L’ecosistema digitale e i suoi soggetti

Anna Cordioli dialoga con Davide Bennato

Anna Cordioli

(Padova), Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana, Referente della comunicazione web del Centro Veneto di Psicoanalisi.

Davide Bennato

(Catania), Sociologo, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Catania, saggista.

*Per citare questo articolo:

Cordioli A. (2025).  L’ecosistema digitale e i suoi soggetti. Anna Cordioli dialoga con Davide Bennato. Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 187-201.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

 

The Internet is just another experiment showing us more sides of us.

(Frank Ocean, 2016)

 

Nel 2024 è uscito, per Laterza, un saggio dal titolo asciutto e promettente: La società del XXI secolo. Persone, dati, tecnologia. A scriverlo è Davide Bennato, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Catania. Bennato non è solo uno studioso della complessità del campo comunicativo in ambito digitale, ma è a sua volta un attivo utente social che vive questo mondo “da dentro”.

In questo, va riconosciuto a Bennato, di essere uno dei primi studiosi italiani della sua generazione che parla del contesto digitale avendone una esperienza diretta e personale. In molti ambiti colti, esiste infatti una tendenza a produrre riflessioni su questo tema senza essere, in effetti, mai stati disposti a farsi “contaminare” dal reale digitale.

Mi viene in mente quel passaggio de La storia Infinita di Ende (1979) in cui il giovane esploratore incontra il massimo esperto della Sfinge e gli chiede se l’abbia mai incontrata. Al che l’esperto, stizzito, risponde “No! Di certo! Sono uno scienziato io!”.

Bennato invece, con un atteggiamento simile ai colleghi delle generazioni più giovani, non ha avuto paura di vivere una parte della sua vita (si dirà così?) anche sulla rete e forse anche per questo, l’incontro con i suoi scritti è spesso molto stimolante. Se ne apprezzano il piglio preciso, l’ampiezza dello sguardo e il tono mai troppo solenne: tratti che direi comuni a molti tra i primi abitanti della rete.

Questo autore, nei suoi studi, si interessa al modo in cui la società cambia e si struttura attorno alla tecnologia digitale. Studia come cambiano le forme di comunicazione, di aggregazione tra le persone, di riconoscimento degli individui nella e dalla rete. Gli studi di cui parla nel libro sono di grande aiuto per porsi nuove domande e comprendere cosa si intenda per ecosistema digitale.

Prima di inoltrarmi nel dialogo con Bennato, mi permetto di fare una digressione che definirei, “ambientale”.

 

L’ottavo continente

Quanti sono i continenti?

Alcune definizioni ne contano cinque, altre arrivano a sette. Nel XXI secolo si è sentita la necessità di moltiplicare i nomi dei continenti: questo è dipeso da una visione più globale del mondo e dal progressivo decentramento dei nuclei di influenza avvenuti nel 900.

La visione in cui l’Europa era al centro dei suoi imperi si è ribaltata e l’Occidente stesso si è reso conto di non essere più il metro di misura del pianeta. Questo fenomeno suona familiare agli analisti. In fondo è come se l’occidente avesse patito qualcosa di simile alle ferite narcisistiche che l’essere umano ha subito nella storia (Freud, 1916): nello sviluppo c’è sempre una presunta centralità che viene perduta, un modello di sé che deve essere ridiscusso.

Il ‘900 è stato anche il secolo in cui la popolazione mondiale si è quintuplicata: eravamo 1 miliardo e mezzo quando Freud scriveva la Traumdeutung (1899) e ora siamo quasi 8 miliardi[1].

Ma la cosa ancora più interessante è che proprio a fine anni Sessanta, all’apice del fenomeno del baby-boom, l’umanità ha prodotto qualcosa del tutto nuovo: un ottavo continente, popolato oggi da 5 miliardi di persone. Si chiama Web.

La fondazione di questo continente è spuntata nel 1969[2]. Il dott. Leonard Kleinrock collegò due computer tra loro fisicamente distanti, uno presso la UCLA e uno a Stanford. In questo momento si può dire che il concetto di spazio si trasforma, rendendo possibile ad un essere umano di agire su due macchine come se fosse fisicamente in due luoghi allo stesso tempo.

Nel 1989 Tim Berners-Lee, ricercatore del CERN inventa il WWW e nel 1993 mette il codice sorgente a disposizione di tutti. È questo il momento esatto in cui l’ottavo continente emerge e in 30 anni è diventato ampio quasi quanto il nostro pianeta.

In fondo, è sempre andata così: quando un territorio diventa troppo popoloso si va alla conquista di un altro pezzo di terra. E se il mondo è già stato tutto scoperto? Allora si fa un salto concettuale e se ne crea uno nuovo.

Da un punto di vista antropologico, la creazione di un continente virtuale è una entusiasmante avventura di rifondazione. All’inizio il Web era una novella Utopia, era il continente della promessa dell’evoluzione umana, era il mondo ideale.

Purtroppo però, ogni fuga in un’isola deserta produce immancabilmente sempre lo stesso risultato: quell’isola non sarà più deserta. Così oggi il continente Web è diventato come tutto il resto del mondo.

Esso è lo specchio ampio quasi quanto la popolazione umana. Il web riflette i nostri assetti e infatti non ci piace affatto guardarlo: ci sembra così gretto, così bestiale, così pericoloso. Eppure è cosa umana.

Vedere il Web come un nemico che perverte la nostra natura è un po’ come essere scandalizzati dal contenuto di un proprio sogno o essere orripilati di fronte ad una foto che ci hanno fatto di sorpresa.

E infatti, man mano che il Web si è evoluto ha mostrato di essere una maestosa tela proiettiva in cui possiamo ritrovare una trasposizione fuori dall’individuo delle nostre strutture inconsce. Non ci piace vederci specchiati nel Web perché in fondo all’uomo gli specchi non sono mai davvero piaciuti: l’uomo ama i riflessi ma non ama discutere con la realtà l’immagine che dà di sé stesso.

Con il Web siamo diventati compresenti, contemporanei, connessi. Questo ha fatto pensare al Web come ad una matrice densa, quasi amniotica, in cui non esistano né la separazione fisica né quella temporale e in cui l’evidenza soppianta la simbolizzazione.

Questo però, va ricordato, non descrive solo uno stato simile ad una posizione regredita e narcisistica; se ci pensiamo, questi stessi aggettivi qualificano anche la struttura dell’inconscio, in cui ogni cosa è compresente, nulla termina e nulla è dimenticato (Freud 1899). Guardare ai fenomeni del web come a derivati dell’inconscio ci aiuta molto ad orientarci circa le loro dinamiche.

Non capita tutti i giorni di poter vedere nascere un nuovo continente e poter osservare lo sviluppo di strutture profonde via via più complesse. Per certi versi lo sviluppo del Web ha ricalcato molta parte dei processi psichici aurorali della nascita della mente. Troviamo infatti una progressione nel modo in cui gli utenti dell’Internet si sono comportati in questi trent’anni e vale la pena di accorgersi che esiste una evoluzione in atto.

Se adottassimo questa ottica, vedremmo che c’è stato un passaggio dall’onnipotenza iniziale fino all’attuale consolidamento della socialità, con le conseguenti frustrazioni e fatiche relazionali. Fino a prima del covid ci trovavamo di fronte ad un continente simile ad un tardo adolescente, sempre meno convinto che il mondo sia nato con lui, occupato a intessere relazioni, a litigare e domandarsi continuamente chi è.

Oggi, possiamo a buon titolo affermare che ogni sogno di utopia è finito e l’ottavo continente è percorso da guerre esattamente come gli altri sette continenti che si specchiano in lui.

Dalla sua nascita, con i siti statici, fino al web 4.0, dominato dai mega data archives e dall’intelligenza artificiale, l’ottavo continente è cambiato in continuazione. Anche le parole che abbiamo inventato per abitarlo hanno cambiato drasticamente il loro significato.

Si pensi ad esempio al concetto di “Virtuale” che usavamo a fine degli anni ’90: lasciava intendere una “non realtà” che si svolgeva solo in effige, potenzialmente senza sfiorarci. Quell’area semantica si appoggiava su esperienze molto diverse da quelle che facciamo oggi. Ad esempio il “virtuale” del web anni ‘90 era più solitario, quasi amniotico. Pensiamo invece al “Virtuale” del web 2.0 (dopo il 2000 – dopo la nascita dei social network) in cui è stato necessario sviluppare un’idea di nostra identità virtuale sociale. Infine quell’immagine eterea di “virtuale” si è sciolta di fronte all’avvento del web 3.0 (dopo il 2006), che ha sviluppato le App che ci seguono nel quotidiano e che, più o meno col nostro permesso, raccolgono i nostri dati biometrici, le nostre abitudini d’acquisto e le preferenze politiche.

Questa è una dimensione, chiamata l’internet delle cose, ci costringe a comprendere come la tecnologia web e digitale sia ormai da studiare come un evento di ecosistema.

 

Veniamo dunque all’interessante libro di Bennato che parte esattamente da qui: dalla richiesta di comprendere che il mondo in cui viviamo è questo e che, per poterne cogliere le trasformazioni, è necessario sviluppare un pensiero di complessità. Con questo fine, Bennato ci offre la lettura sociologica.

 

Dialogo con Davide Bennato

Anna Cordioli: Nella società del secolo scorso, c’è stato una sorta di “sogno” comune, che ha poi condotto alla rivoluzione digitale. Nel suo libro La società del XXI secolo inizia dicendo che la realtà contemporanea è diventata quella che aveva immaginato il movimento culturale del Cyberpunk negli anni ’80[3]. In particolare, ricorda una famosa frase dello scrittore cyberpunk William Gibson: “Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”.

Ci toccherà dire che la realtà digitale è frutto più di un incubo che di un sogno?

 

Davide Bennato: Secondo me la realtà raccontata dal cyberpunk non è precisamente un incubo, è solo un profondo mutamento antropologico che ha bisogno di essere assorbito dal contesto sociale, e in attesa di questa stabilizzazione esplodono conflitti e contraddizioni. Da osservatore e studioso della società digitale del XXI secolo, quello che mi pare di rilevare sono le avvisaglie di un cambiamento epocale.

Abbiamo vissuto in un periodo in cui i rapporti sociali e la nostra costruzione come individui erano basati su due tasselli chiave – la compresenza e la sincronia – tradizione questa del XIX secolo, a cui si era aggiunta la mutazione di senso apportata dalla rivoluzione industriale, nella fattispecie il ruolo giocato dal denaro e dal capitale per standardizzare relazioni e individualità, vero contributo del XX secolo. In questo percorso si è inserito il XXI secolo che ha fatto saltare i “dogmi” del vivere sociale, abituandoci ad un mondo in cui la compresenza è mutata in distanza e in cui la sincronia si è trasformata in asincronia.

Basti pensare ad un’esperienza traumatica ma rivelatrice come la pandemia. Proviamo a immaginare di vivere una situazione di lockdown in assenza di quelle tecnologie digitali che ci hanno permesso di affrontare le sfide di quei giorni. Senza il mondo digitale e le sue proprietà sarebbe stata una condizione insostenibile.

Il mondo tecnologico di oggi è sicuramente il sogno della società dell’800 – basti pensare le opere dei grandi produttori di immaginario da Robida a Welles a Verne – che vivevano nell’idea di progresso e del futuro come utopia. Poi è arrivato il ‘900 in cui le conseguenze inattese della tecnologia hanno creato inquietudini incarnate dalla bomba atomica e dall’immaginazione di Asimov o di Dick, che hanno delineato futuri distopici, superando l’ottimismo tecnologico ottocentesco.

Gli anni 2000 sono stati anni di attesa: troppo disincantati per l’utopia, troppo timorosi per la distopia, in attesa di una percezione del futuro nuova e condivisa.

 

A.C.: Nel libro lei spiega che alla base dei processi sociali contemporanei c’è la centralità dei dati[4]. All’ombra di questo incessante scambio di informazioni vanno creandosi nuovi equilibri socio-politici ma anche nuove concettualizzazioni del rapporto tra cittadino e stato, fino a dover ridefinire il soggetto umano.

Al di là che questo piaccia o inquieti, diviene importante comprendere l’instaurarsi di quello che lei chiama un “Ecosistema Digitale”.

Ci aiuterebbe a comprendere quali sono le parti che lo compongono ma anche gli elementi che l’hanno reso possibile? In che modo questo ecosistema coabita con gli altri ecosistemi?

 

D.B.: L’ecosistema digitale consiste in quell’ambiente tecnologico creato dall’interazione tra opportunità tecnologiche e necessità politiche-economiche. Alla base di questo ecosistema vedo non tanto delle tecnologie specifiche, che comunque sono frutto dello scorrere del tempo e in quanto tali obsolescenti, piuttosto dei grandi paradigmi digitali, ovvero modi di pensare i rapporti individuali e collettivi rispetto alla tecnologia. Questi paradigmi sono tre. I big data, ovvero la possibilità di ridurre qualunque elemento del mondo circostante ad un flusso di dati da raccogliere, controllare e manipolare.

Poi il cloud computing, in pratica la possibilità di agire sui dati in modo delocalizzato e asincrono aumentando o diminuendo a piacere le risorse computazionali necessarie a svolgere qualunque compito. Infine l’internet delle cose (internet of things), in base al quale gli oggetti fisici non digitali diventano anch’essi elementi della rete internet, così da godere delle stesse proprietà degli elementi della rete come la capacità di produrre dati. Questi tre paradigmi tecnologici si sono trasformati in una articolata infrastruttura che ha aumentato la complessità sociale del mondo contemporaneo.

Per semplificare la cosa ho usato l’immagine dei livelli di significato che noi dobbiamo sfogliare per comprendere il contemporaneo. Allo strato sociale – centrale per un sociologo come me – si sono sovrapposti lo strato tecnologico – gli artefatti che consentono di fare cose nuove ma seguendo specifiche regole (abilitanti da un lato e vincolanti dall’altro) – e lo strato delle informazioni, ovverossia i dati che le tecnologie producono e che ne definiscono l’impatto sociale.

Per esempio: cosa sono gli influencer? Sono persone (strato sociale) che agiscono all’interno dei social media (strato tecnologico) che sono percepiti come importanti o celebri in virtù della popolarità rappresentata dai loro follower (strato informazioni).

Ovviamente i tre strati interagiscono tra di loro: un influencer truffaldino potrebbe sembrare più importante acquistando follower finti: ovvero le informazioni (follower) agiscono sulla tecnologia (social media) cambiando le caratteristiche della persona (influencer).

È questo che rende sociologicamente e culturalmente interessante la società del XXI secolo: proprietà sociali e individuali sono state trasformate da caratteristiche tecnologiche.

 

A.C.: Mi interessa capire come la centralità dei dati stia, a suo avviso, trasformando il rapporto che il sapere ha con la realtà. Ad un livello epistemologico, verrebbe da pensare che avrà valore solo una conoscenza mediata dalla tecnologia.

Ad esempio, ci può spiegare il fenomeno del Quantified self che, in fondo, capovolge il concetto di self, da capacità di autorappresentazione a capacità di automisurazione?

Lo possiamo considerare un esempio di “datizzazione” o di “dataismo”?

 

D.B.: Il quantified self è un movimento sociale e culturale, nato nella California della Silicon Valley ma che ha colonizzato il mondo del wellness, che si basa sul trasformare il proprio corpo ascoltandolo attraverso le tecnologie digitali che consentono la misurazione di variabili biologiche come il movimento, il battito cardiaco, la qualità del sonno e così via.

Da quando le tecnologie digitali che indossiamo – penso al cellulare o allo smart watch – hanno sensori che rilevano queste informazioni, stiamo modificando sempre di più il rapporto con il nostro corpo.

È sempre stato così. Una volta era la bilancia che ci diceva che dovevamo diminuire di peso, adesso è lo smart watch che ci dice che non abbiamo raggiunto il numero minimo di passi per restare in salute.

Quello che cambia però è che abbiamo cominciato a percepire il nostro corpo come un flusso dati: non vediamo più la nostra pancia (o meglio non solo) ma vediamo la proporzione fra massa magra e massa grassa. In pratica i dati sono diventati uno strumento semiotico, una strategia di significazione attraverso cui comprendiamo il rapporto con il nostro corpo e – per esteso – con la nostra identità.

In quanto strumento semiotico, i dati possono essere usati in modo strumentale o ideologico.

Il modo strumentale è la datizzazione, ovvero raccogliere i dati per intervenire sul mondo circostante: l’atleta amatoriale che indossa il sensore per migliorare la propria performance sportiva. Il modo ideologico nell’uso dei dati è il dataismo: l’atleta amatoriale che migliora sempre di più la propria performance e si sente una persona migliore e superiore a chi non pratica sport o non lo pratica con il suo stesso atteggiamento.

Il rapporto che c’è tra datizzazione e dataismo è lo stesso che c’è fra una persona a dieta e una persona anoressica (o bulimica): nel primo caso il cibo è uno strumento, nel secondo una religione (più correttamente un senso di colpa).

 

A.C.: In un passaggio del suo libro, parafrasando Nietzsche, scrive: “Se l’uomo guarda dentro la tecnologia, allora anche la tecnologia guarderà dentro l’uomo. E le conseguenze saranno inaspettate” (Bennato, 2024, p.101).

In questa sua frase si intravede, nella tecnologia, un quantum di intenzionalità che fino a qualche decennio fa sarebbe stata pensabile solo dagli scrittori di fantascienza. Oggi invece la sua lettura della frase di Nietzsche sta diventando una evidenza che possiamo sperimentare nel quotidiano e lo si può notare dai problemi che la tecnologia ci pone:

Il tema dell’identità digitale (individuale, sociale, digitale, di consumo ecc.)

  • Il tema dei diritti del soggetto digitale (privacy, consenso, proprietà, sicurezza, esistenza in rete, libertà di espressione)
  • Il tema di come cambia il concetto stesso di Soggetto, nel flusso.

Nel suo libro riflette molto su questi temi. Ci aiuta a comprendere in che contesto si può dire che l’intelligenza artificiale è un “soggetto”? La datizzazione sta, infine, maturando una epistemologia che soggettiva la tecnologia e oggettiva (datizza) gli utenti umani?

 

D.B.: Io vedo nella trasformazione della tecnologia in un soggetto sociale una evoluzione del rapporto fra noi e il mondo in linea col processo trasformativo tecnologico.

Una volta la tecnologia era un artefatto di potenziamento fisico individuale, uno strumento che necessitava dell’uomo per poter esprimere le proprie potenzialità, pensiamo all’aratro, alla spada o alle navi. Poi la tecnologia è diventata l’espressione di un potere collettivo, ovvero riusciva a sussumere in sé la fisicità di molti uomini: pensiamo alle tecnologie dell’industrialismo animate dalla macchina a vapore come il telaio meccanico, il treno, la catena di montaggio.

In questo processo sono apparse le tecnologie che hanno potenziato le capacità mentali dell’uomo: l’orologio, gli strumenti di calcolo, gli strumenti di automazione della scrittura.

È proprio qui che la rivoluzione industriale ha compiuto una mutazione antropologica: non solo concentrare il potere fisico di molti uomini, ma anche il potere mentale di molti uomini. Non è un caso che la tecnologia della macchina a vapore e quella delle prime macchine calcolatrici fosse la stessa. Dalle macchine calcolatrici dell’800 ai calcolatori elettromeccanici del 900 al computer digitale il passo è – relativamente – breve.

Il computer è diventato una macchina in grado di aiutare l’uomo a svolgere funzioni cognitive: calcolare, scrivere, archiviare, organizzare. In questo panorama nasce la possibilità di connettere computer tra loro e così facendo connettere le persone tra loro: nasce l’idea del network digitale, di internet.

A questo punto si innesta una ideologia chiara: se i computer possono aiutare le funzioni cognitive umane, i computer potrebbero imitare le funzioni cognitive umane? Ovvero – per estensione – i computer possono imitare l’uomo? La risposta a questa domanda è stata un “sì” via via sempre più preciso, rappresentato dal sorgere delle IA.

Oggi in cui è avvenuto il processo di incorporazione del digitale nel mondo fisico grazie alle tecnologie mobili, in un movimento che ha portato gli oggetti sociali dentro internet e gli oggetti internet dentro la società, siamo arrivati alla confusione massima. Le macchine imitano l’uomo in un tentativo di legittimazione (IA), e l’uomo imita le macchine come estremo momento del capitalismo contemporaneo (rider, influencer, creator).

La datizzazione non è altro che la dimensione antropologica che incorpora il riduzionismo capitalista con il funzionamento dei computer e – per estensione – del mondo digitale, diventando ideologia totalizzante.

 

A.C.: Nel suo testo scrive “La tecnologia può avere un impatto sui valori delle persone” (Bennato,2024, p. 17) e già da diversi anni si occupa di Tecnoetica. È un avamposto ancora del tutto umano nell’ecosistema digitale?

E più in generale, come e dove ritroviamo le tracce dell’umano nella società digitale del XXI secolo?

Viste le dinamiche epistemiche ed economiche in corso, accadrà come in Matrix in cui il “virus umano” dovrà nascondersi negli anfratti del sistema per sopravvivere oppure, col tempo, si potrà pensare ad una società che riequilibra il rapporto valoriale tra datizzazione e ineffabile?

 

D.B.: Io ho immaginato la tecnoetica come controparte valoriale della società tecnologica, un po’ come la bioetica è l’aspetto valoriale delle conseguenze sociali dell’innovazione scientifica (biomedica, ma non solo). La questione non è chiedersi cosa resta dell’uomo nella tecnologia, ma quale aspetto della tecnologia ci renda ancora umani. La vulgata comune ha sempre contrapposto la tecnologia – considerata disumanizzante – all’uomo, mentre la realtà non tecnologia sarebbe ciò che rende umano l’uomo. 

L’uomo è diventato strumento di civilizzazione grazie al cambiamento antropologico della scrittura, vera tecnologia cognitiva. Le civiltà antiche sono testimoniate dalle tracce materiali, l’intelligenza animale non ha mai prodotto artefatti o utensili. Noi siamo esseri umani grazie alla tecnologia, e non nonostante essa.

Pertanto la tecnoetica è il modo con cui la tecnologia interroga l’uomo sui suoi valori, su ciò che crede, su ciò che viene considerato legittimo.

Quali sono i limiti di una società che usa i dati come strumento di accesso alla realtà? Ha senso instaurare una relazione – amicale, professionale, intima – con un agente digitale (penso all’intelligenza artificiale)? Fino a che punto è legittimo usare il proprio doppio digitale come strumento per interagire a distanza? Queste sono solo alcune questioni che la società del XXI secolo ci pone e con cui dobbiamo fare i conti.

La mutazione antropologica a cui stiamo assistendo è causa di, ma anche soluzione per, molte delle questioni che il digitale ci pone. Sarà compito nostro come collettività consapevole far sì che le promesse della società digitale si trasformino in opportunità e non in vincoli.

E perché ciò avvenga c’è un unico modo: discutere nella maniera più ampia possibile sulle questioni che questo secolo ci sta ponendo.

Tutti sono chiamati a dire la propria: da chi queste tecnologie le sta plasmando a chi invece le sta usando.

 

A.C.: Mi viene in mente quando Umberto Eco diceva. “Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide, anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti” (1986, pp. 6-7).

Lo scenario internazionale attuale ci mostra che qualcuno di intelligente, nella scena, emerge sempre e può utilizzare la sua comprensione del sistema per acquisire potere. Bisogna poi vedere se, oltre a ottime capacità tecniche, ha anche buone intenzioni…

Una possibilità è rifiutarsi di partecipare e capire. L’altra è quella di sviluppare conoscenze e quella che lei chiama tecnoetica.

Non ci resta dunque che salutarci, ringraziandola per questa intensa e stimolante conversazione. Ci lasciamo con molte domande e un invito a non recedere dalle attuali sfide della complessità.

 

 

Bibliografia

Bennato D. (2024). La società del XXI secolo. Persone, dati, tecnologie. Bari, Editori Laterza.

Eco U. (1986). Introduzione. in Pozzoli C., Come scrivere una tesi di laurea con il personal computer. Milano, BUR.

Ocean F. (2016). Holy Combat (BasedGod Interview). Genius.com  

Ende M. (1979). La storia infinita. Milano, Longanesi, 2018.

Freud S. (1899). L’interpretazione dei sogni O.S.F., 3.

Freud S. (1916). Una difficoltà della psicoanalisi O.S.F., 8.

 


NOTE:

 

[1] Con un numero così enorme di esseri umani – così tanti da sentirci sparire come individui – non è strano che l’angoscia più feroce in occidente sia diventata proprio la domanda sull’Identità. Si è passati dalle più storiche angosce sull’identità culturale e nazionale ad una diffusa fragilità sull’identità individuale. Vedremo quale angoscia ci guiderà tra poco.

[2] Proprio nello stesso anno dello sbarco sulla Luna.

[3] Per chi non lo conoscesse, questo genere letterario racconta di storie dalla forte connotazione politica e sociale, che si svolgono in un mondo decadente e ipertecnologico dominato dalle grandi multinazionali commerciali, un mondo tutt’altro che idilliaco.

[4] I dati sono le informazioni circa un oggetto e talvolta anche prodotte da quell’oggetto.

Anna Cordioli, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

annacordioli@yahoo.it

*Per citare questo articolo:

Cordioli A. (2025).  L’ecosistema digitale e i suoi soggetti. Anna Cordioli dialoga con Davide Bennato. Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 187-201.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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