi outgroup. Tutto questo si svolgeva prevalentemente di notte, cioè quando Lucy si sentiva sufficientemente al riparo dagli sguardi dei familiari e protetta dai suoi avatar virtuali.
Di giorno tornava a indossare i panni più confortevoli e anonimi della studentessa-di-qualcosa-che-nemmeno-lei-sapeva-bene-cosa-fosse, ma tanto bastava a guadagnare tempo e a tenere i curiosi fuori dalla sua stanza/tana del Bianconiglio, fino al momento nel quale – rimasta sola – sarebbe potuta tornare on-line. Durante i primi anni di lavoro faceva fatica ad abbandonare la sua camera per venire in analisi, e più in generale non le piaceva uscire di casa, ma nonostante questo non la definirei una hikikomori. Di tanto in tanto si trovava con pochi selezionati amici/amiche per mangiare una pizza e chiacchierare con loro, le poche volte che mi pareva davvero ‘connessa’ anche lontana dal suo Mac e dal suo smartphone.
Nella tana del Bianconiglio
Un giorno mi avverte che per ragioni di salute ed altri impedimenti personali non potrà venire in analisi per alcune settimane, ma anziché saltare (pagando regolarmente) le sedute come ha sempre fatto fino ad allora, per la prima volta mi chiede se è possibile farle on-line.
Apro a questo punto una breve parentesi che mi sembra utile, perché riguarda il setting e dunque ha a che fare con il corpo del lavoro analitico: durante il lockdown per la pandemia da Covid-19 ho inizialmente sospeso il lavoro per poi riprenderne una parte con quei pazienti che avevano manifestato l’interesse a poterlo fare anche non in presenza. In quell’occasione ho trovato perlomeno curioso che nonostante i miei pazienti fossero – da vari punti di vista – molto eterogenei, nessuno di loro sembrasse interessato a mantenere una qualche forma di contatto visivo, nemmeno parziale, col sottoscritto, mentre invece tutti concordavano sul desiderio di un setting esclusivamente telefonico.
Può anche darsi che abbiano preconsciamente intercettato una mia preferenza, perché pur non avendo nulla contro la possibilità di svolgere alcune sedute on-line, non mi trovo a mio agio con i ritmi talvolta un po’ sfalsati che impongono i software o le app di videoconferenza, parlo di quel leggero delay che a me pare tolga spontaneità alla conversazione e al suo ritmo naturale.
Capirete che quando Lucy mi ha proposto di continuare per qualche settimana le nostre sedute on-line ero interessato a capire cosa avrebbe proposto e anche come mi sarei sentito io. Era abbastanza ovvio che il setting sarebbe cambiato, anche se solo per un periodo limitato, la domanda era: “Come?”.
Mi ero già convinto che con l’uso – per me estremo – che Lucy faceva di ogni sorta di device e periferica, sarebbe stato difficile starle dietro, ma mi rassicuravo dicendo tra me e me che comunque avrei potuto rifiutare se non mi fossi sentito sufficientemente libero e a mio agio. Trovo che però a volte essere genuinamente curiosi di fronte a certe questioni possa essere d’aiuto, e questo in fondo era lo spirito con il quale mi ponevo di fronte alla richiesta della paziente, la quale – sorprendendomi non poco – mi disse: “Visto che mi collego dalla camera e che in casa ci saranno anche i miei, non mi va tanto di parlare perché temo che potrebbero sentire qualcosa – poi lo sa che non sono troppo brava a parlare – se lei non ha nulla in contrario preferirei poter scrivere e poi lei se vuole, mi risponde”.
Me and Lucy in the sky with diamonds[10]
Dopo uno spiazzamento iniziale credo di aver compreso la sua richiesta, in fondo non troppo dissimile da quella seduta nella quale tempo prima, per la prima volta, era emerso il suo periscopio/smartphone dalle profondità nelle quali si nascondeva. Così concordammo l’uso di un programma di messaggistica che girasse sia su un computer che su uno smartphone e che avrebbe potuto essere funzionale per entrambi: io in studio e lei a letto – al sicuro – in camera sua come sul lettino della stanza d’analisi.
Debbo dire che è stata un’esperienza che mi ha stupito molto – con questo non intendo paragonarla ad una seduta di analisi in presenza – ma in poco tempo mi sono reso conto di quanto la prosa scritta di Lucy fosse assai più vicina al suo pensiero rispetto alle parole che uscivano stentate dalla sua bocca. I suoi periodi per contro erano chiari e concisi e inoltre le ci voleva molto meno del solito per arrivare al nocciolo delle cose.
La ragione di questo, me ne sono accorto ben presto, stava nel fatto che questo da alcuni anni ormai era il suo vero ‘linguaggio’, era il modo elettivo di comunicare con gli altri pari con i quali si identificava davvero, quelli della community. Io invece che ero l’ultimo arrivato, mi sentivo alla stregua di un intruso, un po’ come Alice nella tana del Bianconiglio, ma cercavo a mia volta di imparare a comunicare in quella forma un po’ come se fosse una nuova lingua, o forse la lingua di una nuova realtà.
Giocavamo – in senso winnicottiano – sul suo terreno ed io ero chiamato in qualche modo ad ‘estendermi’ attraverso di esso, come già aveva fatto lei. In questa sorta di metaverso potevo anche ricevere immagini di disegni, suoi e di altri, piccoli filmati, che funzionavano alla stessa stregua di una sorta di realtà aumentata che usavamo per comunicare.
Anche io, quando le rispondevo, sentivo di non dover essere dispersivo per non annacquare il senso dei miei interventi, ed in questo caso era possibile che il tempo maggiore che intercorreva tra il mio pensiero e la sua digitazione in forma scritta, mi aiutasse ad essere più a fuoco ed essenziale.
Non perdere il filo del corporeo nei labirinti digitali
Avere attraversato questa fase del lavoro con Lucy non ho alcun dubbio che sia servito a me per comprendere meglio il suo mondo, per riuscire a vederla nella sua interezza di corpo fisico scarsamente investito, opaco, sfuocato – e corpo virtuale nitido, traboccante di forza e colore.
Io credo che mai come ora, soprattutto nel lavoro psicoanalitico, si renda necessario poter esplorare gli innesti e le estensioni dello psiche-soma della diade analista/paziente in quei piani di realtà – tra fantastico, virtuale e digitale
– che intersecano quello originale dando luogo a un multiverso complesso dall’estensione potenzialmente illimitata. Questo non deve spaventarci se, come Arianna – per evitare di perderci andando alla deriva in questo labirinto multidimensionale, in questo tesseract – riusciamo a mantenere il ‘filo’ del corporeo. Ciò che ci appartiene dalla nascita e da cui originano pelle corporea e psichica, frontiere, avamposti remoti che per quanto lontani, restano umani.
Bibliografia
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Gaddini E. (1968). Sulla imitazione. Rivista di Psicoanalisi, 14(3), 235-260.
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Lemma A. (2005). Sotto la pelle: psicoanalisi delle modificazioni corporee. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011.
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Lemma A. (2018). Pensare il corpo. L’esperienza corporea in psicoanalisi e oltre. Roma, Giovanni Fioriti Editore.
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Ruggiero I. (2011). Corpo strano, corpo estraneo, corpo nemico: itinerari adolescenziali tra corpo, psiche e relazione. Rivista di Psicoanalisi, 57: 825-847.
Tausk V. (1919). Scritti psicoanalitici. Roma, Astrolabio, 1979.
Tylim I. (2012). The techno-body and the future of psychoanalysis. Psychoanalytic Inquiry, 32(5), 468-479.
NOTE:
[1] Di questa nota non è mai stata trovata una versione originale in tedesco, ma quella qui riportata si affermava essere stata autorizzata dallo stesso Freud.
[2] Per molti critici ed esperti del settore Cronenberg è il pioniere del cinema body horror.
[3] The Fly (1986), Naked Lunch (1991), Crash (1997), eXistenZ (1999).
[4] Tradotta in italiano con “Abbi paura. Abbi molta paura.”, era la tag-line, la frase che spesso appariva a commento di locandine e cartonati di presentazione al film. Ebbe così successo che fu poi ripresa e parodiata per un gran numero di altre iniziative e pubblicità.
[5] Con un budget di 9 milioni di dollari, al botteghino ne fece incassare ben 60,6. Vedi: La mosca – Wikipedia
[6] Espressione usata con continuità nei suoi lavori da Lemma e in particolare in Un ordine di pura decisione – Crescere in un mondo virtuale e l’esperienza dell’essere-in-un-corpo in adolescenza (2018, 83-102).
[7] A patto ovviamente di indossare un paio di questi occhiali. Ma nulla vieta in futuro di immaginare che il progresso tecnologico possa portare alla creazione di lenti a contatto o qualche altro dispositivo elettronico ancora più integrato ed ‘incarnato’, con le stesse proprietà.
[8] Knotgarden Musica e Adolescenza, 2024/1, p.121.
[9] Formula utilizzata da Irene Ruggiero nel suo articolo Corpo strano, corpo estraneo, corpo nemico: itinerari adolescenziali tra corpo, psiche e relazione (2011).
[10] Il riferimento ovviamente è al famosissimo pezzo dei Beatles composto, almeno sulla carta, dalla coppia Lennon-McCartney e sul quale nel corso degli anni è stato detto tutto e il contrario di tutto. Avendo un testo tra l’ermetico e lo psichedelico, alcuni contemporanei – evidentemente già perplessi dal titolo – pensarono non senza fantasia che l’acronimo della canzone, cioè L.S.D. testimoniasse il fatto che il brano fosse stato composto dagli autori sotto l’influsso della nota sostanza psichedelica. In realtà tempo dopo si seppe che il brano fu composto quasi interamente da Lennon dopo aver visto un disegno di suo figlio Julian, il quale appena tornato dall’asilo lo mostrò tutto felice al padre che gli chiese di cosa si trattasse e lui rispose “è Lucy nel cielo con dei diamanti!”. Lucy O’Donnel è esistita veramente ed è stata davvero compagna d’asilo di Julian Lennon, il quale poi confermò di avere avuto una cotta per lei all’epoca. La canzone divenne un motivo così conosciuto ed ascoltato che quando in Etiopia a metà anni 70 furono trovati i resti di un esemplare femmina di Australopithecus afarensis le fu dato il nome di Lucy in onore del pezzo dei Beatles. Dal canto mio ho scelto di chiamare la mia paziente Lucy perché il testo del brano di Lennon è pieno di riferimenti alle opere di Lewis Carrol, le cui atmosfere oniriche e surreali mi hanno ricordato i disegni della mia paziente ‘zero’ con cui ci siamo incontrati per lavorare anche nell’etere.
*Per citare questo articolo:
*Per citare questo articolo:
Lombardo C. (2025). Non perdere il filo del corpo per uscire vivi dal labirinto digitale. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 27-52.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
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