La ragazza che si innamorò di unə robot* Confini dell’umano e molteplicità

di Chiara Buoncristiani

(Roma), membro associato della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Psicoanalitico di Roma.

*Per citare questo articolo:

Buoncristiani C. (2025). La ragazza che si innamorò di un robot*. Confini dell’umano e molteplicità. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 53-70.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

 

L’interrogativo etico deve sapersi adeguare

a ciò che un corpo può sostenere.

Quanto può sopportare una soggettività incarnata

calata in un contesto di interrelazioni e connessioni?

Quanta libertà di azione possiamo sostenere?

Rosi Braidotti

 

L’ibrido, il postumano e le cyber-femministe

Cosa c’entra la prospettiva cyber-femminista[1] con lo psicoanalista in situazioni cliniche connesse con gli effetti delle nuove tecnologie? Qui faccio soprattutto rifermento al cyberfemminismo come quel pensiero che inaugura un nuovo modo di vivere l’identità, per superare le logiche binarie che contrappongono il maschile al femminile. L’obiettivo cyberfemminista è quello di riformulare la comunità come “insieme fluttuante di soggetti”, allo stesso tempo semiotici e materiali, «uniti dal desiderio di forgiare legami che non riproducano una matrice» bloccata su stereotipi ma in grado di trasformarsi e offrire in modo più equo opportunità e riconoscimenti (Braidotti, 1995).

Autrici come Donna Haraway (2016) e Rosi Braidotti (2019; 2022) osservano che la scienza e le tecnologie contemporanee sono penetrate fin nei più intimi strati degli organismi viventi. Il loro fine è offrire una figurabilità a processi nei quali siamo coinvolti come soggettività ibride.

Queste autrici tratteggiano la figura del cyborg. Un diverso modo di pensare la relazione uomo-tecnologia anche rispetto alle concettualizzazioni delle tecnologie come “protesi”, che per quanto investite psichicamente restano comunque oggetti psichici e materiali con dei loro confini. Al contrario nel cyborg prevale lo sfocarsi dei confini tra umani e macchine in una “perfusione” attiva a tutti i livelli: dalla medicina alle telecomunicazioni, dalla finanza alla guerra moderna, le relazioni cyborg sono considerate come ciò che dà una nuova forma alla nostra struttura sociale (Braiodotti, 2019). Il cyber-femminismo evita tuttavia l’errore di guardare al cyborg come a una posizione soggettiva unica, fissa e unitaria, cioè come a una categoria astratta, universale e generalizzabile.

L’ibrido che nasce quando un umano è connesso a un dispositivo può essere pensato comunque come soggettività umana incarnata e intersoggettivamente radicata, ma flessibile e plastica, “dislocata” proprio perché strutturalmente interconnessa a codici digitali, cioè a elementi tecnologici e dispositivi che la rendono “nomade” (Braidotti, 1995). Il concetto di soggettività incarnata si riferisce all’idea che il ‘chi siamo’ e il ‘cosa sappiamo’ abbiano radice nell’esperienza corporea: il corpo non è pensato quindi come un semplice involucro materiale, ma come sede primaria della percezione, delle emozioni e della relazione con il mondo.

“Tale visione si contrappone al pensiero di un sé come qualcosa di astratto e disincarnato, aggrappato alle parole, ai simboli e alle norme sociali. Questa impostazione tende a fissare ruoli e identità in maniera rigida, trascurando il ruolo fondamentale del corpo e delle esperienze sensoriali nella costruzione della soggettività (Fraire, 2025).

 

Può essere interessante mettere al lavoro il concetto di “soggettività incarnata[2], plastica e strutturalmente interconnessa” all’interno del modello psicoanalitico. Ciò implica guardare il corpo come luogo di inscrizione delle esperienze di un Sé connesso. Un corpo allo stesso tempo anche testimone di una negoziazione con l’altro prossimo e quindi dimora di sensazioni, memorie ed esperienze che si imprimono in esso rendendolo lo spazio prescelto in cui si concentrano le esperienze relazionali del bisogno, del desiderio, del legame e della psicosessualità. 

Non a caso, per Braidotti le relazioni cyborg sono configurazioni plurali, stratificate, complesse e differenziate al loro interno: “Tra i cyborg includerei tanto il lavoro sottopagato e sfruttato delle donne e dei bambini delle fabbriche, quanto i corpi eleganti e superaddestrati dei militari che pilotano i cacciabombardieri dialogando con le nuove tecnologie a livelli postumani di velocità e simultaneità” (Braidotti, 2019). 

Prendendo ad esempio l’esperienza dei social e delle altre piattaforme, nonostante la palese riduzione della complessità delle relazioni, si vede bene la materialità incarnata di cui stiamo parlando: il profilo che utilizziamo quando siamo su un social è in grado di agire trasduttivamente sia come sensazione fisica che come percezione e infine come necessità di elaborazione psichica di senso: il like ricevuto va a toccare, eccitare ed emozionare come una carezza e a significare come un complimento. Con ogni accesso a Instagram, TikTok, Facebook o Twitter, per quanto in apparenza annoiato o compulsivo, tentiamo di appagare un particolare bisogno: quello di “esistere” con un’agency[3]. Con ogni gesto – like, commenti, condivisioni e persino sdegnosi silenzi – ribadiamo la nostra posizione di controllo rispetto a ciò che ci scorre davanti: saremo giudici e forse anche qualcosa in più, una forma di vita a metà tra Dio e Mary Poppins, perché troveremo il caos e gli imporremo un ordine. Sempre se stiamo a certe condizioni di utilizzo…

È così che sui social immagazziniamo molte informazioni sulle logiche dell’essere e del metterci in relazione (Bollas, 1989) con la sensazione “psico-fisica” di aver ricevuto molte carezze ed elogi; o al contrario con l’ansia di ricevere critiche e insulti; costretti a mostrarci adeguati, gioiosi oppure nella compulsione a condividere quanto più bellezza possibile, che si tratti di un panorama, di un selfie o di un piatto che stiamo per gustare: tutto questo si fa “materialità incarnata” nelle soggettività. 

Si tratta di un processo di “formazione” incarnata che il dispositivo compie sull’utente. Una formazione che incide direttamente sulla nostra plasticità psichica, visto che i percorsi della dopamina e il meccanismo di ricompensa che inducono a questa spinta costante, dalla quale la nostra attenzione è catturata, sono studiati scientificamente dalle Big Tech. È un processo di con-formazione dei nostri corpi e dunque anche dell’Inconscio.

Lontane dall’essere “tecno-euforiche”, le cyber-femministe mantengono un atteggiamento critico e cercano semmai strategie di sovversione e partecipazione anziché di mera negazione.

Ibrido il corpo. Ma ibrida diventa anche la relazione con il mondo. Prima di tutto quando ne facciamo esperienza attraverso un database, sul quale tutto il mondo digitale è organizzato. Un database che nelle sue infinite connessioni è molto più simile a come finora abbiamo immaginato i processi inconsci anziché quelli consci.

C’è un archivio di tracce, anziché delle narrazioni (Byung-Chul Han, 2024) e visto che “il database espande drammaticamente l’accesso alle informazioni, esso sfida l’autorità dei professionisti delle narrazioni” (Sacasas, 2012).

Le narrazioni ufficiali diventano quindi solo una delle tante voci nel database. Il che ci espone certo alle fakenews e al rischio ancora più angosciante che la verità sia sostituita dalle diverse “versioni”. Ma apre spazi di espressione del senso da parte di elementi che, trovandosi ai margini, sono esclusi o “perdenti” nelle narrazioni ufficiali.

Quanti dei nostri sintomi sono verità escluse dalle narrazioni ufficiali che facciamo di noi stessi?

 

Transitando da un sogno…

“Ho sognato che un robot mi saliva in braccio e mi abbracciava. Ho sentito che non avrei amato mai nessuno come quel robot…”. Un flash che nel corso di un lungo trattamento diventa terreno fertile per esplorare non solo le esperienze di una paziente nel mondo virtuale, ma anche il modo in cui esse entrano nell’inconscio della coppia analitica in una relazione complessa con la storia della paziente.

È di qualche tempo dopo, il commento della stessa che esclama: “Mi ha fatto così paura che poi nel sogno scappavo in bagno a lavarmi il viso. Mi guardavo allo specchio e pensavo tra me: ‘Questa cosa non si può fare. Umani e robot non possono amarsi’! Ma era bello e quando mi è salito in braccio io sapevo di amarlo. Che poi li trattiamo davvero male, pensando che diventeranno pericolosi, ma noi potremmo diventare loro…”.

L’analista fra sé e sé è tentata dall’attribuirgli subito un significato. Conosce la vulnerabilità narcisistica della paziente, evitata tramite il ritiro nel mondo dei social e rigiocata nel suo sintomo. Non può impedirsi di pensare a Il Perturbante (1919), con tutto il riferimento al racconto di E.T.A Hoffmann in cui il protagonista si innamora di un automa, o meglio della bambola animata Olympia. L’interpretazione che ne dà Freud andrebbe nella direzione di un desiderio di onnipotenza, ruotando infatti intorno al diniego dell’angoscia di castrazione che sarebbe insito nel pensare di andare oltre i confini dell’umano.

Insomma, potrebbe liquidare il sogno e il lungo periodo analitico che lo incornicia come segni di un transfert in una dimensione fusionale, in cui un oggetto soggettivo rispecchia e aderisce al desiderio di un non-ancora-soggetto. L’analista come un robot che anticipa e rispecchia ogni desiderio della paziente. L’analisi vissuta come una “bolla”. Si chiede, però, di chi sia quel sogno e soprattutto di quale materia sia tessuto.

Al tempo del sogno, tra paziente e analista era cominciato una sorta di gioco, che presto si era ritualizzato. L’analista aveva già notato di essere entrata in un dispositivo di controllo, qualcosa che in qualche modo “disponeva” di loro e che, senza scendere nei dettagli di questo trattamento, somigliava da vicino alla logica binaria dei social “like”/ “dislike”. Pollice su o pollice giù. Per mesi analista e paziente hanno ripetuto questo particolare funzionamento, con l’analista nella posizione identificatoria della paziente. Era un gioco con regole rigide, pre-disposte secondo una precisa logica di potere e di distribuzione dei riconoscimenti.

Identificandosi con le qualità del dispositivo dei social (rigidità, ghigliottina manichea tra “mi piace” e “non mi piace”) la paziente aveva ridato vita a un mondo dove le relazioni sono messe in forma secondo un preciso ordine semiotico: un sistema che invita a una scelta basica e istantanea (sì/no), che evoca caratteristiche rigide dell’oggetto.

L’ipotesi è che il sogno segnali un aurorale processo di soggettivazione, mostrando l’accesso dell’analista nella “bolla” e illuminando l’aspetto erotizzato, ma anche vitale di questa soluzione. Un tentativo di testare-tastare la disponibilità dell’analista a farsi medium malleabile (Roussillion, 2013) per poi cominciare a preoccuparsi di “come stava trattando male il robot” e del fatto che “un giorno potremmo diventare loro”.

 

Dispositivi tecno-logici

Nel nostro “divenire soggetti”, noi siamo e agiamo costantemente dentro vari tipi di dispositivi. Le istituzioni costruiscono dispositivi, così come le comunità. Lo stesso Freud nell’inventare la psicoanalisi (Macalpine, 1950) ha le condizioni perché un particolare processo di soggettivazione avvenisse dentro la cornice del dispositivo analitico.

In generale, i dispositivi sono “macchine di soggettivazione” di cui, si possono evidenziare qualità e “costi”. Essi si traducono in “tecnologie del sé” (Foucault, 1988), strumenti che permettono di performare (“fare operazioni con”) il proprio sé. Soluzioni che organizzano, danno forma e controllano i nostri aspetti più intimi: dalla cura del corpo all’uso dei piaceri, dalla sessualità fino al contatto con la follia.

Secondo una logica circolare, nel dispositivo si coagulano un insieme di strategie che esprimono rapporti di forza e allo stesso tempo li manipolano.

La novità è che nella società post-moderna (Carmagnola, 2015) il dispositivo diventa un dispositivo estetico. Siamo immersi in un mondo di gadget tecnologici (telefonini, rete, social…) che ci organizzano direttamente “dentro”, nel nostro sentire. Se dunque ogni economia è un’economia pulsionale (Lyotard 1974), ogni dispositivo diventa un dispositivo pulsionale con le sue regole. Ma un dispositivo pulsionale resta un luogo dove “si fa visibile il processo primario nel secondario”.

Ne deriva che qualcosa di inedito si è aperto al mondo contemporaneo, quando i gadget elettronici, come dispositivi pulsionali, hanno cominciato a mettere in forma il nostro stesso sentire, desiderare e godere.

Sempre più spesso, l’ascolto analitico dei pazienti, può portarci a mettere in crisi le categorie che fino a poco tempo fa potevamo dare per scontate. Una di queste è quella che fonda la distinzione tra umano e non umano.

Per chi fosse nel dubbio: il sogno citato è proprio un sogno transferale. Ma allora che tipo di transfert viviamo con certi nostri pazienti?

Questa domanda si allaccia a un altro quesito su cosa significhi essere “in un transfert” in quest’epoca in cui i dispositivi tecnologici sono diventate estensioni del nostro psiche-soma. Affermazione che però subito dovrebbe essere riformulata e resa più complessa. Perché, senza girarci intorno, da molti punti di vista siamo noi a essere diventi estensione dei dispositivi tecnologici. Si potrebbe continuare fino a farsi venire le vertigini e chiedersi cosa significhi a questo punto essere “se stessi”…

 

La paura di Matrix

Gli algoritmi dei social network fanno un lavoro specifico, anche se non gli facciamo domande specifiche: sono loro a estrarre dalla scatola (dall’infinito database della rete) gli oggetti che credono possano piacerci (darci piacere) di più in quel momento (Braidotti 2023). Quando siamo online, abbiamo a che fare con insiemi, organizzati o meno, di informazioni, di oggetti estratti dalla scatola della nostra sgangherata similitudine a quel “noi stessi”, che in questo caso corrisponde alle “fruizioni” che con i nostri profili abbiamo fatto in passato. Questi flussi di contenuti (feed) non hanno un significato in sé stessi, non hanno una sequenzialità o un fine “logico”, che non sia l’effetto che devono ottenere: tenerci il più possibile davanti allo schermo. 

Per funzionare, i codici dei dispositivi non hanno solo bisogno di elettricità. Hanno bisogno di “noi”, del nostro lavoro psichico, dei nostri desideri e delle nostre pulsioni (Buoncristiani e Romani, 2023). Come nell’iconica scena di Matrix, uomini immersi in un liquido amniotico sognano una realtà virtuale e intanto alimentano la Matrice.

Il linguaggio usato qui scivola inevitabilmente nella persecutorietà. Ed è vero quello che esclama il paziente che racconta il suo sogno all’inizio, “poi li trattiamo davvero male, pensando che diventeranno pericolosi”.

C’è una proiezione, che però rischia di con-fondersi con qualcosa di vero. Emerge una differenza tra “noi”, e “loro”: “le macchine” sono diventate il nostro Altro. Infinitamente potente e accudente: infinitamente pericoloso. D’altra parte, sappiamo che l’inconscio nasce e si forma nel suo divenire con l’Altro, nel farsi di una differenza che può aprire al molteplice. Un assunto di questo lavoro è che ci sia una co-dipendenza tra sapiens (Harari, 2014) e Altro tecno-digitale.

Tuttavia, rispetto alle nuove tecnologie – per dirla con Freud – il tentativo è evitare “qualunque partito preso”. 

 

Come psicoanalisti, siamo costretti a fare alcune riflessioni sulla definizione dei confini dell’umano e quindi anche sulla molteplicità delle sue forme e possibili trasformazioni. Per questo è utile esplorare concetti di alcune studiose e studiosi che cercano nuove chiavi interpretative per pensare l’uomo rispetto all’ambiente che lo circonda in una diversa posizione: meno centrale e più democratica. Più capace di offrire riconoscimento non solo alle altre specie e alla Terra, ma anche alle creazioni tecnologiche, alla nostra dipendenza da queste, alla nostra incompiutezza e dunque vulnerabilità. Facciamo continuamente transfert con queste creazioni e sull’ambiente non umano (Searles, 1969), producendo forme psichiche e inconscio. Questo decentramento è una posizione psichica sulla quale siamo spesso convocati dai pazienti e da “noi stessi”. 

 

Un oggetto che anticipa il desiderio

Le nuove tecnologie, soprattutto quelle fondate su codici e algoritmi intelligenti, sono guidate da una loro “logica” e da una “spinta” impersonale, eppure produttiva di senso ed effetti. In un certo modo assai preciso, quando siamo connessi alle nuove tecnologie alimentiamo i codici che abbiamo creato: li incorporiamo simbioticamente giorno dopo giorno. Lo facciamo per “potenziare” le nostre facoltà, aumentare le nostre possibilità di connetterci, lavorare e fare relazioni, superare i confini del tempo e dello spazio. Divertirci, provare piacere, anestetizzarci, dissociarsi dal dolore, eccitarci, sentirci “vivi”, sentirci “morti”, amare…

A tutti sarà capitato di trovare nella selezione random di Spotify esattamente quella canzone che suona nella testa da giorni. E spesso scorrendo i reel di Instagram compaiono i video dei personaggi popolari che ci interessano di più. Il “merito” è degli algoritmi che organizzano i contenuti che ci vengono proposti, proprio in base ai criteri di scelta che ci hanno spinto in precedenza a investire determinati contenuti e non altri. La sorpresa nasce dal fatto che l’algoritmo anticipa l’oggetto del nostro desiderio.

La domanda è: cosa sta succedendo ora che esistono macchine in grado di conservare le tracce di ogni nostra scelta? Abbiamo a che fare con forme di intelligenza algoritmica che, conoscendo tutte le nostre contraddizioni più inconfessabili, a partire dalle nostre scelte passate – nella privacy illusoria dei nostri telefonini e “schermi” – sono in grado di predire chi potremo essere?

Come per il sogno della paziente, siamo costretti a interrogarci sulla materia di cui l’Inconscio si nutre e sulle forme attraverso le quali pensiamo noi stessi e il mondo. Un’osservazione che da psicoanalisti potremmo fare è che l’ibrido non è più solo un rapporto funzionale, ma qualcosa di più complesso. A essere precisi, non è neppure una relazione tra soggetti e oggetti propriamente separati. Anche qui, è proprio il divenire di questa relazione a dare forma a ciò che chiamiamo soggettività. E “oggettività”.

 

Smontare l’incubo

In un futuro ormai alle porte, secondo Elon Musk, tutti impianteremo un “Neuralink” nel nostro cervello e così potremo attivare un telefonino solo pensando di volerlo fare. Anche se è probabile che la vera minaccia sia rappresentata dalla nozione assai ristretta dell’essere-umani pubblicizzata da Musk e dal suo sodale, il teorico della “Singolarità” Ray Kurtzweil (2005), è necessario fare i conti con le promesse di costoro e trattarle come un “mito d’oggi” (Barthes, 1974): secondo questo nuovo mito, il collegamento cervello-cervello permetterebbe di comunicare in modo apparentemente diretto con l’intera rete di cervelli connessi, senza dover muovere un muscolo né pronunciare parola.

La “Singolarità” consisterebbe quindi nel comunicare anche empaticamente con l’intero mondo, come in una trance. L’aspetto che può diventare molto angosciante è dunque che sembrerebbe dare espressione concreta all’unità tra azione, pensiero ed emozione.

Con entusiasmo o preoccupazione, intellettuali da diverse aree del sapere (Harari, 2014; Zizeck 2021) parlano perciò di “Singolarità”, come di un fenomeno che porterebbe l’umano oltre sé stesso, rendendolo “post-umano”. Lo psicoanalista che prendesse sul serio le promesse di Musk qui sarebbe portato a chiedersi: si produrrebbe una intelligenza troppo concretamente estesa e dunque senza Inconscio e in definitiva senza psiche?

Viene facile l’esempio di due amanti che fanno l’amore connessi potendosi scambiare le rispettive esperienze. Che succederebbe al masochista se non solo per identificazione con il sadico, in un gioco infinito di rifrazioni, potesse/dovesse accedere, simultaneamente all’esperienza di piacere dell’altro, ma anche di dolore nel piacere e di piacere nel dolore dell’altro e di dolore nel piacere del dolore dell’altro, e così all’infinito, magari moltiplicato per diversi individui tutti tra loro connessi? È chiaro che qui il soggetto, comunque lo pensiamo, si dissolverebbe (Zizeck, 2021).

In questo senso la psicoanalisi potrebbe essere non solo molto utile ma necessaria: sia perché sappiamo che la psiche non è “nel cervello”, ma è incarnata nell’esperienza corporea individuale. Esperienza che ha senso solo all’interno di un orizzonte che comprende una complessa trama di relazioni e livelli consci e inconsci. Sia perché questa sarebbe l’occasione per difendere l’Inconscio come virtualità irriducibile, quindi mai tutta compiuta, né completamente presente e “traducibile” da cervello a cervello.

Come si vede stiamo ancora parlando di confini e differenze. In questo caso confine tra “umani” e “postumani”. L’Inconscio, per lo stesso Freud, non è solo un territorio che ospita contenuti, ma può essere pensato come un lavoro, cioè come ciò che produce psiche: proprio nel modo in cui Freud ne parla nella prima topica quando si riferisce al “lavoro del sogno”. Come nel transfert.

Anche quando la ripetizione è traumatica, il transfert in cui l’Inconscio si attualizza, cioè si produce in seduta, non è una mera proiezione del paziente sulla relazione con l’analista della realtà “profonda” delle sue relazioni traumatiche, né la copia illusoria di un altrove il cui tempo è solo il passato. Il transfert è anche il modo in cui l’Inconscio, essendo sempre una potenzialità, si forma. Solo così è possibile smontare l’incubo…

 

Sostenibilità e molteplicità

L’inconscio è da sempre “ibrido”? Come psicoanalisti abbiamo cominciato ad esplorare l’eterogeneità dell’inconscio proprio a partire da alcune considerazioni contenute nella seconda topica (Bastianini, 2024). Ma tornando alla domanda sul cosa significhi “essere umani” in quest’epoca in cui il nostro psiche-soma è preso in una rete di effetti indotti dalla tecnologia, si potrebbe ribattere che oggi essere incarnati implica fare i conti con il ripensamento della definizione di “umano”.

Anziché con l’universale “Uomo” questa definizione potrebbe essere confrontata con il farsi della molteplicità delle soggettività incarnate, attraverso la sessualità, la memoria e l’immaginazione. Questa molteplicità troverebbe così nel corpo pulsionale della psicoanalisi, né meramente biologico, né astrattamente universale, un trasformatore per un flusso complesso di energie: una superficie di intensità attraversata da forze (affetti) e di connessioni plurali.

Quando Freud (1923) ci ricorda che l’Io è prima di tutto un Io-corpo come proiezione di una superficie noi possiamo chiederci, che cos’è oggi questa superficie? Essa è sia la superficie del corpo, il suo involucro incarnato – l’Io pelle di Anzieu (1985) – sia la superficie di iscrizione dell’Altro: in altre parole questo Io-pelle dipende dalle condizioni complesse, locali e, anche in questo caso “incarnate”, a seconda dell’epoca e della cultura.

La psicoanalisi non può limitarsi a considerare il corpo come una mappa di codici culturalmente imposti, ma cerca invece di pensarlo come una rete di iscrizioni semiotiche, culturalmente situate e negoziate attraverso le soggettività emergenti a livello singolare. Anche quando, c’è l’impronta di una serie di memorie traumatiche, il corpo è un processo di interazione complessa di forze inconsce, affettive, intersoggettive e sociali.

Questa superficie è pensabile come incarnata solo se accettiamo un principio di immanenza, rinunciando come in effetti abbiamo fatto da tempo, alla rigida opposizione che a partire dal XVIII secolo ha inquadrato l’uomo come composto da una metà animale (res extensa come corpo e materia) e una metà anima (res cogitans come mente e codice).

Il problema con l’immanenza è che rinunciare alle definizioni pre-costituite, poste dalla trascendenza, ci fa temere di perdere le “nostre identità” insieme alle parole per dirle. Come l’analista rispetto al sogno della paziente che si innamora di un robot, il rischio è di non comprendere. Per accogliere chi si trova nella posizione di mutante e mostruoso e per essere nella zona di vicinanza di chi non può ricadere nel perimetro di una definizione o non può compiere una scelta binaria (vittima/carnefice, umano/non umano, maschio femmina), occorre tenere il più possibile una posizione etica.

Rosi Braidotti si chiede quale argomento etico sia all’altezza dei nostri tempi: “quell’argomento capace di sostenere la soggettività durante la sua ricerca di interrelazioni con l’alterità” (2019, p.37). Cioè cercare la posizione che di volta in volta può apportare più “vita”, movimento e trasformazione. La psicoanalisi può tenere questa posizione attraverso negoziazioni psichiche in grado di adattarsi a individualità in crescita e in cambiamento.

E i limiti? Prendendo ancora a prestito alcune riflessioni delle cyber-femministe, pensare nell’immanenza non significa essere in un mondo senza limiti. Immanenza e incarnazione implicano al contrario i concetti di sostenibilità (Braidotti, 2022), di affetti e desideri. Non tutto deve essere consumato. “Materialità incarnata” significa un confronto con la sostenibilità di un’azione, una relazione, un desiderio…

Certo, le nuove tecnologie possono essere viste come strumenti di liberazione soggettiva e cooperativa. Ma allo stesso tempo è innegabile che siano anche dispositivi normativi, economici e biopolitici che non si fondano più sull’umano. Questo perché il capitalismo avanzato spiazza l’antropocentrismo in modo illusorio e dunque perverso: in forme paradossali e piuttosto opportuniste l’antropocentrismo è messo in scacco sì, ma a vantaggio di forze di mercato che privatizzano la vita stessa.

Eppure, sia nel post-antropocentrismo capitalistico sia in quello critico delle cyber-femministe la vita si afferma come trans-specie e non “solo” umana, invece di essere intesa come qualificante una sola specie, quella umana su tutte le altre.

 

Anziché assumere atteggiamenti tecno-utopisti o reazionari, la psicoanalisi potrebbe chiedersi in che misura è possibile pensare e agire una clinica che esalti le differenze in quanto capaci di sostenere nuovi modelli di organizzazione psichica, partecipazione, e azione condivisa e sostenibile.

Il processo di formazione e trasformazione delle soggettività richiede infatti una serie di trasformazioni che non sono solo l’insieme degli “universi simbolici” di una comunità, di un gruppo o di una famiglia, quanto le condizioni materiali e semiotiche che limitano e “abilitano” le soggettività.

Catherine Malabou (1996) propone il concetto di plasticità. La plasticità esprimerebbe sempre un eccesso, una potenza dialettica delle forme: un potere di ri-formazione che consente di ripensare la definizione della “forma Uomo” a partire non da una categoria universale ma dal lavoro dell’informe. L’informe non sarebbe però uno stato definitivo, privo di forma, tanto meno indifferenziato, ma un movimento del divenire, che si rivela capace di dispiegare un potere di ri-creazione. Merleau-Ponty (1964) ne Il visibile e l’invisibile elabora una dialettica che è interrogazione e non soluzione, esperienza e non idealizzazione, reversibilità e non sintesi.

L’antropopoiesi del dualismo umano/non umano può farsi quindi etica quando preferisce l’ascolto della lacerazione del sintomo alla chiusura pacificante, ma anche rigida e fissa. Se cioè si schiera a favore della “divergenza”.

 

 

Bibliografia

Anzieu D. (1985). L’Io-Pelle, Roma, Edizioni Borla, 2005.

Barthes R. (1963). Miti d’oggi. Roma, Einaudi Editore, 1974.

Bastianini T. (2024). Esplorare profondità psichiche: l’eterogeneità strutturale dell’Io, in Attualità di Freud a cento anni dall’Io e l’Es, Multiversi, 2024 – https://www.centropsicoanaliticodiroma.it/attualita-di-freud-a-cento-anni-dallio-e-les-1

Bollas C. (1989). L’ombra dell’oggetto, Roma, Borla, 1991.

Braidotti R. (1994). Soggetto nomade: Femminismo e crisi della modernità, trad. it. T. D’agostini, Roma, Donzelli, 1995.

Braidotti R. (2002). Materialismo radicale. Roma, Meltemi, 2019.

Braidotti R. (2013). Il postumano. Vol.1: La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Roma, DeriveApprodi, 2020.

Braidotti R. (2019). Il postumano. Vol. 2: Saperi e soggettività. DeriveApprodi, Roma, 2022.

Byung-Chul Han. La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2024.

Buoncristiani C. e Romani T. (2023). “Cyborg, l’Altro queer”, in Different Thoughts, Collana Multiversi.   , 2023.

Fraire M. (2025). “Maschi dai corpi stonati”, in Legami d’amore, legami d’odio, Collana Multiversi, , 2025.

Freud S. (1919). Il Perturbante. O.S.F., 9.

Freud S. (1923). L’Io e l’ES. O.S.F., 9.

Carmagnola F. (2015). Dispositivo. Da Foucault al gadget. Sesto San Giovanni, Mimesis Edizioni, 2015.

Deleuze G. (1969). Logica del senso. Milano, Feltrinelli, 2005.

Deleuze G. (1988). Che cos’è un dispositivo? Napoli, Edizioni Cronopio, 2007. 

Foucault M. (1988). Tecnologie del sé. Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

Kakar S. (2016). The Indian Jungle: Psychoanalysis and Non-Western Civilizations, Bicester, Karnac Book, 2024.

Kurtzweill R. (2005). La singolarità è vicina, Milano, Apogeo, 2005.

Harari Y.N. (2011). Da animali a dèi. Breve storia del genere umano. Milano, Bompiani, 2014.

Haraway D. (2015). Chthulucene. Roma, Produzioni Nero, 2016.

Lyotard J.F. (1974). Economia libidinale. Firenze, Colportage, 1978.

Macalpine I. (1950). “Lo sviluppo del transfert, trad. it. in C. Genovese (a cura di), Setting e processo psicoanalitico. Milano, Raffaello Cortina, 1988.

Merleau Ponty M. (1964). Il visibile e l’invisibile. Milano, Bompiani, 2003.

Malabou C. (2018). Divenire forma. Epigenesi e razionalità. Sesto San Giovanni, Meltemi, 2020.

Roussillon R. (2013). Paradoxes et situations limites de la psychanalyse. Parigi, Puf, 2013.

Searles H. (1969). Ambiente non umano. Torino, Einaudi, 2004.

Spinoza B. (1677). Etica, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.

Sacasas L. M. (2012). “What do I Like When I “Like” on Facebook?”, in Cyborogoly, 2012 

Žižek S. (2020). Hegel e il cervello postumano, Milano, Ponte alle grazie, 2021.

 


NOTE

[1] Il cyberfemminismo è un approccio femminista che mette in primo piano la relazione tra corpo, nuove tecnologie, soggettività femminili e più in generale “differenti” dalla maggioranza.

[2] Per Braidotti la soggettività incarnata è attività incessante, che metabolizza le influenze esterne e dispiega all’esterno gli affetti, guidata da un’etica di responsabilità e relazionalità, una richiesta di comunità e di appartenenza. Tuttavia, la materia corporea umana è sempre già sessuata e la differenza non è un problema ma la posizione da cui partire. Secondo questa visione, la potenza generativa delle soggettività incarnate non si fa rinchiudere nella macchina binaria dei generi e della famiglia eterosessuale. “Proprio perché ignoriamo cosa possono fare i nostri corpi postumani, non possiamo neppure immaginare cosa le nostre menti post-antropocentriche e incarnate saranno davvero in grado di pensare” (Braidotti, 2020, p.25).

[3] Per agency, o agentività, qui alludo al nucleo della capacità umana di esercitare un controllo sul proprio comportamento. Al contrario, l’angoscia di essere passivizzati e di poter solo reagire agli stimoli ambientali è quello che sembra contraddistinguere questa paziente.

Chiara Buoncristiani, Roma

Centro Psicoanalitico di Roma

cbuoncris@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Buoncristiani C. (2025). La ragazza che si innamorò di un robot*. Confini dell’umano e molteplicità. Rivista KnotGarden 2025/1, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 53-70.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Condividi questa pagina: