Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Riccardo Romano
(Catania) è psicoanalista dell’International Psychoanalytic Association. È stato Presidente del Centro di Psicoanalisi di Palermo, membro della redazione di Psiche ed a sua volta ha fondato la Rivista Public/azione ove numerosi sono i suoi contributi. Laureato in storia e filosofia, ha operato come Psicologo e da sempre si occupa anche di psicoanalisi di gruppo. Ha fondato L’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (I.I.P.G.). Numerosi sono stati i suoi contributi all’attività scientifica della SPI e dei vari Centri Psicoanalitici oltre che presso l’Università di Catania ed altre Associazioni del settore. Tra le sue pubblicazioni, nel 2017 è uscito il volume Psicoanalisi di Gruppo: Teoria, Tecnica, Clinica (Rêverie, Catania). Del 2024 è il volume Nuove proposte psicoanalitiche, in cui è presente questo lavoro (Rêverie, Catania).
*Per citare questo articolo:
Romano R., (2024) “Il metodo psicoanalitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 62-90
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Premetto che ho intenzione di rispondere alle domande poste dal Centro Veneto senza formulare altre domande, perché sarebbe un modo per non rispondere, come abbiamo la cattiva abitudine di fare con i nostri pazienti rispetto alle loro domande. Intendo rispondere perché le domande poste sono essenziali in quanto sono domande di vita o di morte… della psicoanalisi. Affermo subito la mia posizione al riguardo: non credo che la psicoanalisi sia morta o moribonda e neanche in crisi, ma è viva e vitale con eccellenti prospettive come cercherò di dimostrare con quanto dirò di seguito. La psicoanalisi soffre soltanto di una confusione creatale da alcune forme di psicoterapie vecchie e nuove che continuano a chiamarsi psicoanalisi.
È naturale che possano essere pensati insiemi diversi [da quello proposto da Semi: teoria, esperienza psichica, metodo, tecnica], costruendo altri vertici o tagliandone alcuni, ma perché chiamarli “psicoanalisi”? Non sarebbe più logico che ogni differente insieme riconoscesse questa condizione di differenza attribuendosi innanzitutto un nome diverso?[1]
Ho avuto tanti maestri, ma il principale è stato Francesco Corrao, il quale mi ha trasmesso, oltre all’amore per la psicoanalisi, una attenzione a distinguere la psicoanalisi dallo psicoanalismo. Per Corrao la psicoanalisi ha come punto di partenza una rottura epistemologica, non una tantum ma ogni giorno, ogni seduta.
Rottura epistemologica. Rottura della logica convenzionale, privilegio dell’ambiguo, dell’illusorio, del finzionale scenico, l’impressione del sosia o del gemello, la messa in gioco di inversioni, come appunto una società rovesciata, un individuo rovesciato, sostanziano in verità l’esperienza autentica della psicoanalisi [come è ben descritto per Corrao nel film di Luis Buñuel Il fantasma della libertà].
L’utilizzazione della logica aristotelica canonica, l’entificazione teoretica, la razionalizzazione codificata, direi adesso, sostanziano lo psicoanalismo. Riprendendo l’accenno già fatto, direi che la direzione del vettore relazionale dall’interno all’esterno e il riconoscimento del mondo esterno a partire da un riconoscimento o una consapevolezza di un mondo interno realizzano il processo psicoanalitico vero. Lo psicoanalismo è il percorso inverso falsificato: partire da un mondo esterno […] «per spiegare» razionalmente il mondo interno.[2]
Corrao precisa anche il rapporto della psicoanalisi col sociale:
Lo «specifico» della situazione analitica è un esercizio di conoscenza o di consapevolezza relazionale la cui condizione di base consente una trasformazione e ricomposizione non solo dell’universo epistemico interno in quanto riferito all’individuo, ma dell’universo epistemico in generale in quanto riferito al sociale, con la conseguenza necessaria di una possibilità e libertà di comprensione e decisione amplificata rispetto alla realtà oggettiva della politica.[3]
Ancora Corrao mette in relazione la psicoanalisi e la libertà e lo spirito rivoluzionario:
La psicoanalisi è libertà dalle costrizioni epistemologiche prefissate o prescritte. Essa può utilizzare un tipo di discorso immaginativo, fantasmatico, finzionale libero da obbligazioni, senza pregiudizio alcuno per lo sviluppo del processo esperienziale, conoscitivo, trasformativo e relazionale che la caratterizza specificamente, rendendo possibile l’attuazione e la crescita dello «spirito rivoluzionario», per la realizzazione di una «rivoluzione permanente».[4]
L’eredità connessa alla concezione della psicoanalisi come libertà mi ha lasciato il convincimento che scoprire di avere idee proprie ed emozioni proprie, e scoprire quali idee e quali emozioni, e capire che possiamo aiutare un paziente o due pazienti o un gruppo di pazienti a scoprire di avere idee ed emozioni proprie, e quali idee ed emozioni, è il fatto più entusiasmante che possa capitare ad uno psicoanalista al lavoro.
Risponderò quindi alla domanda centrale che riguarda il metodo della psicoanalisi.
Desidero innanzitutto comunicare il metodo di cui mi servirò per ricercare la specificità del metodo psicoanalitico. Non mi servirò del metodo razionalista ipotetico-deduttivo assiomatico perché ritengo che esso sia solo il preliminare a un metodo più complesso e completo. Non mi servirò del metodo irrazionalista banale che resta su se stesso e non porta a niente. Non utilizzerò il metodo induttivo né il metodo deduttivo, utilizzerò invece il metodo derivante dalla logica abduttiva di Peirce. Egli, in modo deciso e forse perturbante, afferma che
Ma noi dobbiamo conquistare la verità, indovinando o in nessun altro modo.[5]
Quindi per indovinare possiamo utilizzare il metodo abduttivo, infatti l’abduzione, secondo Peirce, è l’unica forma di ragionamento suscettibile di accrescere il nostro sapere, ovvero permette di ipotizzare nuove idee, di indovinare, di prevedere. Peirce evidenziò la natura probabilistica di tutti i procedimenti scientifici che, come tali, devono avvalersi delle tecniche di campionamento.
Cioè nella stanza del metodo psicoanalitico scoprirò tanti oggetti cognitivo – emotivi diversi, sui quali, raccolti in un insieme, applicherò la nostra regola fondamentale delle associazioni per raggiungere una chiarezza più profonda e pluridimensionale.
Freud non scrive mai del metodo psicoanalitico, ma del metodo derivante dalla dottrina catartica. La cosa per noi importante e che ci descrive il passaggio dal metodo catartico alla psicoanalisi. La descrizione del passaggio è affascinante. Scrive Freud:
Inoltre a chiunque si interessi dell’evoluzione che dalla catarsi ha portato alla psicoanalisi, non saprei dar miglior consiglio che cominciare con gli Studi sull’isteria, effettuando così il cammino da me stesso percorso.[6]
E continua dicendo:
D’altra parte non ho alcun motivo che mi possa spingere a eliminare questa testimonianza delle mie opinioni inziali. Anche oggi non considero queste come errori, ma come prime importanti approssimazioni a conoscenze acquisibili in modo più completo soltanto dopo sforzo prolungato e continuato.[7]
E aggiungo insieme alla genialità di una mente aperta e curiosa. Freud capisce che il metodo ipnotico della dottrina catartica, non è altro che esercitare una certa pressione sul malato. Pressione fisica e psichica, e scopre che non ha grande effetto, e scopre che il malato ha lui il bisogno di esercitare una certa pressione sul medico. È questa la geniale rivoluzione di prospettiva che porterà alla psicoanalisi. Smette quindi di esercitare pressione sul malato e si dispone ad ascoltare ogni tipo di comunicazione pressante venga dal malato. Egli scarica la sofferenza fisica e mentale, preme perché venga accolta e non rintuzzata difensivamente. È evidente che il malato sofferente vuole arrivare ad altro. Freud scopre meravigliandosi che il paziente ha bisogno urgente di raccontare i sogni che fa la notte. Si accorge che i racconti del paziente hanno uno scarso valore euristico, si tratta di fatti banali soprattutto di dimenticanze, di lapsus, di battute il cui senso e il cui valore sono da scoprire, allo stesso modo del significato profondo dei sogni. Siamo finalmente alla scena di Edipo-analista di fronte alla sfinge-paziente. Certamente il paziente vuole che l’analista parli dell’uomo ma in modo più completo, comprendendo anche qualcosa che va oltre la coscienza. Freud scopre il dilemma scientifico di trovarsi di fronte a un Inconscio che per tradizione culturale filosofica è inconoscibile e che tuttavia dà segni di sé proprio nelle persone malate e sofferenti. Si tratta quindi di attrezzarsi a trovare il modo di raggiungere l’inconscio conoscibile. Abbiamo quindi l’oggetto specifico della psicoanalisi: l’Inconscio. Si tratta allora di trovare un metodo per raggiungerlo. Infatti è bene ricordare che la definizione esatta e precisa del metodo è «il modo migliore per raggiungere uno scopo» attraverso prescrizioni relative allo svolgimento di un’attività in modo ottimale al fine dell’acquisizione della certezza in campo conoscitivo.
Abbiamo quindi la prima definizione del metodo psicoanalitico: un metodo che deriva da un altro metodo attraverso una trasformazione sostanziale della concezione e della tecnica della prassi terapeutica. Quindi il metodo della psicoanalisi è trasformativo.
Tuttavia, se potessimo chiedere a Freud qual è il metodo della psicoanalisi risponderebbe, ne sono sicuro, che esso è uguale al metodo scientifico. Cercherò quindi di capire qual è il metodo scientifico che si può assimilare in tutti o molti dei suoi punti al metodo della psicoanalisi. Scelgo di seguire, per scoprire gli aspetti del metodo scientifico che più mi sembrano interessanti al fine di paragonarli al nostro metodo, la psicogenesi delle scienze studiata da Piaget.
Egli attraverso la sua epistemologia genetica considera la scienza necessariamente evoluzionistica, ma soprattutto Piaget è stato il sostenitore che è impossibile costruire una teoria soddisfacente della scienza che sia statica. Questa impresa sempre in divenire non può essere compresa se non attraverso una dinamica. […] L’epistemologia genetica è una delle prime auto applicazioni della scienza a se stessa.[8]
Quel che interessa al mio scopo è che la scienza e quindi il suo metodo è evolutivo e dinamico. Per similitudine asserita da Freud possiamo aggiungere queste altre due qualità al metodo della psicoanalisi: evolutivo e dinamico.
Un’altra auto applicazione della scienza a se stessa è data dalla concezione scientifica di Popper.[9] Per Popper una scienza ha un alto grado di attendibilità come tale se è possibile rintracciare una falsificabilità interna. Tuttavia il falsificazionismo è distinto in due forme: 1) il falsificazionismo ingenuo per cui una scienza verrebbe falsificata mediante una esperienza, cioè
quando un enunciato che esprime il risultato di un’osservazione è contraddittorio rispetto a un enunciato della teoria[10]
che un seguace di Popper, Lakatos, critica perché non ci sarebbero esperienze cruciali (experimentum crucis) che possano immediatamente far cadere una teoria.[11] 2) il falsificazionismo raffinato di Popper, ripreso e sostenuto da Lakatos, per cui una teoria è falsificata da un’altra teoria della stessa scienza, non da una esperienza. Da questo metodo scientifico non riesco a trovare un oggetto significativo nella stanza del metodo psicoanalitico, contrariamente ai metodi che seguono. Ad esempio due allievi di Popper alla London School, Kuhn e Feyerabend, lo contestano e lo superano. Da Kuhn ricaviamo diversi oggetti di qualità del metodo.[12] Intanto attraverso il temporalismo delle scienze e dei loro metodi. Egli considera che nessuna scienza abbia un progresso lineare ma discontinuo.
Lo sviluppo della scienza resta così caratterizzato da Kuhn come una successione di periodi più o meno lunghi di «scienza normale» con degli intervalli eccezionali di «scienza rivoluzionaria».[13]
Il metodo scientifico è temporale, cioè soggetto al tempo che passa e ciò che tiene la continuità è la memoria della scienza e quindi il metodo scientifico riesce a mantenere una memoria, nelle evoluzioni temporali, di ciò che ha capito e di ciò che è riuscito a fare. Kuhn è conosciuto come l’ideatore del concetto di paradigma che ogni buon metodo scientifico deve avere e rispettare, tuttavia egli ha finito col ricondurlo a due tipi di paradigma:
come «un corpo caratteristico di credenze e di concezioni che comprendono tutti gli impegni condivisi [“shared commitments”] da un gruppo scientifico».[14]
Quindi, secondo quanto sto cercando, un metodo scientifico corretto ha una matrice etica, cioè una responsabilità del metodo stesso.
Feyerabend ha una posizione personale riguardo il metodo scientifico, in particolare scrive:
L’idea di un metodo che contenga princìpi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica.[15]
Nel senso che non c’è stata una norma per quanto radicata nell’epistemologia che non sia stata violata qualche volta, e che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico, e che queste violazioni si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche «ovvie» o perché involontariamente le violarono.”[16]
L’attacco al metodo che porta avanti Feyerabend non è per squalificarlo o irriderlo, ma per arricchirlo di complessità. Il metodo non può essere virtuoso perché come dice Robespierre «La virtù senza il terrore è inefficace».
È molto difficile e forse del tutto impossibile, combattere gli effetti del lavaggio del cervello col ragionamento. Persino il razionalista più rigido sarà allora costretto a smettere di ragionare e a usare la propaganda e la coercizione, non perché alcune fra le sue ragioni abbiano cessato di essere valide, ma perché sono scomparse le condizioni psicologiche che le rendevano efficaci e capaci di influire sugli altri. E qual è l’utilità di un’argomentazione che non riesce a convincere la gente?[17]
Che interessi, forze, propaganda e tecniche di lavaggio del cervello svolgano nella crescita della nostra conoscenza e nella crescita della scienza un ruolo molto maggiore di quanto non si ritenga di solito si può desumere anche da un’analisi del rapporto fra idea e azione.
Si ritiene che prima abbiamo un’idea e dopo agiamo, cioè parliamo, costruiamo o distruggiamo, ma non è così per i bambini che prima giocano, e dalla pratica del gioco si fanno un’idea, e conoscono e comprendono.
E l’attività iniziale di gioco è un presupposto essenziale dell’atto finale della comprensione.[18]
Lo stesso vale per lo scienziato, quindi il gioco appartiene al metodo scientifico e quindi al metodo psicoanalitico. La scienza e a maggior ragione quella psicoanalitica dovrebbe occuparsi di più dei bambini, e non mi riferisco ai bambini malati o non malati che vengono usati come cavie, ma a tutti i bambini, ai quali è stato tolto da questa civiltà occidentale il diritto di essere bambini e si pretende che siano adulti anche nel gioco. Certo loro sono abili in tutti i giochi più attuali, ma lo fanno per gioco, ed invece si pretende che siano già adulti nel distruggere e nello scambio commerciale.
Quando tentiamo di descrivere e comprendere gli sviluppi della ricerca scientifica, in particolare quando dobbiamo descrivere una nuova scoperta, siamo costretti ad un uso arbitrario del linguaggio in uso e ad avere la propensione di inventare anche neologismi. Il metodo scientifico è inevitabilmente pieno di neologismi.
Feyerabend è contro l’empirismo, infatti egli scrive che se consideriamo la norma secondo cui è l’“esperienza”, ovvero sono i “fatti” o i “risultati sperimentali”, a misurare il successo delle nostre teorie; secondo tale norma l’accordo fra una teoria e i “dati” è un elemento a favore della teoria […] mentre il disaccordo va a danno della teoria e forse ci costringe addirittura a eliminarla. Questa norma è una parte importante di tutte le teorie di conferma e di convalida. È questa l’essenza dell’empirismo. […] Uno scienziato che desideri massimizzare il contenuto empirico delle sue opinioni e che voglia comprenderle nel modo più chiaro possibile deve perciò introdurre altre opinioni.[19]
Feyerabend è per un metodo dialettico, ma non dialogico anche se ha scritto un delizioso Dialogo sul metodo[20], è per una metodologia pluralistica in cui si mettono a confronto idee con altre idee. Quindi la conoscenza è un oceano, sempre crescente di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili): ogni singola teoria, ogni favola, ogni mito che fanno parte di questa collezione costringono le altre a una maggiore articolazione, e tutte contribuiscono, attraverso questo processo di competizione, allo sviluppo della nostra coscienza.[21]
Feyerabend ritiene che la scienza sia molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Un suo esame rivela che scienza e mito si sovrappongono in molti modi e che le discrepanze fondamentali sono il risultato di obiettivi diversi anziché di metodi diversi.
Allora ho subito pensato a quanto scrive Bion:
Il mito può essere considerato una forma primitiva di pre-concezione ed uno stadio della pubblicizzazione cioè della comunicazione, da parte dell’individuo, della sua conoscenza privata al suo gruppo. Ogni teoria scientifica deve alla fine essere rappresentata da un mezzo che faciliti la pubblicizzazione.[22]
In Cogitations Bion definisce meglio questo concetto, per cui il mito facilità la pubblic/azione, che è una componente essenziale del metodo scientifico e del metodo psicoanalitico.[23]
La cosa per me importante è che una delle funzioni principali del mito è quella per cui un individuo, attraverso un qualsiasi riferimento al mito può avere un senso di appartenenza al proprio gruppo e quindi ricavarne una certezza di riconoscimento. Questo è molto importante nella scienza, che gli scienziati possano riconoscersi tra di loro. Così come dovrebbe accadere tra gli psicoanalisti.
L’ultimo oggetto della stanza del metodo che ricavo dal pensiero di Feyerabend è quello della passione. Egli afferma che il processo della ricerca scientifica non è guidato da un programma ben definito, ma piuttosto da un vago impulso, da una «passione» che crea le circostanze e le idee necessarie per spiegare il processo.
La passione nel metodo scientifico mi fa venire in mente l’entusiasmo appassionato di Galileo Galilei quando nel 1600 venne a conoscenza del libro De magnete di William Gilbert, non tanto per le scoperte sul magnetismo, ma per il fatto di descrivere Gilbert come fondatore del metodo scientifico sperimentale.
Questa deve essere stata musica per le orecchie di Galileo, quando lesse l’opera di Gilbert.[24] Infatti, del tutto indipendentemente dall’importanza delle scoperte che fece, il contributo fondamentale di Galileo alla nascita della scienza consistette precisamente nell’enfasi posta sulla necessità di esperimenti accurati e ripetuti per mettere alla prova le ipotesi, in contrapposizione all’antico metodo «filosofico» che si proponeva di comprendere i meccanismi del mondo mediante la pura logica e la sola ragione.[25]
Il metodo scientifico scoperto da William Gilbert, e specificato e utilizzato da Galileo, raffermava semplicemente di compiere osservazioni accurate e ripetute in diretta.
Ma questo non è altro che il metodo della psicoanalisi, per cui osserviamo accuratamente e ripetutamente i pazienti in presenza. La rivoluzione scientifica è stata proprio quella di osservare da vicino e direttamente, e solo direttamente senza i pregiudizi filosofici, i fenomeni del mondo. So bene che qualcuno potrebbe dire che anche Galileo osservava con un medium: il cannocchiale che lui stesso aveva inventato, ma è come dire che Galileo avendo in presenza le lune di Giove le allontanasse, costretto poi ad usare il cannocchiale per poterle osservare. Galileo, però, non aveva in presenza le lune di Giove, mentre invece noi sì abbiamo i pazienti in presenza e se li allontaniamo, abbiamo poi bisogno di uno o più mezzi tra noi e loro per poterli osservare.
Abbiamo raccolto, quindi, diversi oggetti nella stanza del metodo, oggetti che sono poi qualità del metodo stesso scientifico e psicoanalitico.
Il metodo che cerchiamo di definire deve essere: trasformativo, evolutivo, dinamico, temporale, pluralistico, non virtuoso, in presenza. E deve anche avere: memoria, etica, gioco, mitopoiesi, neologismi, pubblic/azione.
Non basta, però; altri aspetti completano il metodo psicoanalitico.
Etchegoyen afferma che ogni metodo diverso possiede materiali e strumenti propri. Ad esempio la psicoterapia usa come materiali le lamentele oltre che i bisogni dei pazienti, e come strumenti: suggestione, abreazione, manipolazione,
rassicurazione, sostegno; molti di più della psicoanalisi che come materiale usa principalmente le associazioni libere dei pazienti, e come strumenti soltanto la chiarificazione e l’interpretazione perché, come precisa Bibring, solo queste
operano attraverso l’insight.[26]
In verità, poiché cerchiamo di correggere l’immagine del passato in questo modo, già cominciamo a operare con fattori suggestivi o di sostegno. Per essere precisi diciamo che lo psicoanalista utilizza di fatto gli strumenti che Bibring chiama tecnici [suggestione, abreazione, manipolazione], senza per questo riconoscere loro un posto del tutto legittimo nel metodo.[27]
Ciò che è importante capire da queste considerazioni è che è necessario, malgrado le possibili confusioni, distinguere la psicoterapia dalla psicoanalisi, per non commettere l’errore di usare in psicoterapia strumenti della psicoanalisi, e viceversa non commettere l’errore di usare in psicoanalisi gli strumenti della psicoterapia.
È necessario anche chiarire la differenza tra materiali e strumenti.
Riguardo al materiale, direi che dobbiamo circoscriverlo a quello che il paziente dà con l’intenzione (conscia o inconscia) di informare l’analista sul suo stato mentale. In questo modo rimarrebbe fuori quel che il paziente fa o dice non per informare ma per dominare il terapeuta o influire su di lui. Questa parte del discorso del paziente deve essere concepita come acting out verbale e non come materiale […] è più esatto dire che il discorso contiene sempre insieme le due parti e, di conseguenza, le comprende entrambe. Se ogni comunicazione del paziente include questi due fattori, sarà allora parte della tecnica analitica discriminare fra quello che il paziente dà per informarci e quello che ci fa con la sua comunicazione. E questa discriminazione non cambia se quel che “fa” il paziente può essere trasformato dall’analista e compreso come materiale, perché la classificazione non è funzionale ma dinamica, cioè ha a che fare con il desiderio del paziente, con la sua fantasia inconscia. In altre parole, senza che ve ne sia l’intenzione, l’acting out del paziente può fornirci delle informazioni.
Anche riguardo agli strumenti bisogna stabilire la stessa differenza e privare di questo carattere gli interventi dell’analista che non abbiano per finalità lo sviluppo del processo terapeutico. Questi interventi devono essere chiamati, per essere giusti, acting out dell’analista (contro-acting out).[28]
A questo punto non resta che presentare e confermare l’elemento più importante, fondamentale, necessario, ineludibile del metodo psicoanalitico. L’elemento che rende ogni strumento, tecnica, qualità, prassi, meno importante: l’acquisizione e la trasmissione della funzione analitica, che si ricava soltanto attraverso l’analisi personale e non si può acquisire attraverso lo studio sui libri o imparando dall’ascolto di dotte lezioni. La funzione analitica si acquisisce soltanto attraverso una esperienza artigianale di un rapporto profondo tra chi possiede già, per averlo ricevuto, la funzione analitica e chi ha bisogno, voglia, desiderio, disponibilità ad acquisirlo. Ma non è possibile acquisirlo per mezzo di mischiamenti, imitazioni o psicoanalismi, è perciò fondamentale che chi trasmette la funzione analitica, l’abbia fatta propria in modo stabile e scientificamente accertato. Questa mia sottolineatura è dovuta ad un mio studio sulla deperibilità della funzione analitica. Non basta averla acquisita perché si può perdere facilmente e senza accorgersene, sia per un fatto interno alla verità della funzione analitica come precisava Freud in Analisi terminabile e interminabile, sia per un fatto naturale come ho precisato.
È necessario quindi considerare la funzione analitica come una funzione mentale nuova non esistente naturalmente nell’uomo, che la psicoanalisi crea ex novo, e che è stata scoperta e messa al servizio dell’umanità da troppo poco tempo, per cui non è stata ancora registrata in modo stabile nel patrimonio psichico dell’uomo. Pertanto la mia ipotesi è che la funzione analitica, intesa come la proprietà della mente di conoscere e modificare se stessa tramite la relazione analitica che la crea ex novo, è deperibile.[29]
Questo fenomeno della deperibilità mette in crisi il vissuto dell’onnipotenza della psicoanalisi sia nel paziente sia soprattutto nell’analista, che dovrà fare i conti con un atteggiamento di umiltà come insegna lo stesso Freud.
Non avremmo il diritto di meravigliarci se alla fin fine risultasse che la differenza di comportamento fra una persona non analizzata e colui che si è sottoposto a un’analisi non è poi così radicale come vorremmo, come ci attenderemmo, e come affermiamo che in effetti sia.[30]
Quindi, dovremmo comportarci così come l’uomo ha mantenuto il fuoco attraverso l’umiltà di non controllare la sua perdita, ma di accettarne l’inevitabile consumo e deperimento. Inoltre, lo ha mantenuto non con la costruzione di una tecnica che onnipotentemente avrebbe dovuto controllare, ma con l’accresciuta capacità degli uomini di stabilire relazioni tra loro, motivate da un obbiettivo comune. Così gli psicoanalisti possono mantenere o recuperare la funzione analitica deperibile, non con la costruzione di una tecnica che avrebbero dovuto controllare, ma con la consapevolezza della necessità di stabilire relazioni tra loro. È ormai certo che gli psicoanalisti non possono svolgere la loro attività psicoanalitica isolati, da soli.
Allora il fatto importante da comprendere è che la funzione analitica parte da un gruppo e dipende da un gruppo per mantenersi o salvarsi. Dipende da un gruppo nel senso che chi deve trasmettere, lo psicoanalista, deve essere formato ad acquisire la funzione analitica da un gruppo che ha il compito di mantenerla viva e vera, come un fuoco che si mantiene grazie ad un accoppiamento da cui nasca la capacità di riacquisirlo, e da un gruppo che sia in grado di salvaguardarlo e mantenerlo.
È ora di rispondere al quesito posto sull’oggetto della psicoanalisi.
Sono convinto che l’Oggetto della psicoanalisi sia l’Inconscio, tuttavia c’è un altro oggetto della pratica psicoanalitica che vale la pena ricordare. Questo oggetto nasce dalla relazione analitica ed è l’oggetto dell’interpretazione analitica. Scrive Bion:
Gli elementi psicoanalitici e gli oggetti da essi derivati hanno le seguenti dimensioni:
Un’interpretazione non può essere considerata soddisfacente se non illumina un oggetto psicoanalitico, e quell’oggetto deve, al momento dell’interpretazione, possedere queste dimensioni […]. In altre parole, quando l’analista dà un’interpretazione, deve essere possibile all’analista e all’analizzando vedere che ciò di cui egli parla, è udibile, visibile, palpabile o odoroso in quel momento.[31]
Tutto ciò è più evidente se si segue la trasformazione operata da Corrao, e cioè modificare il campo del senso in quello della memoria. Infatti ricorda Corrao che i sensi hanno una importanza notevole per la memoria che tuttavia compie una operazione ricategorizzante i dati sensoriali memorizzati in connessione ad una intenzionalità. Nella nostra mente non ci sono ricordi specifici, ci sono solo i mezzi per riorganizzare impressioni passate. I ricordi non sono fissi ma sviluppano costantemente generalizzazioni, ricreazioni, costruzioni del passato. Il ricordo è una ricostruzione o meglio una costruzione immaginativa e affettiva.
Sin dagli inizi la psicoanalisi pratica ha impiegato le sue tecniche al fine di giungere all’amplificazione della coscienza, attraverso la liberazione e la mobilizzazione delle memorie scomparse o cancellate, dei ricordi pietrificati e sepolti, operando nel senso di rendere permeabile – nei limiti del possibile – la barriera di contatto esistente tra gli stati (o strati) inconsci della mente e quelli consci, e/o viceversa.[32]
La seconda dimensione dell’oggetto analitico è quella del mito, che è strettamente collegata al sogno e alla fantasia. Bion definisce componente «come se» le mitologie personali che sono indispensabili al procedimento scientifico analitico. Per me la creazione del mito personale (o della coppia analitica, o del gruppo) rappresenta la possibilità di ritornare dall’Ade, dopo esservi stati e avere visto, tornare per raccontare. La fantasia, la poesia, il mito, il sogno, rappresentano il biglietto di ritorno di un viaggio all’inferno; rappresentano la libertà del ritorno dall’inconscio o dal rimosso. Si pensi alle leggende metropolitane che rappresentano il racconto dei livelli inconsci delle città rispetto all’agito alienante e violento del vivere in città. Un’altra caratteristica del mito è rappresentata dalla sua proprietà trasformativa unificante, che è quella operazione connettiva e collettiva che è poi la funzione creatrice del «senso comune» nel singolo come nel gruppo. Il mito quindi come mitopoiesi.
Per quanto riguarda la terza dimensione dell’oggetto analitico, preferisco sostituire il termine «passione» con quello di «affetti», perché passione ha per me un significato specifico all’interno del campo degli affetti, così come i sentimenti e le emozioni. Credo che un modo corretto di concepire gli affetti sia in relazione alla teoria delle trasformazioni: gli affetti sono trasformazioni delle pulsioni.[33] È la pertubante definizione di Freud. Scrive Corrao che a partire dalla teoria delle trasformazioni è stato dato rinnovato interesse allo studio della dinamica e della cinetica dei fenomeni affettivi. La psicoanalisi è stata attratta sempre più dalla intenzionalità piuttosto che dalla estensionalità, e per gli aspetti comunicazionali degli affetti, e per il loro potere di influenzamento interattivo.
Per queste sue caratteristiche l’interpretazione dell’oggetto analitico non può che essere motivata in direzione della pensabilità intesa come invenzione, creazione, opzione diversa rispetto all’agire, liberazione dalla schiavitù del dover negare o agire gli affetti, tentativo di creare le condizioni per l’incontro, o meglio lo scontro con il pensiero, perché l’immissione del pensiero sull’azione è sempre drammatico, mai dolce. Per studiare l’oggetto analitico e descriverlo, per interpretarlo ed innanzi tutto per pensarlo, dobbiamo riferirci alle leggi della complementarietà e della indeterminazione. Vale a dire che l’oggetto analitico, l’oggetto della interpretazione analitica, non può essere l’oggetto pensato, ma l’oggetto pensabile, ed è per questo che affermo che il vero oggetto della psicoanalisi, accanto all’Inconscio, è la pensabilità.
Chi è il responsabile del pensiero? Ma questo interrogativo apre un nuovo e diverso problema collegato alla pensabilità: la dimensione etica. Quindi l’oggetto psicoanalitico si estende anche nel campo dell’etica come una quarta dimensione della quale bisogna tener conto nell’interpretazione, nel senso che bisognerebbe astenersi dall’interpretare un oggetto psicoanalitico se non è certo o individuabile il responsabile o i responsabili di quell’oggetto creato dalla situazione analitica.[34]
Non resta che rispondere all’ultima domanda sugli Inconsci.
Per me è chiaro che esistano diversi Inconsci. Prima di tutto l’Inconscio rimosso o inconscio conoscibile, e non ha molto senso chiamarlo Inconscio dinamico perché ogni concezione, ogni teoria, ogni pensiero tecnico, ogni pensiero clinico di Freud si basa sulla psicologia dinamica anche quando accenna all’Inconscio non rimosso. Così viene chiamato l’Inconscio irraggiungibile perché costituitosi nei primi periodi della vita, quando non esiste ancora un apparato per pensare e quindi è impossibile una memoria rappresentativa. Tuttavia il raggiungimento dell’Inconscio non rimosso è una meta della ricerca psicoanalitica avanzata attuale. Peccato che sembra sia smarrita o sotto silenzio la ricerca avviata da Mauro Mancia, che scriveva a proposito del ruolo che avevano nella creatività la memoria implicita e l’inconscio non rimosso.[35]
Ma esistono altri Inconsci. La mia ricerca sulla psicoanalisi di gruppo mi ha portato a stabilire che se si vuole parlare di psicoanalisi si deve parlare inevitabilmente di Inconscio e se si parla di gruppo si deve parlare di inconscio di gruppo, ma non basta perché bisogna dimostrare che esista l’Inconscio di gruppo o gli Inconsci di gruppo.
Il gruppo è uno strumento particolarmente utile a studiare l’inconscio. L’analista nel gruppo è più libero di osservare e di occuparsi del livello inconscio perché al resto, la terapia e l’ascolto attento delle comunicazioni fattuali, ci pensa il gruppo stesso. Infatti il gruppo sa autocurarsi ed è capace di dare attenzione ai problemi reali esterni e a provvedere da sé a rassicurare l’ansia realistica. L’analista invece può dedicarsi all’ascolto del metalinguaggio (ascolto dell’ascolto), delle relazioni intrapsichiche e intragruppali. Può individuare, riconoscere e seguire i gruppi assenti, riconoscere e analizzare i sogni del gruppo, oltre le dinamiche proprie dei gruppi come gli assunti di base.[36]
La ricerca sulla Psicoanalisi di gruppo condotta da me da quasi quarant’anni ed iniziata con una supervisione coraggiosa di Corrao, non più di un gruppo esperienziale, ma di un gruppo terapeutico psicoanalitico e proseguita con una sperimentazione clinica di due gruppi pluritrentennali, ha due principi di base totalmente rientranti nel metodo psicoanalitico. Uno è la concezione di un insieme autonomo di parti separate, ne chiarirò l’importanza globale tra poco; e il secondo principio è la constatazione dell’esistenza dei gruppi interni che sono sempre presenti nella vita di ogni essere umano. La prima idea di questo assunto l’ho ricavata dall’ascolto di un lavoro di Aldo Costa sulla presenza di un gruppo interno costituito dai suoi pazienti.[37]
Ritornando al discorso sull’Inconscio di gruppo bisogna stabilire:
Se il gruppo è considerato un semplice aggregato di singoli, allora l’inconscio del gruppo è descritto come l’insieme degli inconsci dei singoli; se invece si ritiene che il gruppo sia un’autonoma entità psichica diversa dalla somma dei singoli, allora l’inconscio di gruppo è da ricercare in un sistema altro, diverso da quello dei singoli, ma non completamente staccato da essi […]. Ogni individuo che entri a far parte di un gruppo porta con sé dei gruppi interni derivanti dalle proprie esperienze di vita che avranno una componente conscia e una inconscia […]. Quindi, l’inconscio dell’analista del gruppo e l’inconscio dei gruppi assenti dei partecipanti costituiscono il patrimonio inconscio non rimosso del gruppo. Poi c’è l’inconscio rimosso che si va costituendo nell’esperienza quotidiana di quel piccolo gruppo. I sogni raccontati dai singoli partecipanti attingono dall’inconscio individuale del narrante, ma in misura maggiore dall’inconscio del gruppo. Ciò è determinato ancor più dal fatto che il sogno del singolo viene dal gruppo lavorato come sogno del gruppo, attraverso sovrapposizioni (condensazioni), ampliamenti (spostamenti) creativi, non interpretativi.[38]
Le manifestazioni cliniche della presenza e attività dell’inconscio di gruppo sono molteplici, accennerò ad una forma consueta anche per l’inconscio dell’individuo: la rimozione. Ci sono nel gruppo delle situazioni istantanee o costruite nel tempo in cui tutti finiscono col concordare di aver capito un preciso fatto gruppale con chiarezza e sicurezza, ma dove si annida una sorda opposizione della coscienza del gruppo. Capita che col tempo questa convinzione comune su un fatto comune si dimentichi e il gruppo si dibatta tra incertezze di acquisire un convincimento, ma quando il Conduttore analista interviene: «Ma avete dimenticato che su questo fatto eravate tutti d’accordo?», il gruppo sorpreso riconosce di aver dimenticato una convinzione comune che quindi era stata rimossa dalla coscienza e posta nell’inconscio comune.
Il gruppo, comunque, se ha un inconscio proprio, deve anche avere una psiche propria alla quale l’inconscio appartiene. Anche in questo caso è necessario reperire la prova della sua esistenza, la quale si può ricavare dalla presentazione dell’esistenza di tutte le funzioni proprie di una psiche anche per la psiche di gruppo. Tra queste accenno alla funzione gamma descritta da Corrao la quale, similmente alla funzione alfa dell’individuo, è capace di trasformare le sensazioni o le emozioni del gruppo in pensieri e sogni del gruppo stesso.[39] Esistono anche le difese proprie del gruppo, sia quelle irrazionali denominate Assunti di base, sia le difese proprie dell’Io gruppale. Così pure le resistenze del Super-Io e dell’Es gruppale, come del conscio e del preconscio del gruppo.
Tutto quanto detto a proposito della psicoanalisi di gruppo vale allo stesso modo per la psicoanalisi della Coppia. Anche questa ha un Inconscio di coppia autonomo dagli inconsci dei singoli, e anche la coppia ha quindi una propria psiche con tutte le proprietà di una psiche autonoma. Qui posso solo accennare al sistema complessivo della psicoanalisi dell’Individuo, della Coppia, del Gruppo. Dirò soltanto che l’analista che riesce ad avere introiettato tale sistema complessivo si troverà avvantaggiato nei primi colloqui con i pazienti perché avrà chiara la visione interna del paziente e sarà in grado di cogliere le sofferenze distinte, legate alla psiche individuale o a quelle delle coppie interne o a quella dei gruppi interni del paziente.
La scoperta della possibile creazione in piccoli gruppi si può applicare a tanti aspetti della vita. Ad esempio la dichiarata confusione tra le tante teorie diverse dei diversi Autori psicoanalitici, che è rappresentata come un danno e un pericolo per la psicoanalisi, si può trasformare in una ricchezza propria della psicoanalisi se applicassimo anche in questo caso la possibilità di trasformare la molteplicità
divisiva in un gruppo interno costituito da tutti gli Autori studiati e interiorizzati che vive una dinamica gruppale arricchente la mente dell’analista che riesce a realizzarla. Un altro esempio è dato da questo mio lavoro in cui ho voluto rappresentare un gruppo di voci di tanti miei personaggi interiorizzati, compresa la mia voce, che discutono in un dialogo gruppale sul metodo.
Desidero concludere con una analisi approfondita della concezione propria del piccolo gruppo psicoanalitico.
Esiste una capacità teoretica e pratica propria della psicoanalisi che è evidente nel gruppo ma che è presente in alcune scoperte fondamentali di Freud e che ha una origine nobile in Hegel. Il principio base del piccolo gruppo, secondo la concezione psicoanalitica, è quello per cui un gruppo analitico è un intero autonomo rispetto all’insieme composto dalla somma dei partecipanti, per questo possiamo parlare di inconscio di gruppo, di psiche di gruppo, di funzioni analitiche proprie di gruppo. La realizzazione di tale capacità di concezione del gruppo ha delle conseguenze significative nell’ambito della conoscenza e della terapia trasformativa. Freud ha scoperto la presenza «di un primario e normale narcisismo»[40] nell’individuo per la necessità di condurre svariate pulsioni a numero ridotto.[41] Cioè la necessità di riunire le pulsioni parziali in unità identitaria dell’Io. Le conseguenze del mantenimento delle pulsioni parziali portano alle formazioni perverse, laddove l’unità del narcisismo primario dell’Io consente la realizzazione di una sessualità, che attraverso il processo di maturazione porta dalla sessualità pregenitale alla sessualità matura al servizio della genitalità. Così pure in ambito collettivo esiste un narcisismo primario, di comunità specifiche, in grado di riunire i narcisismi particolari delle piccole differenze in una unità autonoma.
Hegel, nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito,[42] si occupa di capire e precisare le basi dell’Intero, che per lui corrisponde alla Verità e all’Assoluto, che sono molto relativizzati:
allora la posizione del falso diventa essenziale alla posizione del vero. Il falso entra così nella costituzione del vero, come un suo momento, anche se Hegel dirà come un momento “tolto”. […] per Hegel, il falso entra come, “tolto” nella costituzione del vero.[43]
Tutto ciò appartenente allo «spirito dell’inquietudine» di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito.
L’assoluto è il risultato di un processo di unificazione che avrà come conclusione l’Intero, che contiene anche il processo, cioè l’unificazione: l’unità non è in sé divisibile, perché è semplice, ossia elementare, di contro l’unificazione, valendo come una relazione, si costituisce come un composto. La differenza consiste nell’essere l’intero autonomo e l’insieme unificato no, essendo condizionato da tutti gli interessi particolari dei singoli componenti. Tuttavia le due forme dell’intero e dell’unificato non possono coesistere contemporaneamente ma in momenti successivi. L’Intero è autonomo ed ha la capacità di produrre costruzioni nuove, produttrici di miglioramenti e di benessere, esattamente come in fisica fa l’atomo, che può essere visto come composto o come autonomo capace di costruire, insieme ad altri atomi, una molecola, che in chimica può essere analizzata come composta o come autonoma capace di costruire organi. Se riportiamo tutto questo sul piccolo gruppo psicoanalitico significa che possiamo considerare il gruppo come un insieme di persone oppure una entità psichica autonoma, capace di produrre trasformazioni e benessere. È necessario, però, capire quale meccanismo o funzione psichica sia in grado di trasformare un insieme composito in un intero; e questa capacità è data dalla «funzione ponte del mito», cioè la potenzialità del mito di rapportare dinamicamente il tutto con la parte.[44]
Se poi portiamo tutto questo su un piano sociale possiamo capire l’importanza, per qualsiasi società, compresa la società di psicoanalisi, di poter basare la propria struttura di base sui piccoli gruppi psicoanalitici.
Pensiamoci.
Note
[1] A. Semi, La Cura, www.spiweb.it, 2/11/21.
[2] F. Corrao, Psicoanalisi e psicoanalismo. Libertà e non libertà (1975), in Orme, vol. II, Raffaello Cortina, Milano 1998, 20.
[3] Ivi, 23.
[4] Ibidem.
[5] C. S. Peirce, citato in A. Napoli A. e R. Pelizzo R., Metodo e contro-metodo, Armando, Roma 2019, 146.
[6] S. Freud, Studi sull’isteria (1892-95), in Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1967, vol. I, 173.
[7] Ivi, 172.
[8] J. Piaget J. e R. Garcia, Psicogenesi e storia delle scienze, Milano, Garzanti, 1985, 14.
[9] K. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), Torino, Einaudi, 1970.
[10] J. Piaget, op. cit., 294.
[11] I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifica, in Critica e crescita della conoscenza (1970), Milano, Feltrinelli, 1976.
[12] T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino 1969.
[13] J. Piaget J., op. cit., 291.
[14] Ivi, 290.
[15] P. K. Feyerabend, Contro il metodo, Milano, Feltrinelli, 2020, 21.
[16] Ibidem.
[17] Ivi, 22-3.
[18] Ibidem.
[19]Ivi, 26-7.
[20] P. K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Milano, Feltrinelli, 1993.
[21] P. K. Feyerabend, Contro il metodo, Milano, Feltrinelli, 2020, 27.
[22] W. R. Bion, Gli elementi della psicoanalisi (1963), Armando, Roma 1973, 114.
[23] W. R. Bion, Cogitations, Armando, Roma 1996, 46.
[24] W. Gilbert, Loadstone and Magnetic Bodies, and on The Great Magnet of the Earth, trad. ingl. dall’ed. del 1600 di De magnete, Londra, Bernard Quaritch, 1893.
[25] J. Gribbin, L’avventura della scienza moderna, Milano, Longanesi, 2004, 79.
[26] E. Bibring, Psychoanalysis and the Dinamic Psychotherapies (1954), in “Journal of the American Psychoanalytic Association”, vol. 2, 745-70.
[27] R. H. Etchegoyen, I fondamenti della tecnica psicoanalitica, Astrolabio, Roma 1990, 355.
[28] Ivi, 355-56.
[29] R. Romano, La deperibilità della funzione analitica, presentato al XXVI Convegno a seminari multipli, Bologna 1992. In Romano R. in Nuove proposte psicoanalitiche, Catania, Rêverie, 2024.
[30] S. Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), in Opere, op. cit., vol. XI, 510.
[31] W. R. Bion, Gli elementi della psicoanalisi, op. cit., 19-20.
[32] F. Corrao, Modelli psicoanalitici. Mito Passione Memoria, Laterza, Bari 1992, 78.
[33] S. Freud, Metapsicologia (1915), in Opere, op. cit., vol. VIII, 43.
[34] R. Romano, La pensabilità: un oggetto della psicoanalisi, in “Koinos”, Borla, Roma 1995, n. 2, 66.
[35] M. Mancia, Sentire le parole, Torino, Bollati Boringhieri, 2004.
[36] R. Romano, Psicoanalisi di gruppo. Teoria, tecnica, clinica, Catania, Rêverie, 2017, 174.
[37] A. Costa, L’insieme dei pazienti come oggetto interno. Il paziente come oggetto nel gruppo di lavoro, in Rivista di Psicoanalisi, Il Pensiero Scientifico, Roma 1979, n. 1.
[38] Ivi, 175.
[39] F. Corrao, Struttura poliadica e funzione gamma (1981), in Orme, op. cit. vol. I.
[40] S. Freud, Introduzione al narcisismo (1914), in Opere, op. cit., vol. VII, 444.
[41] S. Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, op. cit., vol. XI, 575.
[42] G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura G. Garelli, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2008.
[43] A. Stella, La prefazione alla fenomenologia dello spirito di Hegel, Roma, Aracne, 2021, 16-17.
[44]AA.VV., Il racconto della mente, a cura di R. Romano, Bari, Dedalo, 2002, 42.
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Stella A. (2021). La prefazione alla fenomenologia dello spirito di Hegel, Roma, Aracne.
Riccardo Romano, Catania
*Per citare questo articolo:
Romano R., (2024) “Il metodo psicoanalitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 62-90
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