Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Sarantis Thanopulos
(Napoli), Membro Ordinario con Funzioni di Training e Presidente della Società Psicoanalitica Italiana 2021-2024.
*Per citare questo articolo:
Thanopulos S. (2024). Il tempo inattuale della psicoanalisi, KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 78-88.
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Tempo eterno e tempo storico
L’opposizione tra l’atemporalità dei processi psichici inconsci e la temporalità lineare degli eventi della vita di cui si ha coscienza e memoria storica. La costituzione pluritemporale dell’apparato psichico descritta in Disagio nella civiltà attraverso la metafora della pluristratificazione dei periodi storici nella struttura architettonica/urbanistica della città di Roma. I due tempi del trauma: la sua iscrizione psichica a posteriori. Il tempo del lutto: il distacco graduale, pezzo per pezzo, dall’oggetto perduto.
Sono queste le prospettive principali sul tempo che Freud delinea nel suo lavoro teorico. Hanno, nel loro insieme, un riflesso importante nel nostro lavoro clinico. Mi concentrerò su due punti:
Il tempo che non passa degli inizi, il fluire puro dell’esperienza, è diverso dal tempo della sospensione del vissuto nel punto critico del trauma. Il primo corrisponde al tempo che i Greci chiamavano aiòn: è il tempo dell’eternità, del gesto spontaneo che permane, resta aperto oltre ogni finalità, oltre ogni compimento. Il secondo è un tempo fermo, immobile. Nella relazione analitica, come nella vita, si può percepire una dimensione atemporale – l’eternità di ogni momento dell’esperienza vissuta che non mette in gioco la memoria o l’attesa o la previsione – in cui le sensazioni, le emozioni e i pensieri si dispiegano in un presente continuo senza passato e senza futuro. È da questo fondo atemporale, aionio, della relazione che sorgono le libere associazioni e l’attenzione fluttuante. Quando, invece, il fluire senza tempo dei vissuti si ferma e si ricorre, per uscire dall’ immobilità e dalla noia, alla memoria e all’aspettativa (di una via d’uscita) si percepisce indirettamente la presenza del trauma.
Nella relazione analitica sono in gioco modalità di vivere e di rappresentare l’esperienza più che eventi singoli che concatenati in una successione temporale determinano un destino. Queste modalità corrispondono alle diverse fasi evolutive della nostra vita nella cui successione quella di dopo non ritrascrive, in realtà, quella di prima, sostituendola, ma la sovradetermina nella sua funzione e la mantiene viva. Nella direzione opposta, la fase di prima interroga costantemente quella di dopo, la obbliga a tenerne conto. Nel luogo psichico del trauma la sospensione temporale è anche sospensione della storia: si fermano sia il tempo sincronico dell’eternità sia il tempo diacronico lineare. Nella sua forma più precoce e grave, che realizza una preclusione della soggettività, il trauma è un buco nel tempo. Winnicott ha avuto un’intuizione folgorante quando disse che il crollo non è stato esperito perché, mentre accadeva, il soggetto non era lì per esperirlo, è vissuto come minaccia che viene dal futuro.
Viviamo contemporaneamente in due dimensioni temporali: il tempo dell’eternità, aiòn, e il tempo storico, il tempo degli eventi, chrònos. Fa da cerniera tra queste due dimensioni il tempo della transizione, della sospensione del giudizio, epoché. Come dice Winnicott a proposito dell’oggetto transizionale su di esso non si pone mai la domanda: c’era già o l’ha creato il bambino come cosa nuova? L’epoché è la cessazione del conflitto tra tempo interiore – legato ai processi inconsci – e tempo della vita esteriore – della rappresentazione preconscia/conscia della realtà -, la convivenza senza tensioni aiòn e chrònos. Il tempo della transizione è il tempo del lutto che mette insieme il tempo eterno dove l’oggetto perduto continua a esistere e il tempo lineare, storico, in cui la perdita è riconosciuta.
La differenza e il tempo tragico
Il tempo tragico, tempo di elaborazione del dolore, della catarsi nella tragedia antica, nasce nel momento opportuno, kairòs, in cui il chrònos, tempo della differenza, colpisce il tempo continuo, aiònios, facendo uscire il soggetto dal fluire senza discontinuità della sua esperienza. La freccia della differenza colpisce il tempo della continuità introducendo il passato (ciò che è stato e non è più), il presente (ciò che persiste, insiste, patisce: il desiderio) e futuro (ciò che sarà). Tra il tempo della continuità e il tempo della discontinuità dell’esperienza fa da cerniera il tempo tragico della sospensione del giudizio (epoché) che si configura come un al tempo stesso: tiene insieme il tempo della simultaneità, il tempo che scorre ma non passa e il tempo sequenziale, il tempo di un prima, un’ora, un dopo.
La differenza mantiene vive le nostre relazioni: le amplia, le arricchisce ed evita l’assuefazione del desiderio. Colpisce nel tempo opportuno se arriva nel momento in cui esse sono sufficientemente consolidate per reggere il colpo, ma anche aperte al loro rinnovamento, prima che diventino consuetudine e ripetizione. È foriera di conflitto e di incertezza, non è mai indolore perché induce un forte senso di mancanza. Della differenza dobbiamo accettare il rischio, senza il quale non nasce la speranza e il tempo della sospensione del giudizio si perverte in tempo della consolazione, dilazione del presente.
La differenza nostra e quella degli altri è inseparabile dal desiderio, si co-costituisce con esso. È strettamente legata al tempo storico, senza il quale non si può cogliere pienamente e dentro il quale si manifesta più distintamente: la differenza tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, diventa più evidente nel nostro rapporto con chi ci precede e chi ci succede, negli sfasamenti temporali dei nostri desideri e delle nostre scelte con i nostri pari generazione. Tuttavia, la differenza non è appannaggio esclusivo del tempo storico, nel cui spazio è pienamente riconosciuta. Essa è ugualmente presente, come forza motrice del desiderio, nel campo del fluire continuo dell’esperienza, dove è esperita anche se non è concepita e riconosciuta. Presente sia nel campo della dimensione sincronica sia in quello della dimensione diacronica dell’esistenza, la differenza si sviluppa nel modo suo più proprio – l’estensione infinita delle sue variazioni e delle possibilità della loro intesa – nel tempo della transizione permanente e tra una dimensione e l’altra: il tempo tragico, tempo della trasformazione che elabora il conflitto e il lutto che esso implica.
Nel tempo tragico, in cui la differenza è e, al tempo stesso, non è riconosciuta (il giudizio è sospeso, l’esperienza no), il presente non transita direttamente nel futuro. Se così fosse il futuro sarebbe un salto nel buio. Si allea con il “futuro anteriore”, tempo della predizione e, al tempo stesso, della sua incertezza. Qui la differenza dispiegandosi sospende l’effettività dell’azione e crea uno spazio di elaborazione sperimentale, potenziale dell’esperienza dove le cose si rappresentano per come “potrebbero accadere”. Questa è la particolarità della poesia tragica che la distingue, secondo Aristotele, dalla storia che descrive le cose come effettivamente sono accadute:
“l’opera del poeta non consiste nel riferire i fatti [più precisamente γενόμενα: fatti nel loro reale accadere, fatti accaduti] bensì fatti che possono avvenire [più precisamente οια αν γένοιτο: i fatti come potrebbero o sarebbero potuti accadere] e fatti che sono possibili, nell’ambito del verosimile e del necessario. […] lo storico espone gli eventi reali.”[1]
La tragedia e μίμησις πράξεως, imitazione d’azione. L’imitazione dell’azione in scena nella tragedia non è la riproduzione di qualcosa già accaduto. Non è neppure la configurazione di un fatto che è possibile che accada. È la presentazione di un fatto/azione che può accadere – è accaduto, accade e accadrà -, nella sua potenzialità che non significa un fatto possibile, ma un fatto nel come potrebbe accadere. È l’azione sospesa nella sua effettività, concretezza, meccanicità. Nella sua effettività l’azione è predefinita secondo schemi universali impersonali. È il particolare nel suo anonimato. La singolarità del caso. Nella sua potenzialità l’azione è sperimentale. Non si chiude nel suo esito, esplora le diverse possibilità, si nutre delle contraddizioni, prende forma restando aperta. È espressione della soggettività: in particolare nel suo incontro con l’universale, lo spazio delle differenze desideranti. Qui l’azione acquista “senso” nei due modi di intenderlo: direzione (che non è meta) e significato.
L’azione nella sua potenzialità, sperimentalità, non precede l’azione nella sua effettività (che così diventerebbe azione meditata) né la segue (per correggere i suoi errori). To πάθει μάθος, il patire che è conoscenza, non è un sapere che nasce dopo un’esperienza di sofferenza, non è trarre un insegnamento a posteriori (a ragion veduta). È sapere nell’accadere stesso dell’esperienza patita, provata, esperita, ma non subita. È lo svolgersi sperimentale, dell’azione, nel suo contemporaneo accadere.
È importante distinguere tra “simultaneamente” e “al tempo stesso”. Il primo termine denota una contemporaneità generica che mette insieme due o più fatti confluenti, collidenti o indifferenti. Esempio: “l’arrivo della pioggia fu simultaneo all’entrata di Giovanni in casa”. Il secondo denota di più una contraddizione che impegna due prospettive opposte o tendenzialmente tali. Esempio: “si sentiva, al tempo stesso, triste e felice”.
La contemporaneità della potenzialità dell’azione e del suo effettivo accadere è di questo tipo. Ogni azione significativa, soggettivata e soggettivante, è sperimentale, esplorativa, insatura e, al tempo stesso, effettiva, definita nel suo effetto. La potenzialità dell’azione rimanda allo spazio onirico (suo luogo privilegiato) e al gesto espressivo: il movimento impresso dal desiderio nella materia psicocorporea che estroverte la soggettività. Questo movimento è un’apertura dolorosa, ma piena di aspettative al mondo nel punto in cui la differenza riconosciuta (χρόνος) dell’oggetto desiderato (in principio la madre) crea una frattura nell’aiòn, la continuità, il fluire spontaneo dell’esperienza. Questa frattura è riparata dalla sospensione del giudizio (la differenza è, al tempo stesso, riconosciuta e non riconosciuta). Il gesto espressivo, strumento di comunicazione che impegna il soggetto nella sua relazione con l’altro, nel suo diventare azione che ha un obiettivo, uno scopo, sospende la realizzazione dello scopo per espandersi in uno spazio virtuale come movimento che non ha ancora forma. È tensione psicocorporea protesa verso una direzione, ha attraversato una soglia di indeterminatezza, di esistenza fluida, sospesa nella sua intenzionalità (non congelata né rinviata, ma in equilibrio tra permanenza e trasformazione) per andare da qualche parte. Nel diventare azione il gesto espande le sue ramificazioni, innerva il movimento psicocorporeo restando aperto, insaturo, pronto a cambiare prospettiva, impedire che l’azione si chiuda in sé stessa.
Tempo della trasformazione e del lutto
Se vivessimo solo nel tempo della simultaneità non potremmo avere esperienza del mondo, se vivessimo solo nel tempo sequenziale l’esperienza ci trasformerebbe in esseri meccanici, ingranaggi di un orologio, ne saremmo alienati. Nel punto in cui le due dimensioni temporali, il tempo della simultaneità e quello sequenziale (la cosiddetta freccia del tempo che, lasciata a sé, tira dritto verso la morte) coesistono senza tensione, viviamo nel tempo di Agostino: passato presente, presente presente, futuro presente. Ciò ci consente di riconoscere il tempo esterno, il tempo degli eventi reali, misurarlo senza però essere misurati da esso.
Dove i due tempi entrano, nel momento opportuno, in tensione perché la differenza produce un conflitto, il tempo tragico, tempo dell’esperienza potenziale, entra in gioco. È il tempo del futuro anteriore (come andrà a finire: predizione e incertezza) nella forma di memoria del futuro: presentire, immaginare, intuire ciò che accadrà, configurandolo come potrebbe accadere. Sotto l’effetto di kairòs, la freccia della differenza ficcata nel cuore della nostra esistenza, il tempo tragico articola tra di loro il continuo con il discontinuo in un processo di trasformazione.
Nell’opera tragica la concatenazione degli eventi infausti, che sulla scena porta puntualmente alla catastrofe (la sconfitta annunciata del desiderio condannato alla ripetizione perpetua del suo fallimento), è disattivata nella psiche degli spettatori dallo sviluppo laterale dell’azione che sospende la sua effettività collegandola ad altri esiti possibili, altre implicazioni. Così anche nella relazione analitica la coazione a ripetere è disattivata dallo sviluppo onirico (nei sogni, nell’atmosfera della seduta creata dall’attenzione fluttuante e dalle associazioni libere, nel transfert e controtransfert) che amplia lateralmente in senso esplorativo, sperimentale, il campo dell’esperienza.
La trasformazione non è un cambiamento lineare di stato come accade nella conversione di un materiale in un manufatto. O come accade, per fare riferimento alla cura, quando un paziente non presenta più un sintomo, trova un lavoro e non è più disoccupato o inizia una relazione sentimentale per la prima volta. In altre parole, la trasformazione non è definita dal risultato finale dell’azione che la causa e non è neppure il risultato di una sola azione (o di un insieme di azioni omogenee orientate a un obiettivo definito). È piuttosto il risultato di un insieme di azioni che si connettono tra di loro attraverso l’espansione laterale dei loro effetti e delle loro derivazioni che amplia le sensazioni, le emozioni e i significati che le promuovono e vengono a loro volta promosse da esse. Così che ciò che accade non è mai definitivamente accaduto e il gesto espressivo che lo sottende, prendendo forma compiuta, resta al tempo stesso incompiuto, aperto ad altre evoluzioni.
Motore della trasformazione è il lutto, la perdita del legame con l’altro, che, necessariamente e periodicamente, la differenza e il movimento del desiderio a essa legato producono spinti dall’esigenza di persistere. Il lavoro del lutto è la ricontrattazione dell’intesa con l’oggetto desiderato che deve mettere insieme il privilegio accordato e determinate qualità della relazione (che fondano l’attrazione e l’interesse) e la loro costante reinterpretazione, la continuità (fedeltà) e la discontinuità (libertà) dell’investimento, l’atteso e l’inatteso.
Il lavoro del lutto è la componente centrale del lavoro analitico che deve promuovere la capacità dell’analizzando di vivere nello spazio potenziale, sperimentale dell’esperienza – in cui l’azione non muore con il suo risultato – e in un tempo inattuale in cui ciò che è accaduto non smette di accadere e ciò che accade è sempre legato a un senso di mancanza perché resta incompiuto, insaturo. Il desiderio per la vita, che nasce dal senso di mancanza, anticipa nel tempo presente, spingendosi avanti come presentimento, il germogliare di ciò che verrà.
La trasformazione non è la produzione di un oggetto compiuto per un uso pratico o culturale (un oggetto di godimento sublimato). L’uso e godimento dell’oggetto (e anche il godimento della sua produzione) acquistano significato e valore vero solo con il loro sviluppo laterale che toglie l’oggetto da un destino lineare di consumo puro che lo designifica. Lo sviluppo laterale trasforma la materia psicocorporea della soggettività e la trama delle sue relazioni rendendo vera, autentica la sua esperienza. Lo sviluppo non lineare dell’esperienza che la espande oltre i suoi confini spaziotemporali – la fa uscire dalla sua concretezza, rendendo l’elaborazione del lutto possibile – deve mantenere in vita due forme di persistenza: la persistenza delle qualità fondanti, essenziali del soggetto, dell’oggetto e della loro relazione attraverso la trasformazione e la persistenza della trasformazione stessa.
Il tempo della relazione analitica, il tempo del processo trasformativo di elaborazione del lutto che prende forma nello spazio potenziale, è un tempo inattuale che mette insieme il prima e il dopo: ciò che è accaduto continua ad accadere e ciò che accadrà già sta accadendo. Nell’esperienza del presente convivono ciò che del passato resta aperto ad altre evoluzioni, guardando le cose come se le vedesse per la prima volta, è ciò che del futuro, già abbozzato, cerca una sponda nel presente, interrogandolo. Il modello del lavoro analitico ha molto in comune con il dispositivo della tragedia greca. Entrambe affrontano il problema degli errori preterintenzionali del passato (amartìa) il cui effetto negativo, superato un limite (hubris), diventa irreversibile. La tragedia mette sulla scena una paradigmatica catastrofe esistenziale, culturale e politica di un singolo individuo e della collettività; la psicoanalisi mette sulla scena l’effetto di una catastrofe della soggettività evitata a un prezzo molto alto (la compressione traumatica della psiche) che porta il desiderio al suo costante fallimento (la coazione a ripetere). Sia la psicoanalisi sia la tragedia disattivano il tempo lineare che rende definitivo l’accadere, impossibile il lutto e irrecuperabile la perdita. Rifiutando il doppio inganno “non si può tornare indietro e non si può andare avanti”, spostano l’esperienza nel suo campo potenziale, laterale e nel suo tempo inattuale dove ciò che accade non accade mai una volta per sempre e dove ogni accadimento è davvero significativo solo attraverso le connessioni e le correlazioni con altri accadimenti del passato, del presente e del futuro in cui non è di per sé insostituibile.
Il tempo della psicoanalisi, il tempo tragico, il tempo inattuale rimanda a una temporalità isterica: ciò che è accaduto al tempo stesso non è accaduto ancora, ciò che accade ora al tempo stesso sta per accadere, accadrà e non accadrà.
Bibliografia
Aristotele. Dell’arte poetica. 9, I.
Freud S. (1929). Disagio nella civiltà. O.S.F., V.
Winnicott D.W. (1964). Paura del breakdown. In: Esplorazioni psicoanalitiche. Cortina Editore, Milano.
—
[1] Dell’arte poetica 9,I.
*Per citare questo articolo:
Thanopulos S. (2024). Il tempo inattuale della psicoanalisi, KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 78-88.
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