Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Stefano Bolognini
(Bologna), Membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana.
*Per citare questo articolo:
Bolognini S. (2024). Qui e allora. Quanto viviamo nel passato? , KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 13-28.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Il tempo scorre per tutti sui quadranti degli orologi e nei calendari, ma le differenze tra i vissuti soggettivi delle diverse persone risultano enormi; oltretutto, anche il tradizionale assunto sulla atemporalità che regnerebbe nell’inconscio subisce delle occasionali, sorprendenti smentite: come quando certe dimenticate ricorrenze di eventi significativi sfuggono all’Io conscio, ma non a parti profonde della persona, che si ritrova pervasa da stati d’animo o da sogni o da agiti che si rivelano poi connessi a date di lutti o a ricordi che “qualcuno”/qualcosa, dentro di noi, ha invece accuratamente registrato e in qualche modo celebrato, a nostra parziale insaputa.
E se per noi analisti l’evidenza delle ripetizioni del passato nel transfert è materia quotidiana e ben nota di esperienza e di lavoro, pure l’osservazione di questi fenomeni non cessa mai di stupirci, e questo giustifica il nostro interesse (che è iniziato al tempo di Freud) anche in un ambito socioculturale allargato, esteso al mondo in cui viviamo.
Oggi mi occuperò dunque, in modo liberamente “applicativo”, di un aspetto ubiquitario, stra-conosciuto e manifestamente ovvio, ma che nonostante tutto mi incuriosisce da sempre: il fatto che in ognuno di noi ci sia una quota fisiologica non tanto e non solo di continuità col passato (ciò che sarebbe sano: in fondo, questo è alla base di una naturale continuità interna nel senso del Sé, che deve potersi fondare sulla permanenza di elementi costitutivi per organizzare una sua consistenza, coesione e riconoscibilità identitaria), bensì di permanenza inconscia nel passato.
Il problema può porsi quindi sul versante patologico:
1) quando vi è un eccesso di permanenza nel passato. Il campione di questo assetto mentale non può che essere Onoda Hiroo (Kainan, 19 marzo 1922 – Tokyo, 16 gennaio 2014), il mitico militare giapponese noto perché dopo quasi 30 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, nel 1974, nella giungla sull’isola filippina di Lubang, venne arrestato perché si rifiutava di credere che la guerra fosse finita.
2) quando quel passato è il passato di qualcun altro, come è stato illustrato meglio di tutti da Haydée Faimberg (2005), della quale rivisiterò un caso clinico.
3) un terzo fenomeno patologico, di segno opposto, lo incontriamo invece quando il soggetto è “senza passato” (come nel famoso film di Aki Kaurismaki), o per perdite traumatiche o per rigetti ed evitamenti difensivi.
A livello collettivo, ci sono stati e sempre ci saranno macro-movimenti socioculturali di riavvicinamento al passato o di completo rifiuto di esso con modalità reattiva.
Ricordo che negli anni ’50-’60 il bisogno di rompere con un passato traumatico di guerra e di schemi sociali precedenti favorì in Italia una corsa collettiva a disfarsi dei vecchi mobili di famiglia per sostituirli con nuovi arredi basati soprattutto su due materiali nuovi e in qualche modo alieni: il Tek (legno esotico) e la fòrmica. Entrambi sostituivano le essenze tradizionali (noce, frassino, rovere) che avevano caratterizzato in modo autoctono le stanze e le cucine delle case italiane di campagna e di città.
Negli anni tra il ’70 e il ’90 gli antiquari fecero invece una discreta fortuna, in un rigurgito di recupero della tradizione; mentre dopo il 2000 il numero dei loro negozi si è progressivamente ridotto fino alla odierna decimazione, dovuta a molti fattori (case più piccole, declino della borghesia, scarso interesse storico-culturale per le differenti epoche) tra i quali non va però annoverato il fattore economico, dato il prosperare del design di alta qualità, che costa oggi molto di più dell’oggetto d’epoca. In molti casi sembra piuttosto nuovamente operante, nel bene e nel male, un bisogno di staccarsi dalle proprie radici; e anche qui è interessante comprendere quando si tratti di autentica apertura al nuovo (fuori e dentro di sé) o di fuga da aree interne rigettate.
Ci muoviamo, insomma, in un campo di osservazione, se non di ricerca, potenzialmente affascinante, ma certamente complesso, nel quale ci si deve addentrare con una opportuna cautela per non cadere in generalizzazioni eccessive, con propensioni passatiste o con cliché progressisti di maniera; e una volta di più dobbiamo comunque riconoscere che ogni caso individuale fa storia a sé, come riscontriamo nei nostri studi professionali quando entriamo più in profondità nelle storie e nei modi di essere dei diversi pazienti.
C’è però un punto fondamentale che vorrei segnalare: che ci si trovi davanti a soggetti passatisti o futuristi, quello che non può essere ignorato è il livello di profondità tridimensionale o viceversa di piattezza bidimensionale delle menti con cui entriamo in contatto.
Voglio dire che le menti bene integrate e caratterizzate da una ricca e fluida circolazione dei pensieri, dei ricordi, delle fantasie, delle emozioni, dei progetti e dei contatti, possono frequentare con maggiore o minore interesse il passato, il presente o il futuro potenziale, ma non sono eccessivamente limitate in queste varie direzioni: uno storico dell’arte del ‘500 può essere una persona bene inserita nel presente ed essere incuriosita dal nuovo che emerge, così come un progettista di strutture avanzate può essere in buon contatto interno con ricordi e sensazioni del passato suo e della sua famiglia.
La bidimensionalità, invece, come quella dei dipinti di alcuni pazienti psichiatrici che rappresentavano l’Ospedale nell’isola di San Clemente a Venezia senza profondità spaziale e dunque di prospettiva, rifletteva l’assenza di tempo, di sviluppo, di memorie e – appunto – di “prospettive” che caratterizzava la loro vita all’interno di un contenitore pressoché atemporale, sia in avanti sia all’indietro.
Un assaggio di micro-psicopatologia quotidiana
Una vasta parte della mia mente, o perlomeno della mia mente conscia, conosce benissimo gli orari di apertura e di chiusura dei negozi e dei vari esercizi commerciali, che oggi nelle grandi città alzano la saracinesca alle 10 del mattino, chiudono dalle 13:00 alle 15:30, e richiudono definitivamente alle 19:30.
Le cose vanno così da almeno una trentina d’anni, o forse di più, non saprei di preciso; certamente così non andavano negli anni della mia infanzia (grosso modo, gli anni ’50), quando uscendo di casa alle 8:00 per andare a scuola insieme a un paio di compagni vedevamo una buona parte delle attività commerciali e artigianali già in funzione, mentre la città brulicava di persone affaccendate che con maggiore o minore fortuna si davano da fare nello sbrigare le loro faccende e nel guadagnarsi da vivere.
La televisione iniziò ufficialmente i suoi programmi in Italia nel 1954, ma fino alla fine di quel decennio erano in pochi a possedere un televisore, e come è noto le famiglie per qualche anno si recarono alla sera nei bar solo per vedere eventi epocali come “Lascia o raddoppia” o qualche Festival di Sanremo vecchio stile: il che, tradotto in termini pratici, significava che di solito tutti andavano a letto prima, e prima si svegliavano al mattino.
Sarà stata la televisione da un certo punto in poi coi suoi tentacolari programmi serali e notturni non-stop, o qualche altra tendenza edonistica concomitante, ma è certo che dai ‘70 in poi chi andava a letto presto si sentiva additabile come un escluso che non sapeva vivere la vita; e un po’ alla volta, impercettibilmente, tutta l’organizzazione socio-professional-commerciale è slittata in avanti di almeno un’ora, o a volte anche di due, con ritmi caraibici.
Quello che sto descrivendo sembrerà strano ai giovani, che con questi tempi e ritmi sono cresciuti; il fatto è che anche la parte maggioritaria e informata della mia mente conscia (chiamiamola pure Io Centrale) è bene aggiornata sui cambiamenti intercorsi da quegli anni ormai lontani, altroché; ma quando al mattino intorno alle 8 esco di casa per passare dal giornalaio e poi raggiungere il mio studio, un’altra parte di me irriducibile, stupita e perfino moralista pensa: “Beh?!?…come mai non c’è quasi nessuno in giro?!?…e tutti quei negozi chiusi?…”. Mi sembra un mondo misteriosamente narcotizzato rispetto a quello che continuo a prefigurarmi ostinatamente: che è poi quello di quando ero un bambino.
Il passato di qualcun altro
Uno dei casi clinici più celebri a livello mondiale negli ultimi 30 anni è quello del paziente Mario, riportato con efficacia da Haydée Faimberg nel suo libro sul “téléscopage transgenerazionale”: la storia di un uomo che non metteva correttamente a fuoco il valore corrente della moneta del suo paese, l’Argentina, in quanto segretamente “catturato” (segretamente a sé stesso, voglio dire) da una penosa vicenda familiare fissatasi negli anni ’40.
Il paziente a quell’epoca (negli anni ’70) viveva appunto in Argentina, paese in perenne crisi economica, i cui abitanti cercavano di difendersi individualmente dalla grave inflazione della moneta, acquistando dollari americani; Mario, tuttavia, non faceva alcun tentativo di questo genere per proteggere il suo denaro, vivendo in uno stato di beata indifferenza come se il fatto non lo riguardasse.
Un giorno Mario inizia a manifestare in seduta, per la prima volta, una certa ansietà: teme di non poter continuare l’analisi in quanto il suo stipendio potrebbe non consentirglielo più.
Dice all’analista che un suo amico gli ha proposto di cautelarsi comprando dei dollari e gli ha chiesto se sa quanto vale un dollaro.
Mario gli ha risposto che un dollaro vale due pesos; parlando di questo, Mario accenna appena un gesto con la mano, un po’ soprappensiero, come per assicurarsi di avere ancora qualcosa in tasca, con un sorriso tenero e sincero; l’analista nota questo dettaglio e ne resta stupita.
In realtà l’amico, come per svegliarlo da un sogno, lo ha avvertito: “Guarda che un dollaro vale 5000 pesos…!”; ma lui non mostra preoccupazione per il suo enorme qui pro quo, come se pensasse che è questo dato di realtà esterna a essere sbagliato.
Dunque i “dollari soggettivi” di Mario valgono per lui due pesos, punto e basta, e lì per lì non dà importanza al suo errore; continua ad accarezzare la sua tasca quando parla di quei dollari da due pesos, e l’analista a quel punto pensa che quei dollari e quei pesos, a giudicare da quel valore di cambio, appartengano ad altri tempi, probabilmente agli anni ’40.
L’analista allora dice:
“Lei deve tenere qualcosa di molto importante nella sua tasca, qualcosa di segreto che richiede la sua attenzione proprio quando stiamo parlando del denaro di cui lei ha bisogno per continuare la sua analisi con me. Lei vuole continuare la sua analisi e ha paura di perderla. Ciò che richiede la sua attenzione potrebbe essere in rapporto con i “dollari che valgono due pesos”. Se è così, devono appartenere a un’epoca del passato, forse agli anni ‘40. Non so niente di questo, ma se fosse così, ha idea per chi siano quei dollari?”
La risposta di Mario è la seguente:
“Sì, so per chi sono quei dollari. Sono per la famiglia di mio padre. La famiglia di mio padre rimase in Polonia quando mio padre lasciò il paese, negli anni ‘30. Mia madre mi ha detto che il carattere di mio padre cambiò completamente dopo l’emigrazione: smise semplicemente di parlare, infatti, non ha mai veramente imparato lo spagnolo. Durante la guerra iniziò a inviare denaro ogni mese ai suoi parenti in Polonia, ai suoi genitori, ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Dollari, erano dollari quelli che lui inviava. Ad un certo punto nessuno là ritirò più il denaro. Penso che l’intera famiglia fosse morta. Mio padre non parlò mai di loro o di quello che poteva essere loro successo. Penso che non riuscì mai a sapere che cos’era accaduto realmente. È stata mia madre che mi ha raccontato tutto questo.”
Mario aveva cristallizzato nella sua psiche la situazione di “un padre-che-non-riconosce-la-morte-della-propria-famiglia-in-Polonia” e, forse, manteneva dentro di sé una sorta di narcosi settoriale/morte interna per evitare che lo scorrere del tempo (e della storia) si manifestasse e con esso arrivasse la morte della famiglia di suo padre.
A evidenziare ulteriormente il livello di profondità di queste misteriose identificazioni alienanti, Faimberg aggiunge che, mentre emergeva questo materiale transgenerazionale, si rendeva conto che al tempo di quei tragici fatti Mario non era ancora nato.
Non mi estenderò ulteriormente nel riportare questo caso classico, di cui per brevità ho semplificato il versante relativo alla complessità del transfert verso l’analista. Quello che vorrei evidenziare qui è come la coppia analitica abbia scoperto progressivamente, attraverso l’analisi del transfert e la comprensione retroattiva, il segreto tributo che il soggetto pagava – senza saperlo – a figure e a situazioni che esistevano ormai solo nel suo mondo interno, ma che da lì lo mantenevano vincolato trans-generazionalmente ad antichi mandati riparativi o restaurativi che la famiglia gli aveva inconsciamente trasmesso e che giacevano incistati dentro di lui.
Il risultato del permanere di questi mandati, però, era psichicamente nefasto, perché conduceva direttamente al diniego di una parte della realtà, che si riattualizzava nel diniego protratto del paziente riguardo alla difficoltà di continuare la propria analisi.
Su un piano meno drammatico, e casomai piuttosto curioso, mi torna allora in mente la vicenda di un mio paziente dei primi anni’80, un ricco notaio bon vivant che arrivava in seduta sgommando sulla sua Porsche ed esibendo il suo status socio-economico con una certa arroganza. Dopo qualche tempo, però, emerse incidentalmente una sua curiosa, sia pur minima, inibizione: da sempre “non poteva” prendere un taxi e quando aveva dovuto farlo – perché in compagnia o comunque non per sua scelta – il suo occhio angosciato non riusciva a staccarsi dal tassametro, che scandiva implacabile l’incremento di costo della corsa. Cosa strana, perché in altri ambiti quest’uomo spendeva il suo denaro senza alcuna difficoltà.
Inutile dire che un materiale di questo genere, per quanto apparentemente minimale, era un invito a nozze per un analista: l’idea di affidarsi alla guida di un altro, il fatto di doverlo pagare stabilendo così una propria dipendenza, il non poter esercitare un controllo preventivo su quanto gli sarebbe costato (con tutti i possibili significati di questo termine) fare quel percorso insieme al taxista/analista erano tutte ghiotte aree interpretabili sulle quali non mancai di dirgli la mia in chiave di transfert.
Ugualmente, mi colpivano la forma e il contesto scenografico in cui questo piccolo sintomo si configurava.
Questo paziente proveniva da una cittadina di provincia nella quale possedeva, tra le altre cose, l’abitazione del nonno paterno; da molti anni risiedeva con moglie e figli nella mia città, ma la sua residenza emotiva (Bolognini, 2019), salda e profonda, era là, in quella vecchia e silenziosa casa borghese che lui provvedeva a mantenere perfettamente efficiente come se fosse ancora abitata, e presso la quale si recava ogni volta che poteva, accompagnato dalla moglie (una santa donna che lo assecondava con amorevole pazienza, come una mamma che accompagna il bambino al suo giardino preferito).
L’analisi di questo paziente durò una decina d’anni e produsse cambiamenti significativi che non riassumerò qui se non per dire che si umanizzò e si integrò molto, migliorando considerevolmente vari aspetti affettivi della sua esistenza.
Ma due minimi elementi non cambiarono gran che neppure alla conclusione: il taxi, necessario per gli appuntamenti professionali nelle sedi bancarie in centro-città, lo prendeva solo obtorto collo e sempre con una certa angoscia, avendo ricordato come il severo e dominante nonno, ancorché agiato proprietario terriero, avesse pesantemente diffidato il figlio (cioè il padre del paziente), in presenza del nipotino, dal cedere ad una soluzione “da debosciati” come quella, tuonando fino alla di lui età adulta: ”O A PIEDI, O IN BICICLETTA!” Un anatema che per qualche ragione doveva essere passato a grande profondità, perché ancora faceva tremare fino al midollo il nipote, per altri versi tutt’altro che inibito o timorato.
L’altro elemento invariato e senza tempo riguardava il culto di quella casa avita, che lui non utilizzava affatto, ma che coltivava e curava in molti fine-settimana come se si trattasse di un corpo materno irrinunciabile. E lì il protagonista della scena non era lui, era la casa stessa di cui lui, con l’assistenza della moglie, era al contempo ospite, custode e curatore, impegnato a mantenerla rigorosamente intatta e sempre uguale.
Quest’uomo aveva in generale una vita colorita e attiva, molto “mossa”, ma permaneva in lui un’area pressoché religiosa riguardo a quella casa, cui non poteva né voleva rinunciare, un po’ per dovere e un po’ perché gli dava stabilità: un mandato, ma anche una base sicura interna. Comprendemmo insieme che là, in quella casa/equivalente materno, lui poteva regredire senza pericolo e addirittura con qualche valenza riparativa amorevole nei confronti di un fantasma materno interiore in realtà molto conflittuale che lo occupava senza soluzione di continuità.
Il paziente mi ricontattò qualche anno fa, in occasione del suo pensionamento, e naturalmente emerse che il suo rapporto con quella casa era sempre lo stesso.
E proprio parlando di case, e quindi degli aspetti fantasmatici che esse possono condensare e rappresentare in modo complesso, mi concedo un ultimo collegamento tra la realtà oggettiva socio-economico-culturale e quella soggettiva di tante persone che a livello conscio amano autorappresentarsi narcisisticamente come ben distaccate dal passato, magari perché iper-tecnologizzate e internazionalizzate, mentre di fatto ci vivono immerse ben aldilà di quanto immaginino.
Avevo notato, durante una vacanza in Calabria, come in una bella località balneare ricca di antichi palazzi che erano serviti come residenza estiva dei nobili napoletani nei secoli scorsi, una buona parte di essi fossero chiusi e cadenti, in stato di abbandono. Mi era stato spiegato che per la maggior parte erano ridotti così perché gli eredi comproprietari, moltiplicatisi a dismisura nel tempo, erano in perenne lite tra loro e piuttosto che dar soddisfazione gli uni agli altri vendendo la loro parte ai parenti, lasciavano che quelle splendide case si deteriorassero.
Proprio il mio paziente notaio (che peraltro era figlio unico) aveva parlato a volte in seduta di questo fenomeno per lui molto frequente: molte proprietà rimaste indivise si rivelavano essere il ricettacolo concreto di infinite simbiosi invisibili, di irrinunciabili vincoli inconsci con un corpo materno ormai morto ma non abbandonabile né tantomeno da concedersi ad altri (fratelli o cugini co-eredi): “altri” coi quali pure il vincolo doveva persistere indefinitamente, pur colorandosi di sadomasochismo, per smentire la realtà delle separazioni e delle perdite e per mantenere un illusorio status quo di figlio unico, di unico erede privilegiato, in una dimensione senza tempo.
* * * *
Sono consapevole di aver preso la curva larga, con queste osservazioni, per trattare un tema che in realtà è noto e trasversale a tutta la psicoanalisi: gli esseri umani vivono ‘in parte’ in un loro personalissimo passato, spesso senza rendersene conto; lo riattualizzano nel presente, lo ripetono più o meno compulsivamente, si muovono sulla base di fantasmi e tracce mnestiche di cui ignorano, almeno parzialmente, la presenza al loro interno e che spesso li sovradeterminano, a volte per rimozione e a volte per scissione (“non ci ho voluto pensare, ma in fondo ho sempre saputo che le cose erano così…”).
Questo tema è talmente trasversale e universale, comune cioè in qualche misura alla condizione di tutti noi, che un problema che può porsi all’analista è proprio quello di valutare sensatamente il grado di fisiologia o di patologia di questi aspetti della vita psichica.
È abbastanza evidente che una continuità quasi automatica con gli elementi identitari delle famiglie di origine, delle comunità religiose, culturali, politiche, con gli usi, costumi e tradizioni, produca identificazioni (o all’opposto contro-reazioni avverse simmetriche) che caratterizzano il mondo interno e il modo di essere di ciascuno di noi in modo inconscio per buona parte della vita.
C’è una dimensione identitaria privata di cui noi analisti dobbiamo spesso tenere conto durante i trattamenti, che è quella del “sacro”: vale a dire di un ordine di valori, convinzioni ed elementi fondativi del Sé che vengono vissuti dagli individui come “irrinunciabili” e/o “inviolabili”; e in effetti molto spesso i tre termini (“sacro, irrinunciabile e inviolabile”) vengono riportati come qualcosa che non può e non deve essere discusso o messo in dubbio. Sono sacri e irrinunciabili i valori morali, le convinzioni politiche, i confini della patria o della comunità, l’integrità corporea, i legami intimi, le figure idealizzate ispirative e così via.
Possiamo constatare oggigiorno, in un’epoca in cui i popoli si muovono e si mescolano ben più che in passato, come l’apparente adeguarsi reciproco ai cambiamenti esteriori della contemporaneità non corrisponda affatto a evoluzioni profonde dei soggetti, delle etnie e delle culture (compresa la nostra, beninteso) che mantengono per generazioni – del tutto comprensibilmente – i loro mondi interni almeno in parte “sacri, irrinunciabili e inviolabili”, a volte aldilà di ogni realistica riconsiderazione.
Non sono poi così rari, nella nostra pratica analitica, i riscontri di casi sorprendenti nei quali una certa acculturazione di superficie si rivela in realtà dissociata rispetto a scenari profondi la cui perdurante influenza rende il soggetto sostanzialmente incoerente con la propria autorappresentazione cosciente.
Ho menzionato in un’altra occasione il caso di un paziente che, essendo proprietario di due appartamenti concessi in affitto a inquilini, si era iscritto all’UPPI (Unione Piccoli Proprietari Immobiliari) e partecipava attivamente alle assemblee di quell’associazione intervenendo in modo convinto per denunciare le propensioni truffaldine degli inquilini a danno dei poveri proprietari (tra cui lui).
Il fatto è che il medesimo paziente viveva a sua volta in affitto in un appartamento altrui ed era iscritto anche al SUNIA (Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari), nell’ambito del quale si batteva leoninamente in assemblea contro i soprusi perpetrati dai proprietari ai danni dei poveri inquilini (tra cui lui); e questa scissione veniva non solo mantenuta anche in seduta, ma anzi appariva rinforzata da una percepibile fiducia nell’approvazione da parte di un oggetto-Sé (l’analista) che certamente avrebbe sostenuto la legittimità di queste sue vigorose, sacre e irrinunciabili prese di posizione.
Avevo citato questo caso in passato come esempio piuttosto clamoroso di scissione dell’Io in un inizio analisi; avevo coerentemente rivisitato i saggi di Bromberg (2007; 2009) sui Sé multipli non gestiti consapevolmente dall’Io Centrale, fino a gradi alterati di schizoidia e di autofalsificazione dell’immagine di sé, e il poco noto concetto di “autoinganno” di Clotilde Gislon (1988); studi peraltro interessantissimi e preziosi.
Quello che non avevo descritto era invece il retroscena fantasmatico su cui poggiava la genesi di quella scissione e non l’avevo descritto allora perché ancora non lo conoscevo.
Dopo un anno di analisi il paziente dismise l’iniziale orientamento transferale nei miei confronti passando gradualmente dal trattarmi come un rassicurante e forse necessario Oggetto-Sé a un atteggiamento più conflittuale. Iniziò cioè ad alternare in seduta dei momenti in cui mi trattava dall’alto in basso ad altri momenti in cui mi trattava dal basso in alto: ora superiore e sprezzante, ora sottomesso e invidioso; e la cosa divenne così evidente e contraddittoria che egli stesso non poté mancare a un certo punto di notarlo, con un certo stupore.
Fu allora che emerse, a fatica, il racconto più dettagliato e partecipato della penosa battaglia familiare tra la madre, di famiglia relativamente benestante e incline al disprezzo, e il padre del paziente, di origini più umili e portatore di rabbiose rivendicazioni plurigenerazionali: una battaglia in cui il mio paziente procedeva per massicce identificazioni alternate con l’uno o con l’altro genitore, senza mai raggiungere una sua personale e autentica configurazione di identità e di sentimento che avrebbe comportato pena, dolore e distacco da loro, al tempo detestati per quella conflittualità permanente e però anche amati con irrisolta e disperata lacerazione interiore.
In sostanza, senza mai raggiungere se stesso, occupato com’era dal “troppo” di quei suoi oggetti che per via di quelle identificazioni alienanti lo sostituivano, sostituivano il suo vero Sé, e che lo tenevano ingaggiato in una inconsapevole battaglia senza tempo e senza fine, proprio come Onoda Hiroo, l’eroico, indefettibile, incrollabile, ignaro soldato giapponese che viveva nel passato.
Bibliografia
Bolognini S. (2019). Flussi vitali tra Sé e Non-Sé. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Bromberg, P.M. (2007). Clinica del trauma e della dissociazione. Raffaello Cortina, Milano.
Bromberg, P.M. (2009). Multiple self-states, the relational mind, and dissociation: A psychoanalytic perspective. In: Dissociation And The Dissociative Disorders: DSM-V And Beyond, ed. P.F. Dell & J.A. O’Neil. New York: Routledge, pp. 637–652.
Faimberg H. (2005). The Telescoping of Generations: Listening to the Narcissistic Links Between Generations. Routledge, London. Ediz. Italiana: “Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti”, F. Angeli, 2016.
Gislon M. C. (1988). Il colloquio clinico e la diagnosi differenziale. Bollati Boringhieri, Torino.
*Per citare questo articolo:
Bolognini S. (2024). Qui e allora. Quanto viviamo nel passato? , KnotGarden 2024/4, Centro Veneto di Psicoanalisi, 13-28.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
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