L’attesa: legamenti sbarrati e coazione a ripetere

di Marco La Scala

(Padova), Membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana.

*Per citare questo articolo:

La Scala M. (2024). L’attesa: legamenti sbarrati e coazione a ripetere, KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 38-51.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

”Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa” (Agostino 400 d.C, Confessioni).

 

“Per gli antichi greci c’erano almeno tre modi di indicare il tempo: Aiòn  kronos e kairòs. Aiòn rappresenta l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; Kronos indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore; kairòs indica il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, ma anche quello che si potrebbe definire come ‘tempo debito’” (F. Munari, 2009).

                                                                                                                                                         

Per Freud la nozione di tempo appartiene al sistema Percezione-Coscienza ma la gran parte dell’apparato psichico è inconscia e nell’inconscio il tempo non esiste, d’altra parte “la potenza delle pulsioni non sarebbe tale se ci fosse la morte nell’inconscio”, dunque “il rapporto che lega il conscio e il tempo assume una portata del tutto relativa rispetto a ciò che unisce l’inconscio e l’atemporalità” (Green 2001, 77). In base alla clinica di oggi e alle considerazioni che nascono dallo studio degli stati limite dobbiamo considerare che non solo l’inconscio ma anche il conscio sembra ignorare in buona parte la temporalità, infatti molti di questi pazienti vivono in un tempo sospeso, il tempo dell’attuale per ricordare come Freud nel 1894 ha definito le nevrosi “attuali” per lui allora forme “senza meccanismo psichico”, senza nevrosi infantile diremmo noi oggi, senza il lavoro della temporalità psichica che collega presente e passato (nachtraglichkeit) o in altre parole forse più in uso, senza quel lavoro psichico che si compie nell’après-coup dove le esperienze di un tempo successivo allora irrapresentabili riaprono a un’elaborazione connessa con le esperienze di un tempo precedente.

Freud ha fatto rientrare la temporalità con un ruolo centrale nella sua teoria in Al di là del principio del piacere in cui riconosce l’importanza della coazione a ripetere come impossibilità al cambiamento in seno alla ripetizione stessa, con le caratteristiche però di un atto auto-organizzato e quasi automatico e che sfugge anche al principio del piacere. La ripetizione è alla base dell’organizzazione psichica, ne è un esempio il gioco del piccolo Hans nell’ alternanza di scomparsa, attesa, e ritorno dell’oggetto, vi è infatti tutta una interazione processuale tra il tempo del soggetto (infans) e il tempo dell’oggetto. È proprio l’oggetto con la sua temporalità e la sua ritmicità, le sue scansioni temporali di presenza assenza che porta l’infans a riconoscerlo sul piano rappresentativo e a permettere che l’agire pulsionale che mira alla scarica, apra degli spiragli attraverso l’esperienza del soddisfacimento con l’oggetto sulla via rappresentativa che rende più complesso il funzionamento secondario dell’infans verso l’oggettivazione e la temporalizzazione, l’oggettualizzazione. La ripetizione che non tiene conto del passato, del prima, si configura come un’attualizzazione continua, come un fenomeno sempre nuovo, ma in realtà sempre lo stesso. Green ha definito questo procedimento come rimemorizzazione amnesica fuori dal campo delle memorie consce e inconsce (Green, 2001, 106), sostanzialmente quello che Freud chiama riproduzione differenziandola dalla rimemorazione. Quello che ci interessa nella clinica psicoanalitica a proposito del tempo scandito dalla ripetizione è l’instaurarsi del transfert, o come ripetizione di un passato le cui tracce mnestiche possano attivarsi nel presente oppure come riproposizione di un attuale sempre identico, anche sotto le apparenti spoglie di “altro”, per mancanza di un legamento che produca un’inscrizione psichica idonea a trasformare elementi quantitativi, quali sono ad esempio anche gli affetti, in qualitativi, cioè elementi dotati di una raffigurazione se non di una rappresentazione.

 

Freud, che ha concettualizzato importanti e fondamentali paradigmi sulla temporalità psichica, sulla circolarità del tempo la Nachträglichkeit come mai però considerava il lavoro della temporalità come consequenziale rispetto agli elementi posti a base della Metapsicologia dal punto di vista strutturale, cioè quello topico, quello dinamico e quello economico? Possiamo pensare che il lavoro sulla temporalità gli sia parso secondario ad esempio rispetto agli sbarramenti topici, cioè spaziali che la temporalità incontrava? 

 

E noi possiamo considerare primari i nessi temporali, cioè in grado di oltrepassare i blocchi posti dalla topica, cioè le dis-connessioni spaziali, siano essi rimozioni o scissioni? Non è facile riflettere sui rapporti tra spazio e tempo, questione come ben sapete complessa anche in altre discipline a partire dalla fisica e dalla filosofia.

 

Non mi inoltro in questo ambito che sarebbe troppo vasto e fuorviante, ma è proprio su questo che intendo portare alcune riflessioni cercando di mostrare come riducendo le barriere tra spazi diversi dell’apparato psichico, nel senso delle raffigurazioni che noi ci diamo, sia secondariamente possibile aprire all’integrazione della temporalità.

 

I diversi elementi che per Green dovremo prendere in considerazione per la creazione di un modello diacronico della temporalità sono molteplici. Prima di tutto l’atemporalità dell’inconscio; l’opposizione tra percezione e memoria e il loro collegamento, l’una al sistema cosciente l’altra al sistema inconscio, opposizione già presente nel Progetto dove Freud distingue due tipi di neuroni quelli che registrano il presente e quelli che ricordano l’esperienza del passato; lo viluppo della libido che incorre in regressioni e fissazioni che portano indietro nel tempo o fermano il tempo dello sviluppo; con la seconda topica la coazione a ripetere di ciò che non evolve nel tempo e ripropone “lo stesso” in tentativi più o meno falliti di procedere oltre verso la significazione;

                                                                                                                                                   

La topica

Se tempi diversi non entrano in contatto è perché appartengono a spazi psichici che rimangono segregati da barriere psichiche sia fisiologiche, come è il caso delle topiche, ma anche patologiche, spazi resi non comunicanti, impermeabili gli uni agli altri per l’azione del controinvestimento che in sé ha una funzione paraeccitatoria.

Quindi incomincio con alcune osservazioni sulla geografia psichica, la topica che riguarda gli ostacoli alla comunicazione tra il prima e il dopo.

Il grande interesse che ha suscitato la topica credo derivi anche dall’importanza di considerare oltre agli oggetti, anche lo spazio in cui essi si collocano e questo ci permette di procedere nella comprensione metapsicologica. Possiamo pensare a esperienze nel tempo che poi l’apparato psichico ha il potere di segregare, isolare, non far evolvere nei loro rapporti tra il dopo e il prima o viceversa.

Green nel suo descrivere l’apparato psichico oltre che le zone di transizione tra inconscio preconscio e conscio, ha voluto sottolineare la zona di transizione tra l’insieme di queste aree e la realtà esterna e da qui è nata la sua costruzione teorica di quello che ha definito doppio limite: “fra il dentro e il fuori, da una parte, e fra le due parti separate che dividono il dentro (limite dei sistemi Conscio-Preconscio e Inconscio) dall’altra. È così che potrebbero essere riunificati i due grandi settori della psicopatologia: psicosi e nevrosi, con tutto lo spazio attribuito alle strutture che non sono né nevrotiche né psicotiche” (Green, 1090) si tratta in definitiva di valorizzare l’intersoggettività e il ruolo dell’oggetto non inteso solo come oggetto interno.

È chiaro lo sforzo di aggiornare la psicoanalisi teorica rispetto alle nuove frontiere della psicoanalisi clinica, ormai alle prese con le patologie non nevrotiche e con la psicoanalisi dei bambini. Egli contemporaneamente apre la psicoanalisi francese al pensiero di Winnicott e al valore dell’oggetto reale e da questa integrazione sviluppa nuovi paradigmi per gli stati limite e in genere per le forme cliniche che non mostrano all’opera un inconscio rimosso.

È innegabile che il suo pensiero, anche là dove non ne fa riferimenti precisi, sia integrativo rispetto ad altri psicoanalisti che contemporaneamente a lui in quegli anni rileggevano il testo freudiano cercando delle aperture per nuovi costrutti teorici riguardanti la topica. Fra questi credo sia stato molto importante il contributo di Anzieu che pure sulla topica e sulle metafore spaziali ha lavorato molto, basti pensare al concetto di Io-pelle (1985) e al grande sviluppo che ha avuto poi la formulazione di involucro psichico. Si tratta di prendere in considerazione la teoria degli spazi psichici, il contenitore oltre che il contenuto e i rapporti tra contenitore e contenuto, tema che ha trovato un terreno fertile anche nel pensiero di Bion. L’Io con la seconda topica è stato definito da Freud un essere di frontiera tra l’interno e l’esterno e questo mette in primo piano la costruzione della frontiera interno/esterno come l’essenza stessa dell‘Io che riceve impulsi sia dall’Es che dal mondo esterno e diviene dunque un laboratorio specializzato di transiti e necessariamente trasformazioni, passaggi di registro, che siano compatibili con la sua stessa natura ed esistenza. Laddove i transiti sono quantitativamente traumatici per lo stesso Io, vediamo l’erigersi di difese atte a non compromettere la struttura stessa dell’Io per il rischio di un suo eventuale collasso (l’attacco di panico, la derealizzazione) che qui possiamo intendere come l’esito del venire meno della sua stessa funzione di limite.

 

Il sistema Percezione Coscienza posto nell’ovoide alla periferia, nel limite dentro fuori, e che costituisce la superficie (percipiente) dell’apparato psichico diviene un punto di passaggio obbligatorio sia per le percezioni esterne che per quelle interne come gli affetti in cerca di rappresentazione. Il “quid” interno che possiamo pensare anche sotto forma dell’affetto, o con Racalbuto come affetti-sensazione ancorati al corpo, è soggetto a coazione ma la via verso il preconscio, come scrive Freud per la melanconia, può essere sbarrata (Freud 1915). Egli precisa anche che “le sensazioni con carattere di piacere non presentano in sé stesse nulla di propulsivo, mentre le sensazioni di dispiacere presentano questo elemento propulsivo in grado elevatissimo” (Freud, 1922, 485) e tendono dunque a ripetersi.

 

E questo ci mostra l’intima correlazione tra il quantitativo e il qualitativo che la topica esprime, sia come elemento che blocca, o elemento che permette il legamento che a sua volta è l’elemento principe che spinge al qualitativo cioè a trovare una forma che sia raffigurativa come nel sogno o rappresentativa.

Il legamento, che apre la via al passaggio trasformativo di registro, in Al di là del principio di piacere emerge in tutta la sua importanza rispetto al principio di piacere è descritto come “tendenza più originaria del principio del piacere e da esso indipendente” (Freud, 1920, 203) “un atto preparatorio che introduce e assicura il dominio del principio del piacere” (Freud, 1920, 247) ma che è anche implicato per un suo blocco nella ripetizione delle esperienze relative al dolore e anche rispetto ai sogni nella nevrosi traumatica.

 

La parola o l’azione toccante della parola in analisi deve raggiungere le lontane tracce mestiche che sono rimaste bloccate, relative a un percepito non lavorato dal legamento, né attivate dall’allucinatorio che possa trasformarle. Queste sono rimaste isolate, condannate a ricercare, attraverso l’identità di percezione e la ripetizione dell’identico, un legamento che non si realizza e dove di conseguenza il principio di piacere non garantisce la scarica attraverso il soddisfacimento e il ripristino di un livello basso di energia a protezione dell’apparato psichico.

 

Ma gli spazi non comunicanti bloccano anche i tempi dell’esperienza in cui si sono generati e la temporalità complessa dell’apparato psichico viene congelata, il lavoro dell’après-coup bloccato, il tempo diviene allora sospeso come negli stati limite o peggio ancora diviene un tempo morto come nella melanconia in cui insieme all’oggetto viene disinvestito anche lo stato di attesa di esso (Green, 2006, 150).

 

 

Il tempo nella clinica

Il caso di Gabriella la paziente dei due crolli da me pubblicato in Spazi e limiti psichici (2012) è un buon esempio clinico perspicuo di tempo sospeso e su questo caso emblematico vorrei sviluppare ulteriori considerazioni rispetto al tempo.

Gabriella a sei mesi, per una malattia infettiva della madre, viene allontanata da lei e accudita da una nonna inadeguata e caratteropatica, in più vi era un trasloco della famiglia in un’altra casa, per cui ritorna dalla madre mesi dopo e in un ambiente completamente diverso. Venticinque anni dopo Gabriella mi consulta perché soffre da anni di agorafobia con crisi di panico, si disorienta quando è fuori casa, ha un’insicurezza motoria per cui barcolla, lei dice sbarella, è disprassica e impacciata. Io noto che facendo le scale sbatte forte i piedi su ogni scalino.  L’après coup inaugura il primo crollo della paziente che avviene fuori metafora per una caduta dalle scale nel mio studio che finisce con Gabriella a terra, aggrappata alle mie gambe e con un lamento espresso da una voce da bambina piccolissima. Questa bimba entra nella scena dell’analisi e avvia una serie direi infinita di après-coup. Ma l’esperienza traumatica di Gabriella è troppo lontana nel tempo/dal tempo e appartiene a un prima del linguaggio per cui l’analisi si spinge verso le conseguenze del trauma che riguardano la organizzazione psichica dal punto di vista spaziale, l’alterazione del suo Io in quanto essere di frontiera tra dentro e il fuori e i relativi passaggi dal registro corporeo a quello della rappresentazione. Il primo aspetto quello spaziale la spinge a rappresentarsi il proprio confine da un confine comune e confuso e nell’après-coup ritorna il ricordo di una madre che aveva subito un’ustione al petto e che non sopportava di essere toccata da lei o che lei volesse essere stretta tra le sue braccia. Con l’elaborazione possibile di questo materiale si riduce nel tempo la disprassia della paziente e l’investimento dell’Io pelle individuale si rafforza, così come lo spazio che separa e riunisce. Quando supera il suo aderire a un’identità di percezione e raggiunge un buon livello di simbolizzazione Gabriella mi dirà che mentre prima, in passato, si sentiva sempre vuota e pesante ora invece si sente piena e leggera. Ma, nonostante il notevole lavoro che negli anni la paziente porta avanti, ancora non è in grado di uscire da sola. Sempre, più di altri pazienti, gli agorafobici ripetono, si ripetono, eppure in ogni loro ripetizione e “ripetizione della ripetizione” viene apportata una variante che fa pensare: questa volta ci siamo! La mia impressione però verso il nono anno di analisi era di un gran movimento sul piano fantasmatico che deludeva le aspettative mie e della paziente perché nella sostanza non si modificava del tutto quella matrice connessa al diniego dell’assenza da cui emanava la sofferenza di fondo di Gabriella, quella che la lasciava ancora molto incerta nel muoversi da sola senza la madre e che mi ricordava il limite dell’analizzabilità di cui Freud ci ha parlato nella nevrosi d’angoscia anche a proposito dell’agorafobia.

In questo caso non vi è stata soltanto ripetizione dello stesso, ma si è aperta una breccia per un’esperienza “psichica” diversa e nuova: “ciò che si è depositato, scolpito, improntato all’epoca dell’infanzia, un’altro incontro interpsichico, quello del transfert, può riaprirlo e non semplicemente ripeterlo” (cit).

Proprio quando io inizio a considerare e ad accettare i limiti del lavoro analitico con lei e penso ad una possibile fine, quando assumo anche una funzione temporalmente limitante rispetto all’illimitato dell’agorafobia e le propongo di incominciare a pensare l’analisi come a termine, Gabriella mi annuncia di volersi separare dalla madre a tutti i costi “anche a costo di impazzire”.

Si è realizzato, con la mia verbalizzazione sulla fine del tempo dell’analisi, quello che André, riprendendo Freud, definisce “primo tempo del trauma”. Qui inizia quanto la porterà al secondo crollo, quello ben più drammatico, caratterizzato dal fatto che Gabriella ha iniziato nel transfert a rinunciare all’onnipotenza materna, e non solo nel transfert diretto ma anche, con un’angoscia sempre crescente, nella relazione reale con la madre. Rinuncia all’onnipotenza magica dell’essere esclusivamente nell’orbita di un “Sé totale” (Gaddini, 1976-78), dovendo però sperimentare la possibilità di continuare a esistere nel tempo con un proprio Io al di fuori della presenza concreta e onnipotente della madre e si avvicina con paura a considerare che possa esistere un tempo per il distacco, un tempo di attesa e un tempo per riunirsi.

Gabriella ripropone quanto affermato da Winnicott: “l’esperienza originale di agonia primitiva non può essere collocata nel passato finché l’Io non riesca ad inserirla oggi nella sua esperienza presente…”; “possiamo ritenere che sia il paziente che l’analista davvero desiderino finire l’analisi, ma ahimè, qui non c’è fine a meno che non si raggiunga il fondo del barile, a meno che la cosa temuta non venga sperimentata. […] L’unico modo di ricordare per il paziente, è sperimentare per la prima volta nel presente – cioè nel transfert – l’evento passato. La cosa passata e futura allora, diventa un fatto dell’hic et nunc, e viene sperimentata dal paziente per la prima volta” (Winnicott, 1963).

Era mia impressione che l’analisi, dopo tanti anni di fruttuosi legamenti e risignificazioni, si trovasse di fronte all’ ”inedito” dell’esperienza.

Gabriella infatti si è scompensata e le è stato necessario rivolgersi al pronto soccorso più volte. Ha sviluppato un’attrazione per quel posto dove accettava di essere messa in barella. Lei tutte le volte che all’aperto veniva colta dai sintomi di svenimento e barcollamento mi diceva di sentirsi appunto “sbarellata”. Lì ha accettato anche gli psicofarmaci, come alternativa alle cure e alle tisane materne, quei farmaci che per lei costituivano un elemento fortemente fobico in quanto non-mamma. Ma lì c’era qualcuno, qualcun altro oltre la madre nel transfert lateralizzato, che lei riconosceva come referente esterno capace di tutelarla. Poi è stato necessario il ricovero per l’insorgere di stati angosciosi eccitati e confusivi in cui era proprio il tempo, il tempo dell’attesa per ricongiungersi, che non poteva esistere perché troppo angoscioso. Mi tempestava infatti di telefonate tra una seduta e l’altra, anche a distanza di minuti, cosa che non aveva mai fatto prima. Un ricovero al decimo anno di analisi era anche per me un’esperienza inedita! Non c’è fondo al barile nel nostro mestiere! Finalmente in quel luogo di ricovero in seguito anche ad un accordo con i medici è stata fisicamente separata dalla madre, la quale poteva vederla solo per una breve visita ogni giorno e soprattutto non poteva stazionare nel parcheggio della casa di cura come faceva quando la accompagnava alle sedute d’analisi.

Gabriella ha vissuto questa esperienza con la sensazione di continuare a lavorare per l’analisi anche nel periodo dell’assenza delle sedute. “È perché c’è l’analisi che tutto questo ha un senso”. E a proposito del transfert: “sento che lei c’è e posso resistere”. Nel tempo l’oggetto mantiene la sua persistenza e viene salvato dalla coazione ripetitiva che si configurava come una ricerca ma senza esito se non il sintomo. Si è così aperta la strada al superamento del diniego della mancanza, alla permanenza di un oggetto sentito come interno e dotato di costanza, indipendente quindi dalla sua collocazione spaziale, che ha aperto la strada alla terminabilità dell’analisi, e all’effettiva conclusione tre anni dopo.

Quest’ultimo episodio così significativo per il lavoro analitico e per una sua felice conclusione, potremmo dire, essere avvenuto anche correndo il rischio di una sterile “riproduzione” (Freud, 1920) per difetto dell’inscrizione di tracce mnestiche idonee alla rimemorazione: “la riproduzione esprime la tendenza a rifare lo stesso sotto le apparenze dell’ altro, a rivivere in quanto tale ciò che si ripete in mancanza di un’iscrizione adatta a diventare l’oggetto di un lavoro” (Green, 2000) e spinge all’attualizzazione sotto il puro dominio della coazione a ripetere dell’identico.

In questo caso non vi è stata pura ripetizione dello stesso ma si è aperta una breccia per un’esperienza “psichica” diversa e nuova: “ciò che si è depositato, scolpito, improntato all’epoca dell’infanzia, un altro incontro interpsichico, quello del transfert, ha potuto riaprirlo e non semplicemente ripeterlo” (André, 2008). Possiamo allora intendere con Conrotto l’effetto di posteriorità come il prodotto di una neoformazione generata dall’attivazione di legami associativi tra esperienza presente e tracce mnestiche di un passato rimasto inattivo dove non si ripete il trauma ma si crea un nuovo legamento con l’oggetto grazie a una diversa trascrizione.

Qui sembra che il limite temporale permetta di riconfigurare ulteriormente la spazialità nella relazione analitica e quindi da un certo punto in poi sembra divenire prevalente l’apertura al tempo rispetto allo spazio che già era stato sufficientemente elaborato nel corso dell’analisi.

Concludo con un riferimento ai tre modi di intendere il tempo nell’antica Grecia annunciati nell’exergo: aiòn, kronos e kairòs.

Il processo analitico del caso clinico mi pare che abbia messo sulla scena nei primi anni l’eternità, l’immoto, l’inesauribile di Aiòn. La madre come unica fonte di vita.

Kronos vi è rappresentato con la sua violenza in quanto è lui nel mito che con un falcetto datogli dalla madre Gaia (la terra) evira il padre Urano (il cielo) staccandolo dalla madre e creando così lo spazio tra la terra e il cielo per far esistere i Titani progenitori degli umani. Una defusione, un distacco, una castrazione che permette la vita, il suo andare al pronto soccorso prima e in ricovero poi, staccandosi dalla madre.

Ovviamente Kairòs, il tempo opportuno in cui si uniscono l’azione e tempo, il “tempo propizio”, ma anche per i greci la “giusta misura” e l’”efficacia”, è finalmente entrato anch’esso nella scena dell’analisi.  [1]

 

Bibliografia

 

Agostino (400 d. C.). Le confessioni. A cura di C. Carena C., Einaudi, Torino, 1984.

André J. (2008). L’événement dans la cure. 69ème CPLF, Paris 21-24 mai 2009.

Anzieu D. (1985). L’Io- pelle. Edizioni Borla, Roma 1987.

Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale, O.S.F., 4.

Freud S. (1915) Lutto e melanconia, O.S.F.,

Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. O.S.F., 9.

Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F., 9.

Gaddini E. (1976-1978). L’invenzione dello spazio in psicoanalisi. In: Scriti.

Green A. (1990). Psicoanalisi degli stati limite. Raffaello Cortina Editore.

Green A. (1995). Propedeutica. Edizioni Borla, Roma, 2001.

Green A. (2001). Il tempo in frantumi. Borla, 2001.

Green A. (2006). Atemporalità dell’inconscio. In: La diacronia in psicoanalisi. Borla, 2006.

La Scala M. (2012). Spazi e limiti psichici. FrancoAngeli, Milano.

Munari F. (2009). “Riflessioni teorico-cliniche sul finire della cura”. Conversazione con Alessandra De Marchi. Centro Veneto di Psicoanalisi. Padova, 17 ottobre 2009.

Winnicott D.W. (1963). La paura del crollo. In: Winnicott D. W., Esplorazioni psicoanalitiche. Milano, Raffaello Cortina, 1995.

 

 

—–

[1] Nella strategia militare, nell’anamnesi del medico, nell’abilità del retore opera soprattutto il kairòs, e con ciò lo sviluppo di un tempo svincolato dal volere degli dei, in cui si colloca l’autonomo agire dell’uomo. Questa possibilità, che nasce da un’intelligenza e conoscenza dei segni, può determinare il felice esito dell’avvenire (Roberta Ioli, 2016). 

Marco La Scala, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

marcolascala14@gmail.com

*Per citare questo articolo:

La Scala M. (2024). L’attesa: legamenti sbarrati e coazione a ripetere, KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 38-51.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Condividi questa pagina: