Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Lucio Russo
(Roma), psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. È stato Presidente del Centro Psicoanalitico di Roma. Nella SPI ha svolto numerose funzioni societarie; è stato Redattore della Rivista di Psicoanalisi ed ha coordinato il Gruppo di ricerca nazionale su L’identità dello psicoanalista.
Autore di diversi articoli e saggi tra cui Nietzsche, Freud e il paradosso della rappresentazione (1986), Le illusioni del pensiero (2006), L’indifferenza dell’anima (2000), Destini delle Identità, (2009), Esperienze. Corpo, visione, parola nel lavoro psicoanalitico (2013). Per le edizioni Borla ha inoltre curato il volume Del genere sessuale (1988, con M. Vigneri), e l’edizione italiana de La scorza e il nocciolo, di N. Abraham e M. Torok (1993). Del 2013 è Esperienze. Corpo, visione, parola nel lavoro psicoanalitico. Il testo di questa Lezione è stato ripreso ed ampliato dall’Autore e farà parte di un suo nuovo libro di prossima pubblicazione.
*Per citare questo articolo:
Russo L., (2024) “Follia, sogno e metodo analitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 201-219
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Mi sembra opportuno ricordare che il termine “contaminazione” è usato secondo due accezioni opposte, una negativa ed una positiva. Seguendo l’incerta etimologia del termine da “cum” e dal verbo latino “tamina” (sporcare), la contaminazione indica inquinamento, disgrazia, che provengono dall’esterno e che devono essere contrastati. Il termine “contaminazione” viene anche interpretato positivamente, nel senso di apertura dei confini rigidi del soggetto, apertura che permette visioni e pensieri più ampi. Il metodo psicoanalitico, che sto proponendo, si avvale di un buon uso delle contaminazioni, il mescolamento del familiare e dell’estraneo, dello stesso e del diverso, della ragione e della follia.
Se dovessi caratterizzare il funzionamento psichico dell’analista nella relazione analitica con pazienti al limite, sarei portato ad affermare che esso procede con il passo di Gradiva avanzante, con un piede stabilmente poggiato sulla terra e un piede sollevato. Un passo particolare, che dà l’idea a chi osserva di un procedere nel cammino sollevandosi dalla terra. Come si osserva nel bassorilievo che raffigura Gradiva, l’analista procede nel lavoro analitico con pazienti che sperimentano l’angoscia del crollo psicotico, con una parte della propria psiche, che si immedesima in una relazione simmetrica con il funzionamento psichico delirante del paziente, e con l’altra rimanendo separato e capace di usare la ragione[1].
In queste situazioni estreme l’analista non deve né avere fretta di interpretare e di svelare, funzionando da soggetto supposto-sapere, né di comprendere secondo la logica della coscienza. Egli lavora “in e con” il doppio, il suo Io si sdoppia e diventa il doppio dell’Io del paziente delirante. Egli sperimenta così il proprio alter ego delirante, il “delirio-a-due” con il paziente, continuando a sentirsi un Io che pensa razionalmente e valuta la realtà. Con il metodo del doppio, l’analista può comunicare al paziente che il delirio è un’esperienza umana condivisibile e che esistono, oltre al delirio stesso, anche altri mondi possibili. L’analista si muove tra il livello psichico, cui si trova il paziente, di incorreggibilità del delirio e di fissità di significato, ed il livello della metaforizzazione, l’uso metaforico del linguaggio, che è capace di aprirsi alla realtà mutevole e imprevedibile.
In queste situazioni estreme non può non esservi una corrispondenza tra metodo analitico e delirio, similia similibus curentur. Per entrare analiticamente in un tale quadro clinico, l’analista deve diventare parte di quel quadro.
Nella relazione con il delirio del paziente, egli diventa l’uomo seduto “a cavallo di un muretto”[2], una gamba sporge nella terraferma, verso l’identità analitica preziosamente conservata, che favorisce la asimmetria necessaria nella cura, mentre l’altra gamba sporge nell’abisso del delirio.
L’analista include nel proprio metodo e nella propria identità il delirio. Ciò gli consente di percepire l’ignoto a se stesso, che altrimenti non arriva a percepire.
La follia nel metodo rivela una verità psichica scissa e, come il poeta ci insegna, apre il soggetto a esperienze di verità e di vita psichica, che prima erano fuori della sua portata.
Metodo analitico e metodo della follia, senso della realtà e delirio, sono i due piedi del cammino verso la guarigione. Il primo piede poggiato sul terreno corrisponde al funzionamento psichico dell’analista, collegato con il simbolico e con il sociale. Il secondo piede, quello del saltatore, è teso a oltrepassare la realtà nota e conosciuta della terraferma, slanciandosi verso la terra ignota.
2. È tempo che illustri cosa intendo affermare con l’espressione “buon uso della follia” o “sana insania”. In seguito alla chiusura dei manicomi di Trieste e di Gorizia, poi definita e generalizzata dalla legge 180, Franco Basaglia in “Conferenze Brasiliane” scrisse: «Io ho detto che non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza, che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita»[3].
Questo pensiero di Basaglia mi sembra sia indispensabile per aprire il problema di cosa significhi per il metodo analitico la follia, e cosa essa metta in gioco nel lavoro analitico. In ultima analisi la domanda che mi pongo è questa: quale follia e quali usi della follia sono funzionali alla cura analitica?
Sono convinto dell’importanza per gli psicoanalisti di “essere giusti con la follia”[4], ovvero di tornare a pensare la follia e la sua convivenza paradossale con la ragione. Follia è una parola familiare a ciascuno di noi, che viene pensata e usata dalla collettività in modo molto generico, al di fuori di contesti specialistici e formali. Gli psichiatri non usano questo termine, lo sentono contrario al loro concetto di diagnosi e al loro ruolo medico.
Sento in primo luogo che è importante sottolineare che folle è un termine che appartiene al senso comune, che ricorda a tutti, specialmente agli psicoanalisti e agli analizzandi, che l’inconscio esiste e fa parte della razionalità umana. Non c’è coscienza senza inconscio, non c’è ragione senza follia.
Il termine “follia” non è più appannaggio del linguaggio medico, è un termine polisemico e non è giustificabile assimilarlo alla malattia mentale, come attesta Il Dictionnaire de la folie diretto dal dottor Jean Thuillier: «Termine della lingua letteraria e filosofica, che designa alle volte l’errore di giudizio, la mancanza di prudenza, l’incoerenza delle condotte, etc…» [5]. In questo senso la follia non si oppone alla ragione ma, come scrive Basaglia, esiste ed è presente al fianco della ragione nella condizione umana. Vi è un metodo nella follia, vi è follia nel metodo, soprattutto nel metodo analitico.
I referenti della follia sono le passioni e gli eccessi che attraversano la ragione umana e che creano nuove lingue, nuove forme simboliche. La follia traccia un solco tra la realtà del senso comune e la sua versione discordante.
Proseguo nel comunicare la mia idea di follia, citando un pensiero condivisibile di Lacan, che scrive:
«L’essere dell’uomo non solo non può essere compreso senza la follia, ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia».[6]
Nel modello proposto in Discorso sulla causalità psichica, Lacan mette in evidenza che il folle impegna tutto il proprio essere nell’insondabile decisione di opporsi in qualche modo ai vincoli sociali del buon senso, al mondo simbolico già noto, al governo di una ragione, che esclude l’altra logica dell’inconscio. La follia esercita con metodo il rifiuto “dell’universale, che è incluso nel linguaggio” e sceglie il punto di rottura “nella rete delle aggregazioni sociali”[7].
Penso sia molto importante sottolineare la funzione curativa e creativa della “sana insania”, di una follia non psicotica, che si oppone al mondo simbolico conosciuto.
La follia “ignotizza il noto”[8], interrompe l’ordine del discorso, del senso comune ed esce fuori dal seminato.
Il senso dell’espressione “sana insania” indica il buon uso della follia, da parte del paziente e dell’analista che, uniti insieme, generano una funzione curativa. Il buon uso della follia evita al soggetto al limite della psicosi “l’azzittimento definitivo” e gli permette di continuare a comunicare, a inventare mondi possibili, che sostituiscano il mondo perduto.
3. Il modello della follia è il sogno. La follia opera durante la veglia, il sogno opera nel sonno. Entrambi, sogno e follia, funzionano immaginando, creano realtà immaginarie e comunicano con la realtà perduta.
A questo proposito cito volentieri Sciacchitano, che scrive: «L’analisi del sogno si fa al risveglio quando […] la traccia onirica si può interpretare come linguistica. […] Se anche la follia è sogno, il risveglio si chiama psichiatria, la vecchia psichiatria manicomiale, nata, prima ancora che per contenere i folli entro le proprie mura, per ridurre la follia a malattia, riaddormentandola nei capilettera della nosografia. Al risveglio, della follia la psichiatria raccoglie la forma vuota, che chiama psicosi. La vera follia è evaporata per sempre dalla psichiatria, lasciandovi l’impronta, tuttavia»[9].
In psicoanalisi la follia che cura è legata al buon uso che riesce a farne il paziente nella relazione analitica vivente con il suo analista. Intendo per buon uso la capacità del paziente di parlare liberamente al proprio analista della propria follia, che così, attraverso la parola, diventa comunicazione e, in qualche modo, mantenimento della psiche del paziente nel legame sociale, nella condivisione. Khan a questo proposito, riferendosi a Foucault, scrive che «il bisogno di lasciar parlare se stesso costituisce l’essenziale dell’autoesperienza […], per evitare che [il folle] ricorra ai linguaggi già dati dalla psicosi […]. David Cooper (1978) afferma “Dobbiamo, io credo, distinguere tra ragione e conoscenza: ragione e sragione sono entrambi modi di conoscere. La follia è un modo di conoscere, un altro modo di esplorare empiricamente il mondo ‘interiore’ e quello ‘esteriore’ ”»[10].
La ragione della follia è la ragione onirica[11]
Il punto zero, luogo virtuale nel quale ciò che viene pensato e l’impensato della follia possono avviare o perdere il dialogo, definisce un’esperienza simile a quella indicata da Freud con il termine «ombelico del sogno»[12]. Nell’elaborazione secondaria e nell’interpretazione del sogno, che generano testi dotati di senso, vi è sempre un punto oscuro dove «ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare, ma che non ha nemmeno fornito altri contributi al contenuto del sogno»[13]. Freud definisce «l’ombelico del sogno» il punto in cui il sogno stesso «affonda nell’ignoto». Vi è sempre il non-senso in ogni opera dotata di senso, una quantità di follia nel pensiero creativo. Questo è il motivo per cui i pensieri creativi traggono origine da questo ombelico, dal territorio in cui senso e non-senso non si sono ancora definitivamente separati. Pensare creativamente significa per il soggetto saper raccontare la propria esperienza onirica altrimenti impensabile.
L’esperienza del sognare, come l’esperienza della follia, diventa creativa se il sognatore è capace di tradurla in un racconto che genera altri racconti.
Uno stato d’animo di angoscia e di entusiasmo accompagna il racconto fin dall’inizio. Il racconto dei sogni si presenta al lettore come un’erranza del pensiero, che dall’eccesso di passione si vede obbligato, attraverso il «lavoro del negativo» a distruggere ogni forma di pregiudizio. I sogni insegnano che saper raccontare in modo creativo significa mettere al lavoro il pensiero. Un pensiero che mentre lavora al servizio della ragione conserva comunque un contatto ravvicinato con l’esperienza onirica e con l’inconscio. Tale processo creativo è capace superare la barriera tra pensiero primario e pensiero secondario, tra veglia e sogno. Attraverso il buon uso della passione e della follia il soggetto è capace di utilizzare l’angoscia ai fini creativi. L’angoscia trasformata in pensiero e metodo predispongono l’apparato psichico del soggetto a ricevere le impressioni dell’immagine del sogno, delle visioni e di metterle a disposizione del pensiero razionale. Kafka sogna, si risveglia, ri-sogna e interpreta durante il sogno.
Nel proprio diario e in alcune lettere a Milena e a Felice, il grande scrittore visionario afferma di vivere la propria vita vigile «accanto al sogno»; il sogno diventa il doppio della ragione. «Dormo, per così dire, mentre devo dibattermi con i sogni». Il sogno per Kafka è una «veglia potenziata», una ragione e un linguaggio capace di fare esperienza di parti di sé, che la sola ragione sveglia non è capace di raggiungere. «Certo non dormirò. Non potrò che sognare». Kafka è come Benjamin e Adorno, un sognatore da sveglio, esiliato, indifeso, privo di capacità di mentire. «Insonne quasi del tutto; tormentato da sogni, come se fossero graffiati dentro di me»[14]. Kafka ci insegna che i sogni vanno conservati attraverso l’elaborazione secondaria in racconti verbalizzati e testi. I sogni si situano tra il testo e la cancellazione del testo, tra la ragione e la follia.
Nei sogni la mente di Kafka oscilla, con capovolgimenti istantanei, tra l’esperienza angosciosa della perdita, dello sbandamento e l’esperienza della divinazione. Il racconto dei sogni è un modo geniale di riparare creativamente, di sublimare la distruzione necessaria a creare. La riparazione consente alla follia di essere al servizio della creatività e di non trasformarsi in psicosi. Al fine di preservare la follia dal crollo psicotico e di metterla al servizio della conoscenza non può esservi che la narrazione creativa ed un Io capace di sublimare. La narrazione del sogno è un racconto di sé, che istituisce un riparo per il soggetto esposto al lutto[15].
L’Io si avvale della capacità creativa di raccontare un sogno quando è capace di assimilare l’inconscio in modo da filtrare l’impatto con la passione, l’ignoto e poter continuare a pensare. Raccontarsi la propria vita, raccontarsi il proprio sogno, sono gli strumenti creativi di cui il pensiero dispone per narrare la propria follia. Narrare la propria follia significa per il soggetto impedire che la realtà interiore e profonda del sogno, le visioni oniriche, vengano proiettate in costruzioni deliranti e metafisiche, in sistemi conclusi e dogmatici del pensiero. Nel racconto del proprio sogno il soggetto evita di de-soggettivare la propria esperienza interiore. Un buon racconto del sogno, come il brigante di strada di Benjamin, spoglia l’interprete delle sue teorie, delle sue convinzioni, delle sue certezze. Bisogna farsi saccheggiare dal racconto per essere un buon interprete del proprio sogno.
4. Un importante filosofo italiano, Massimo Cacciari, definisce la “sana insania” «una soglia impervia, un limen, come tra luce e tenebre, tra caldo e freddo, tra dolce e amaro», tra malattia e salute. Solo il punto di vista della follia è in grado di sapere e di dire cosa sia la malattia e cosa sia la salute. Prosegue Cacciari «Cosa vuol dire malattia? Si chiede il protagonista dell’”Idiota” di Dostoevskij, l’epilettico [folle] principe Myskin. Non potrebbe rivelarsi anche in essa una pienezza di vita, un inaudito senso di bellezza? Vi sono insanie che sembrano montate dagli dei, e sono le più tremende: l’amore che delira in passione e travolge Ippolita e Fedra, la follia che colpisce Aiace, quella dionisiaca che impone al Coro delle Baccanti il sacrificio di Penteo. Ma è mania divina anche quella poetica e quella apollinea della poetessa che siede a Delfi, protettrice di Socrate, tanto saggio quanto straordinario fino all’assurdo atopos»[16].
Cacciari paragona la follia ai «folli voli, maledetti alcuni, benedetti altri, ma tutti indifferenti di ogni limite imposto, di ogni radicata barriera, tutti oltrepassanti e infiltranti. Qui il noto vale solo come spinta all’ignoto, alla scoperta, all’inaudito». «La salute – continua Cacciari – significa essere contenti in sé, conservare una propria stabile “forma”, il nostro [filosofico occidentale] è allora il linguaggio dell’insania, dell’insoddisfatta e insoddisfacibile cura».
La sana follia, il volo folle e benedetto, è il cammino del lavoro del “negativo strutturante” (Green), che distrugge le vecchie forme, che permette alla psiche umana di non sostare in equilibri stabili, falsamente normali, patologici, e di costruire nuove forme. La “sana insania” produce trasformazioni, perenni rivolgimenti e metamorfosi. L’Io non è uno, ma è folle e molteplice nello spazio e nel tempo, l’identità sana è metamorfosi.
Cos’è un essere normale, si chiede a propria volta Joyce McDougal: «Il Larousse Universal (vol. 2) dice che il normale significa “conforme alle regole, regolare, comune” […] il normale è l’Heimlich, il conosciuto, ciò che si fa “da noi”. Das Unheimlich, “l’inquietante estraneità” di cui parla Freud, è l’anormale, ciò che scaturisce in noi, e nel suo stesso scaturire, si staglia stranamente sullo sfondo del familiare, di ciò che è accettato dalla famiglia».[17] Lo straniero è in noi, come il sogno e la follia. Allorché usiamo la razionalità e la normalità per cancellarlo, cancelliamo la nostra stessa interiorità.
Chi vuole essere a tutti i costi normale combatte il lavoro analitico, perché teme di trovare nel proprio inconscio il desiderio di trasgredire le leggi familiari, di perdere l’amore certo dei genitori e la strada conosciuta. L’identificazione ai desideri dei genitori, infatti dà certezza e sicurezza. Non è normale dubitare delle proprie scelte oggettuali, delle proprie regole di condotta, delle proprie credenze religiose e politiche, dei propri ideali, dei propri gusti, di se stesso. Ma il lavoro analitico procede mettendo in crisi l’identità e le certezze non negoziabili del soggetto, ovvero mettendo in relazione se stessi con l’inconscio.
«E ancora c’è chi non sa più sognare. Se il folle cancella la distinzione tra l’immaginazione e la realtà esterna, tra il desiderio e la sua realizzazione, i più malati dei cosiddetti normali impediscono l’interpretazione di questi due mondi; il fluido della vita psichica non circola più. L’insolito, l’inquietante, non avranno mai più accesso alla coscienza. Come Das Unheimliche – che Freud fa derivare dal suo contrario, il familiare – la normalità, seguendo la stessa traiettoria, si avvicina sempre di più a ciò che è “anormale”»[18].
Dalla “sana insania” è possibile trarre tre conseguenze utili nel lavoro analitico: la passione, la dissonanza, che spezza la continuità del significato già noto, l’invenzione di forme e di sensi nuovi.
La “sana insania”, passione dell’assurdo, è credere in tutto ciò che non è visibile, non è verificabile, accende di nuova luce la ragione e la espande. Inserita nel metodo analitico, essa ci porta ad introdurre la logica dell’inconscio nella logica della ragione, per aprire la parola e l’ascolto analitici all’ignoto. Un mistero deve mormorare, farsi sentire nelle stanze di analisi e l’analista deve sviluppare la propria stranezza.
Ne Il perturbante, Freud affianca allo sviluppo della psicosessualità, l’idea appena abbozzata di uno sviluppo parallelo dell’Io e introduce la questione di un tempo arcaico, nel quale l’Io vive una vita animistica in uno spazio, dove non sono ancora nettamente tracciati i confini tra interno ed esterno[19]. Spazio che Winnicott ridisegna attraverso l’ipotesi dell’area transizionale. In questo testo Freud, propone la follia del doppio, che è uno stato psichico intermedio tra l’Io e l’alterità dell’altro. Lo psicoanalista, come ho già scritto prima, lavora “in doppio” e “con il doppio”; lavora con un doppio funzionamento psichico, quello primitivo e folle e quello razionale.
Milner cerca di rifondare i «due principi dell’accadere psichico» sulla base di una rivalutazione del pensiero prelogico, ma continua a pensare il funzionamento psichico attraverso la differenza e l’articolazione tra il processo primario e il processo secondario.
La psicoanalista inglese ritiene che il pensiero prelogico continui a funzionare anche dopo l’istituzione del linguaggio e sia al servizio della creatività. In un articolo dedicato a Winnicott, ella rievoca un’immagine che ha condiviso con il grande psicoanalista inglese: «Durante la guerra gli avevo mostrato la vignetta del New Yorker: in essa c’erano due ippopotami con la testa che emergeva dall’acqua, e uno diceva all’altro: “continuo a pensare che sia martedì”. Era tipico da parte sua non avere mai dimenticato questa battuta. Dopo tutti questi anni, mi accorgo di come è adatta ad una delle mie preoccupazioni dominanti, quella della soglia della coscienza, ovvero la superficie dell’acqua come luogo di immersione o emergenza»[20].
Milner, con l’immagine dei due ippopotami, si avvicina ad un luogo psichico dove, come afferma il poeta Wordsworth, il funzionamento sintetico e quello analitico del pensiero coesistono all’interno dello stesso linguaggio. La plasticità della follia induce a pensare in base a tensioni strutturanti il doppio: la messa a distanza e il contatto prelogico, la figurabilità apollinea e il caos dionisiaco. La follia plastica contiene la tensione tra i contrari, che segna la complessità dinamica di un processo di strutturazione, di integrazione e di conoscenza della realtà. Questo processo non si delimita in un risultato compiuto; esso è paragonabile al lavoro del sogno, che avviene attraverso condensazioni e spostamenti, dissimulazioni e plasticità, impenetrabilità e contraddizione, dislocazione dell’affetto e della rappresentazione.
Per offrire un’immagine viva della follia creativa, Milner parla de «il poeta originario nascosto in ognuno di noi».[21]
Il poeta è capace di portarsi nello spazio indifferenziato, del non definito, senza confini, nelle stanze segrete della follia, della coesistenza dei contrari. Egli immagina così l’impensabile per la ragione e apre il pensiero all’universale dell’essere.
La forza creativa della poesia genera l’esperienza di sentire in sé un verbo sconosciuto, fra il suono ed il significato.
Questa esperienza poetica è per gli psicoanalisti l’esperienza di aprire la parola familiare, conosciuta e il senso noto, all’ignoto.
Sono convinto che l’esperienza della parola sconosciuta, sospesa tra il suono e il significato è qualcosa di ricco, che la sana follia offre agli psicoanalisti.
5. A differenza della psicosi, la follia è una strategia della psiche, che rende possibile toccare l’assurdo, tollerare il paradosso e includere il non senso nel senso. Il paradosso della follia arricchisce il pensiero analitico, perché lo costringe ad uscire da uno schema fisso, da teorie note, non efficaci. Il paradosso mette in questione certezze acquisite, ritenute immodificabili e mette in crisi un sistema di riferimento, che analista e paziente hanno assunto inconsciamente in modo dogmatico. La fecondità, dunque, della sana follia consiste nel portare analista e paziente fuori dai paradigmi e dagli schemi di conoscenza conosciuti.
La follia appare come un’attività psichica e relazionale che ubbidisce a regole precise, anche se a tutt’oggi non perfettamente note, e trova il suo posto nelle relazioni vive, nelle opere di spirito e nelle opere dello spirito. La follia, che appartiene all’area dell’illusione mantenuta e dimenticata delle persone sane, «ricompare in seguito nei modi bizzarri, privati di essere»[22].
La differenza tra follia e psicosi riguarda il diverso modo in cui il soggetto riesce a gestire l’onnipotenza dimenticata e disattivata dell’infanzia. Chi usa il metodo della follia si serve di modalità simboliche inusuali, che contraddicono il sistema di giudizio collettivamente assunto, ed è per questo che viene giudicato folle. Il folle, d’altra parte, sospende il senso comune del giudizio ed è per questo che è temuto.[23]
Il metodo analitico mostra che la follia, messa al servizio dello stile, genera una relazione speciale con il mondo dei simboli. I simboli della follia creativa sono in contrasto con quelli collezionati dalle strutture fisse della cultura media. Gli analisti ben conoscono questa situazione, perché le condizioni secondo cui si svolge l’esperienza analitica sono quelle, che propongono una cornice delle categorie fondamentali del pensare e del valutare del tutto differenti da quelle che gli individui o i gruppi istituzionalizzati possono usare. Il dire il pensiero sregolato, i pensieri selvaggi, la dissoluzione delle categorie dello spazio e del tempo, soprattutto la diffusione di nuove produzioni simboliche, sono forme di linguaggio che si situano tra il delirio e la conoscenza. L’esperienza degli analisti di indagare con il metodo della follia, mi sembra possa essere simile a qualcosa che riguarda il contatto con la totalità delle strutture psichiche, da quelle più superficiali, più esteriori, a quelle più profonde. Contatto che il pensiero comune non considera possibile, perché si ritiene molto rischioso spingere il rapporto con il proprio livello psichico oltre un certo limite. L’aspetto rischioso del metodo della follia è quello dell’assimilazione dell’inconscio da parte del resto della personalità. L’assimilazione di ciò che è inconscio e impersonale da parte della coscienza provoca un effetto rappresentabile come quello dell’individuo, che può delirare e che appare delirare secondo un certo ordine psichico costituito. Il risultato soggettivo di questa assimilazione dell’inconscio provoca un arricchimento inesauribile del pensiero e l’invenzione di strutture simboliche nuove. L’esperienza soggettiva è quella maniacale di sentirsi assolutamente liberi di inventare un nuovo rapporto tra sé e il mondo.
La possibilità di cambiamento psichico generato dall’assimilazione dell’inconscio è duplice: o l’auspicabile comunicazione all’altro di questo eccesso o la caduta nella morte psichica dello psicotico.
Alcuni, avendo il terrore di avere un crollo psicotico, usano la follia per essere rinchiusi dalla punizione. Essi si sentono in prigione, comunicativi e contenuti. Aimée, la donna analizzata da Lacan, fu messa in prigione per aver accoltellato in un atto folle la signora Z. Non intendo descrivere il caso, salvo che per una sola indicazione. Lacan scrive che nel caso Aimée si tratta di una realizzazione di autopunizione, un delirio di autopunizione. Il fatto strano è che venticinque giorni dopo il carcere, Aimée guarisce, secondo la testimonianza di Lacan.[24]
Il buon uso della follia si esercita attraverso un’operazione psichica in due tempi: prima si distrugge l’oggetto della conoscenza, poi si producono nuovi simboli fuori dalle categorie note, dalle qualità e dalle significazioni usuali.
Ciò impedisce che il trattamento analitico venga completamente occupato da teorie chiuse, che diventano dogmatiche, e apre il pensiero all’ignoto e al non conosciuto. Inoltre mantiene viva la comunicazione, impedendo che il paziente grave cada nell’isolamento del non senso.
6. L’analista, per accedere alle angosce psicotiche dei pazienti e sentire in se stesso l’angoscia, evade dalla propria identità conosciuta. È ciò che Fedìda chiama scissione dell’Io dell’analista, “un essere scacciati dalla propria identità”, che interrompe la funzione sintetica e totalizzante dell’io-sapere e la familiarità eccessiva del proprio pensiero.[25] Fedìda indica con il termine “scissione” un assetto dell’Io non integrato, che non tende a sintesi teoriche generalizzanti, e genera illuminazioni improvvise, erratiche, che possono avvenire durante il lavoro analitico.
Per immaginare contenuti psichici assolutamente dissimili da ciò che l’analista sa e conosce, è necessario che egli esca dall’ambito dei suoi punti di riferimento familiari e diventi folle. La follia sana lo fa entrare in una relazione simmetrica con il funzionamento psichico del paziente e lo rende capace di entrare in comunicazione con il proprio delirio. A questo proposito è importante che l’analista sappia rinunciare alla troppa erudizione teorica, sospendendola. Lo psicoterapeuta di psicotici scopre che, a contatto col malato, ricorre alle sole risorse della propria analisi personale e alle proprie qualità umane.
Bisogna sottolineare, comunque, che la simmetria e l’identificazione con il livello psichico, da cui parla il paziente, sono rischiose per l’analista, che può rimanere catturato in un delirio, da cui non riesce a uscire. Il rischio di essere affascinato dall’ingiunzione dettata dal paziente, a diventare anch’egli schizofrenico, dipende dalla riattivazione nell’analista del proprio punto cieco dell’inanalizzato.
La follia e il delirio, ha scritto Freud, hanno come modello il sogno, che rigenera e ricrea ciò che tende altrimenti a scomparire nel nulla. Il paziente usa il delirio per continuare a parlare, a usare a proprio modo una lingua, per combattere contro l’estremo impoverimento della psiche.
Freud scrive: «Nel meccanismo di una formazione delirante noi mettiamo in rilievo di norma solo due elementi: da un lato il distacco dal mondo reale e i suoi motivi, dall’altro l’influsso dell’appagamento di desiderio sul contenuto del delirio. Ma il processo dinamico non potrebbe consistere piuttosto nel fatto che il distoglimento dalla realtà viene sfruttato dalla spinta ascensionale del rimosso che vuole imporre il proprio contenuto alla coscienza?»[26].
Poco dopo, nel testo, Freud equipara il delirio al meccanismo dei sogni, che «un’intuizione antichissima equiparò alla follia»[27].
Freud prosegue con un’affermazione di grande rilevanza: «la follia non ha soltanto un metodo (come già il poeta riconosceva), ma contiene altresì un brano di verità storica»[28].
Freud, pertanto, così può concludere: «le formazioni deliranti del malato mi sembrano l’equivalente delle costruzioni che noi erigiamo durante i trattamenti analitici, tentativi di chiarificazione e di guarigione[29]».
Su ciò Freud offre indicazioni preziose in Costruzioni nell’analisi dove scrive che in un trattamento analitico ciascuno dei due soggetti dell’analisi rimane in una scena distinta, il paziente nel delirio, l’analista nella costruzione. Tuttavia scrive Freud: «I deliri mi appaiono come equivalenti delle costruzioni, che noi edifichiamo nel trattamento psicoanalitico, dei tentativi di spiegazione e di restituzione che, nelle condizioni della psicosi, possono tuttavia solo condurre a rimpiazzare il pezzo di realtà, che si nega nel presente per un altro, che si era parimenti negato nel periodo di un’infanzia remota […] Come l’effetto della nostra costruzione è dovuto solo al fatto che ci restituisce un pezzo perduto della storia vissuta, nello stesso modo il delirio deve la propria forza di convincimento alla parte di verità storica che mette al posto della realtà respinta»[30].
Sia il delirio, che Freud definisce follia, sia la costruzione dell’analista provengono dal loro contenuto di verità storica, verità che essi hanno attinto nella rimozione di tempi originari, dimenticati. La comunicazione tra–due-che-parlano, comunicazione con il doppio, protegge dalla cronicizzazione psicotica e porta alla “creazione-in-due” di una lingua generata dall’utilizzo dei resti del linguaggio distrutto dalla malattia.
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Note
[1] Freud S. (1906), Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen, in O.S.F, vol.V, Boringhieri, Torino, 1972, 257-336.
[2] Rovatti P.A. (2000), La follia, in poche parole, Bompiani, Milano, 11-34.
[3] Ho preso questo passo di Franco Basaglia, tratto dalle “Conferenze brasiliane” del 1961 dall’editoriale di “Pensare la follia”, aut aut, Milano, n. 285-286, 1998, 3-14.
[4] Sciacchitano A. (1998), Essere giusti con la follia, in aut aut, cit. 15-56.
[5] Pélicier Y., Folie, in Thuillier J., La Folie histoire et dictionnaire, Paris, 1996. Ho tradotto in italiano il passo citato.
[6] Lacan J. (1966), Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol.II, 174.
[7] Lacan J. (1966), Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia, in Scritti cit., 122-126.
[8] Russo L. (2013), Esperienze, Roma, Borla.
[9] Sciacchitano A. (1998), Essere giusti con la follia, cit. 16.
[10] Traggo questa idea da Khan M.R. (1983), Nessuno può parlare della propria follia, in I sé nascosti, Bollati Boringhieri, 1990, 94-95. Nella citazione ho sostituito il termine “malato di mente” che ho ritenuto non esplicativo, forse contraddittorio, con il termine folle.
[11] Freud S. (1899), L’interpretazione dei sogni, in O.S.F., vol.III, Boringhieri, Torino, 1980, 479-480.
[12] Algini M.L. (2002) e Cupelloni P. (2002), La cripta del silenzio, in La ferita dello sguardo (a cura di Cupelloni P.), Milano, Angeli. Le due Autrici hanno utilizzato il modello dell’«ombelico del sogno» per definire livelli irrappresentabili dello psichismo melanconico. Algini lo ha usato per indicare la traccia di una enigmatica, primaria separazione dell’infante dal corpo materno (45); Cupelloni lo ha utilizzato per descrivere «un punto […] profondo e inaccessibile dell’apparato psichico, che possiamo metaforicamente rappresentare come “ombelico della psiche”» (13).
[13] Freud S. (1899), Op.cit.
[14] Kafka F. (1990), Sogni, Sellerio, Palermo, 33.
[15] Cupelloni P. (2005), Affinità inconsce. Autorappresentazione, autoanalisi, controtransfert, in Consapevolezza e autoanalisi (a cura di Vergine A.), Milano, Angeli. In questo lavoro Cupelloni ha proposto il modello dell’autorappresentazione per indagare sulla fonte inconscia della narrazione creativa e della sublimazione
[16] Cacciari M., La sana follia che aiuta a catturare la felicità, in Repubblica, 5 maggio 2006.
[17] McDougall J. (1990), A favore di una certa anormalità, in A favore di una certa anormalità, Roma, Borla, 1991, 247-251.
[18] Op.cit., 251.
[19] Freud S. (1919), Il perturbante, in O.S.F., vol. IX, Boringhieri, Torino, 1976.
[20] Milner M. (1987), Winnicott e il viaggio di andata e ritorno, in La follia rimossa delle persone sane, Roma, Borla, 1992, 312-318.
[21] Milner M. (1987), Il ruolo dell’illusione nella formazione del simbolo, in La follia rimossa delle persone sane, cit., 115.
[22] Khan M. (1983), Infanzia, solitudine e follia, in I sé nascosti, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, 196-197.
[23] Vergine A., De Silvestris P., Il delirio della psicoanalisi, in Soggetti al delirio, a cura di Balsamo M., Milano, Angeli, 2000; Bodei R. (2000), Le logiche del delirio, Roma-Bari, Laterza.
[24] Lacan J. (1975), Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Torino, Einaudi, 1982.
[25] Fedìda P. (2007), Umano/Disumano, Roma, Borla, 2009, 70-71.
[26] Freud S. (1937), Costruzioni in analisi, in O.S.F., vol. XI, Torino, Boringhieri, 1981, 551.
[27] Op.cit., 551.
[28] Op. cit., 552.
[29] Op.cit., 553.
[30] Op.cit., 542-543.
*Per citare questo articolo:
Russo L., (2024) “Follia, sogno e metodo analitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 201-219
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