Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Maria Ceolin
(Padova), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana.
*Per citare questo articolo:
Ceolin M. (2024). Moderato cantabile, KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 29-37.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
L’immagine della locandina del Convegno veronese Il tempo nella clinica psicoanalitica, che ha dato origine a questo Knotgarden, mostra un uomo con il cappello che, allungando una lancetta oltre il cerchio di un grande orologio, sembra spingerlo come fosse un carrettino o fare il vecchio gioco del bastone e il cerchio… sembra giocare con il tempo, e mi pare che, con un certo ottimismo, Andrea Mosconi che l’ha disegnata ci dica che si può fare.
I meno giovani ricorderanno, invece, certamente l’orologio senza lancette che appare in uno dei sogni sconvolgenti di Isak Borg, l’anziano medico de Il posto delle fragole, meraviglioso film di Bergman che è una meditazione sul tempo, sulla sua irreversibilità, i rimpianti per le occasioni perdute, il passato che non trascorre mai e continua ad abitare l’esistenza, la colpa, la paura, la morte… tempo che, nel suo scorrere paradossale, fugge veloce e insieme non passa, come nel Paese delle Meraviglie, quando ferma alle cinque l’orologio del Cappellaio Matto, inchiodandolo a rivivere di continuo l’ora del tea, mentre corre all’impazzata per il Coniglio Bianco, e lo fa sentire sempre troppo, troppo in ritardo per potersi fermare.
L’esperienza del tempo ha due volti: da una parte il tempo razionale, spazializzato e oggettivabile (l’orologio, il calendario), che si può rappresentare come una linea retta e si può calcolare, misurare, scomporre in un prima e in un dopo, dall’altra il tempo vissuto, immanente alla coscienza, che non si coglie in termini discorsivi ma solo riconoscendone il carattere essenziale di divenire, stabilità, durata.
La coincidenza/non coincidenza tra tempo oggettivo e soggettivo, era per Minkowski la strada maestra per comprendere la dimensione psicopatologica dell’esistenza umana.
Per lui, sulla scia di Bergson, il tempo è un “oceano mobile, misterioso, possente, una ‘massa fluida’ che non conosce né soggetti né oggetti, non ha parti distinte, né direzione, né inizio, né fine […] appare – nel suo carattere irrazionale – sempre presente, vivo, vicinissimo a noi” (2004, 18), e quando (in assenza di sentimenti, pensieri, volizioni) lo intuiamo nella sua purezza, è possibile sentire il proprio slancio vitale ‘compenetrarsi al divenire della realtà dell’universo’.
Parole queste che paiono giungere da un mondo assai lontano, difficile oggi ‘intuire il tempo nella sua purezza’, l’imperativo della Crescita, la pressione al consumo impongono rapidissimi cicli di utilizzo e distruzione che erodono il tempo, sopprimendo la durata, la possibilità di sostare, praticare l’assenza, l’abbandono dell’ascolto e della contemplazione.
“Consumo e durata si contraddicono” e “la capacità di indugiare” appare persa (Byung-Chul Han, 2017, 108).
Come Minkowski,[1] noi ancora percepiamo l’esistenza accadere nel solco del tempo. Permane, infatti, nel senso comune la visione newtoniana di un universo-palcoscenico sul cui sfondo la linea del tempo scorre immutabile e eterna, anche se Einstein sosteneva sorridendo che non esiste alcun palcoscenico, che il teatro si crea solo quando l’attore è presente, e con lui lo zoologo estone, Jakob von Uexkull – all’inizio del ‘900 tra i fondatori dell’etologia e dell’ecologia – affermava che “senza un soggetto vivente il tempo non può esistere” (1967, 98), che non esistono un tempo e uno spazio assoluti, uguali per tutti i viventi, il tempo della zecca non è il nostro, per lei, che attende appollaiata anche ventotto anni di percepire il tepore del sangue, non avrebbe alcun senso parlare di attesa.
In modo ancor più radicale, la fisica contemporanea ritiene che per comprendere l’universo sia più utile fare a meno della nozione di tempo, che esso non faccia più parte della struttura del mondo. Oggi le equazioni fondamentali non descrivono come mutano le variabili nel tempo ma come mutano le une rispetto alle altre: prive di un ordine comune, esse compiono una danza microscopica indipendente e anarchica, di cui ciò che percepiamo come nostro tempo è solo una vaga approssimazione (Rovelli, 2017).
Un Tempo consistente e condiviso non contiene più le nostre esistenze, esso non è nelle cose ma solo nel nostro modo di pensarle e organizzarle, coincide con il nostro stesso essere-nel-mondo, ogni essere è tempo e ogni essere ha il proprio tempo.
Allora, come suggerisce Agamben, per pensarlo nulla è più utile che affidarsi a degli avverbi: sempre, mai, subito, ancora e, “forse – al più di tutti misterioso – ‘mentre’, che non designa un tempo ma un ‘frattempo’, cioè una curiosa simultaneità fra due azioni o due tempi (…) quasi un luogo immateriale in cui in qualche modo dimoriamo, in una sorta di perennità dimessa e interlocutoria” (2024).
Questo “semplice e immobile ‘mentre’ in cui sempre già senza accorgercene siamo” (ibidem) ci permette di pensare lo scorrere del tempo, che da sempre in vari modi tentiamo di ‘annullare’, non come “fuga astratta e affannosa di inafferrabili istanti” ma, in tono minore, come “una nostra spicciola eternità che nessun affranto orologio potrà mai misurare” (ibidem).
Ma dell’eternità si può anche fare a meno, e la fragilità della vita, può essere accolta come qualcosa che le aggiunge valore, che la rende più bella e più preziosa, come ci racconta Freud nel suo testo forse più poetico Caducità, quando, passeggiando in montagna, tenta di consolare un giovane poeta (Ranier Maria Rilke), profondamente rattristato dalla mortalità di tutto ciò che è vivo.
Fedele al suo amore per la verità, “ciò che è doloroso può pur essere vero”, Freud non minimizza il “precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è bello” (1915, 173), non è d’accordo, però, che la caducità implichi uno svilimento, anzi egli pensa sia la breve durata delle cose a donar loro ‘un nuovo incanto’.
Un ottimismo della ragione, fondato sulla fiducia nella capacità degli esseri umani di elaborare i lutti, che non convince Ranier Maria Rilke che, nelle Elegie duinesi (la scrittura delle quali lo accompagna per un decennio, dal 1912 al 1922) rimpiange ancora la perdita di tutto ciò che nasce destinato a svanire e, continuando quasi il dialogo con Freud pare rispondergli, con intensità dolorosa, che il lutto non è risolvibile perché è già racchiuso nella vita, in ogni cosa, unica e non sostituibile, che ‘vive di morire’.
Ogni cosa
una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.
E anche noi
una volta. Mai più. Ma questo essere
stati una volta, anche una volta sola,
quest’essere stati terreni, pare irrevocabile.
(IX, 12 sgg.)
Le loro posizioni, nel tempo paiono però quasi incrociarsi e, per percorsi diversi, farsi più vicine.
Si potrebbe supporre, come fa Fachinelli (1989), che il sentire del giovane poeta, allora contrastato con sicurezza, fosse una voce segreta già presente in Freud, che sarebbe emersa più tardi.
Nelle pagine di Caducità, mentre la prima guerra mondiale sta ponendo gli uomini tragicamente in contatto con la precarietà dell’esistenza, Freud esprime la speranza che, una volta tornata la pace, l’umanità sarebbe tornata a ricostruire tutto ciò che la guerra aveva distrutto su presupposti più solidi di prima. Ma quando, poi, l’avvento del nazismo e di un’altra guerra più devastante della prima smentiscono le sue generose previsioni, oltrepassando il principio del piacere, la morte si presenta protagonista anche nei sui scritti, in veste di potente pulsione antivitale.
L’immedesimazione con le cose, che già allora colmava lo sconsolato struggimento di Rilke, (forse anche grazie alla ‘chiaccherata’ con Freud…) acquisisce, invece, un nuovo sguardo che contempla tutti gli esseri – uomini, animali, piante, cose – in uno spazio interiore di mondo[2] nel quale vita e morte, fecondità e dolore, visibile e invisibile convivono come aspetti diversi di una stessa realtà, che ‘abbraccia ed è abbracciata’ al tempo stesso.
Questa magica connessione trasforma il senso di impotenza in una operosa comprensione riparativa, come se le creature chiedessero di essere custodite in un luogo di ‘eternità invisibile’, compito dell’essere umano diviene proteggere il mondo (per lui tramite il ‘dire’, la poesia)
vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore
(IX, 65)
e, se si ascolta l’invocazione delle cose di farle vivere, salvarle in noi, la vita, pur se effimerà, diviene ‘molto’
Ma perché essere qui è molto, e perché sembra
che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste
cose che svaniscono
che stranamente ci sollecitano. Di noi, che svaniamo più
di tutto.
(IX,10 sgg.)
così si chiude l’ultima elegia:
E noi che pensiamo la felicità
come un ascesa, sentiremo l’emozione
che quasi ci smarrisce
di quando cosa ch’è felice, cade
(X, 110 sgg)
In una lettera all’amica Margot Sizzo-Noris (6 gennaio 1923), Rilke scrive: “Si deve amare la vita con tale generosità, senza calcoli o preferenze, cosicché quasi senza volerlo, ci si trovi a includere in questo amore anche la morte (la metà della vita che ci volta le spalle). Che poi, in realtà, è quel che accade sempre nei movimenti interminabili e sconfinati dell’amore” (2017, 62).
Anche Kafka (1988), così scriveva dell’amore: ‘Da quel giorno, il giorno in cui ti ho incontrato, l’orologio della mia stanza ha riiniziato a battere…’. Il tempo lineare, tempo assassino, intessuto di perdita e di perdite, fino alla fine, fino all’ultima perdita… di sé, può riiniziare a divenire allora un tempo dentro la cui durata, breve, transitoria, la nostra vita può desiderare vivere.
Allo stesso modo, anche nell’analisi, il tempo si rimette in moto già nel momento in cui la domanda di cura è formulata, mentre, nel farsi paziente, si aspira a un ascolto che non ti lasci solo, in cui qualcosa accada…
un tempo in cui ciò che non passa, può essere rivisitato, risignificato, raggiungere, come per Isak Borg nel finale del film, una possibilità di riconciliazione, di clemenza per sé… qualsia quel che siamo alla fine.
(IX, 66)
(Rilke, 1995, 161)
Bibliografia
Agamben G. (2024). Mentre, Quodlibet, una voce di Giorgio Agamben 14 marzo 2024. https://www.quodlibet.it
Byung-Chul Han. (2009). Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose. Milano, Vita e pensiero, 2017.
Dogson C. L. (1865). Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Milano, Il Castoro, 2021.
Fachinelli E. (1989). Freud, Rilke e la caducità. ‘Il manifesto’, 22-23 gennaio 1989. In: Su Freud, Milano, Adelphi, 2012.
Freud S. (2015). Caducità. O.S.F., 8.
Kafka F. (1958). Lettere a Milena. In: Lettere, Milano, Mondadori, 1988.
Minkowski E. (1933). Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia. Torino, Einaudi, 2004.
Rilke R.M. (1923). Elegie Duinesi. Torino, Einaudi,1978.
Rilke R.M. (1923). La vita comincia ogni giorno. Roma, L’Orma Editore, 2017.
Rilke R.M. (1923). Poesie sparse. In: Sonetti a Orfeo, Pordenone, Studio Tesi, 1995.
Rovelli C. (2017). L’ordine del tempo. Milano, Adelphi.
Von Uexkull J. (1938). Ambiente e comportamento, Milano, Il Saggiatore, 1967.
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[1] “Esso è la base stessa della nostra vita, diremmo quasi che è sinonimo di vita” (Minkowski, ibidem, 18).
[2] Un ‘solo’ spazio compenetra ogni essere:
spazio interiore del mondo. Uccelli taciti
ci attraversano. Oh, io che voglio crescere,
guardo fuori ed ‘in’ me ecco cresce l’albero.
(Rilke, 1995, 161)
*Per citare questo articolo:
Ceolin M. (2024). Moderato cantabile, KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 29-37.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
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