Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Fernando Riolo
(Palermo) Psicoanalista, membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association. Nella SPI ha svolto numerose funzioni tra cui quella di Presidente (2005-2009). Risiede a Palermo e del Centro di Psicoanalisi di Palermo è stato anche Presidente. È Autore di numerosi articoli ed ha curato il volume: L’analisi dei sogni. Gli scritti del VI Colloquio di Palermo (Franco Angeli, 2003). Dal 2014 al 2021 ha coordinato e guidato un gruppo di ricerca sui concetti fondamentali della psicoanalisi che ha riunito psicoanalisti provenienti da tutta Italia. Nel numero IV della Rivista di Psicoanalisi del 2021 ne sono usciti i risultati.
*Per citare questo articolo:
Riolo F., (2024) “Il Metodo Psicoanalitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 10-34
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Molti anni fa per rappresentare lo scenario della psicoanalisi avevo letto una pagina di Queneau, Ve la ripropongo ad exergo, con una piccola intromissione:
“Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare la situazione. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevano calvadòs.
Il Duca d’Auge sospirò pur senza interrompere l’attento esame di quei fenomeni consunti. Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gauloises fumavano Gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saraceni chiudevano persiane. Uno sparuto gruppo di Mohicani leggeva Freud. Da alcune abitazioni sbrecciate filtravano luci bluastre, erano gli zoom-analisti cablati ai loro teledroni. Alcuni eseguivano metodici esercizi di estensione, altri di restrizione, tutti con la migliore intenzione. Altri si annoiavano e guardavano Crozza.
Tutta questa storia – disse il Duca d’Auge – tutta questa storia per un po’ di anacronismi. Non si troverà mai via d’uscita? Continuò per qualche tempo a osservare quei rimasugli che resistevano allo sbriciolamento; poi lasciò il suo posto di vedetta e scese ai piani inferiori del castello, dando sfogo al suo umore, cioè alla voglia che aveva di picchiare qualcuno” (Raymond Queneau, Les fleurs Bleues).
Non seguirò l’esempio del duca; ma certo è che nel frattempo la situazione non è molto migliorata – come mostra il tema del nostro ultimo congresso, gli “inconsci”. Nel panorama attuale della psicoanalisi coabitano concezioni psicogenetiche, concezioni patogenetiche e concezioni della cura, che propongono principi di spiegazione diversi e in buona parte incompatibili, da cui discendono pratiche cliniche a loro volta diverse e incompatibili. Il problema non è questa diversità, è che ad essa non segue il percorso che è proprio di un pluralismo scientifico, il confronto e la falsificazione delle teorie e ipotesi di volta in volta avanzate, ma si traduce piuttosto in una forma di “commensalismo”, nel quale le diverse scuole e correnti permangono tutte, le une accanto alle altre senza modificarsi, né falsificarsi vicendevolmente anche quando affermano cose vicendevolmente contraddittorie. Per cui, non solo quanti inconsci, ma quanti Io ci sono e quanti Sé, che del termine Sé condividono solo il nome? (basti pensare al Sé di Winnicott, di Hartmann e di Kohut, che non hanno nulla a che fare l’un l’altro). E quante idee di affetto, di emozione, di identificazione, di relazione?
Non sarebbe necessario allora identificare con fedeltà e precisione quei concetti e metterli a dialogare tra loro? Da questa esigenza è nato il programma di ricerca concettuale che ha coinvolto molti colleghi di provenienza e orientamento diverso e dopo più di sei anni è giunto finalmente a qualche conclusione.
Ma oggi non parlerò di quello, parlerò del metodo psicoanalitico, che però con quello c’entra parecchio, perché si colloca nel punto di snodo di quelle divergenze e, se condiviso, potrebbe condurle verso una evoluzione … se condiviso. Gli scienziati possono parlarsi e confrontare le loro ipotesi perché condividono lo stesso metodo; come gli storici il metodo storico; i medici il metodo clinico. Ma noi condividiamo lo stesso metodo?
Negli anni ottanta del secolo scorso si era svolto, al 36° Congresso Internazionale dell’IPA, un vivace confronto tra Roy Schafer e Robert Wallerstein. Il tema era già quello: Una o molte psicoanalisi? Ed è possibile trovare un common ground tra ciascuna di esse?[1]
Schafer rivendicò l’appartenenza della psicoanalisi al paradigma ermeneutico, in base al quale le descrizioni analitiche non sono da considerare il prodotto di processi osservativi, ma di processi di significazione. E essendo questi processi, a differenza di quelli delle scienze naturali, caratterizzati dalla dipendenza dal contesto e dalla storia soggettiva, bisognava accettare che essi non potessero dar luogo a leggi universali, valide al di fuori di quel particolare contesto intersoggettivo. Wallerstein pose dal suo canto a Schafer un’obiezione cruciale: se la psicoanalisi è solo un campo ermeneutico singolare e soggettivo, la questione che si pone è: che cosa la differenzia da tutti gli altri contesti che svolgono questa stessa funzione; e che cosa la differenzia da tutte le concezioni non psicoanalitiche della mente? L’esistenza stessa della psicoanalisi si basa infatti sull’assunto che non ogni descrizione della mente umana sia equivalente alle altre. Dalla posizione di Schafer deriverebbe invece che, essendo l’analisi solo una costruzione di senso, qualsiasi operazione che assolva a tale compito sia ugualmente lecita (Anything goes), per cui verrebbe meno la possibilità stessa di definire qualcosa come “psicoanalisi” e qualcos’altro come “non”. Se invece questa differenza esiste, allora è necessario individuare cosa la caratterizza e, pur nella diversità dei modelli teorici, ne specifica l’identità.
Qual è allora il luogo della specificità? Per Wallerstein, non è quello delle teorie generali, il cui valore di verità è indecidibile, in quanto sono costruzioni metaempiriche distanti dalle esperienze osservative; ma risiede piuttosto nelle teorie cliniche, in quanto sono derivate dalle osservazioni analitiche e sono pertanto suscettibili di essere confrontate. L’alternativa a questo, disse, è di permanere “in quello stadio in cui non c’è alcun criterio per asserire la validità di un’ipotesi rispetto a un’altra, o di un’interpretazione rispetto a un’altra, eccetto che la fede o il rigetto”.
E l’istanza posta da Wallerstein sull’esigenza di un criterio comune di decidibilità è imprescindibile. Ma l’idea che tale criterio possa risiedere nella teoria clinica, in quanto questa, a differenza della teoria generale, avrebbe il vantaggio di derivare direttamente dalle osservazioni, mi sembra espressione di una concezione ingenua del processo epistemico. Cercherò di dire perché.
Innanzitutto la considerazione che le teorie generali sono meta-empiriche, che cioè non sono estratte direttamente dai fatti, non è un limite della psicoanalisi, ma è una caratteristica propria di tutte le teorie scientifiche. Le scienze sono sistemi assiomatico-deduttivi: si basano cioè su un certo numero di postulati e proposizioni, in massima parte non derivati dalle osservazioni. Tali proposizioni di carattere molto generale (assiomi) sono adoperate come premesse da cui derivare ipotesi di livello inferiore. Le ipotesi di livello inferiore hanno un grado di generalizzazione via via minore, fino a un livello sufficientemente particolare da renderle adeguate a una qualche forma di corrispondenza con le osservazioni. Il che vuol dire che le ipotesi particolari non sono indipendenti dai livelli precedenti, né separabili da essi. La corrispondenza con le osservazioni, inoltre, anche quando è possibile è sempre parziale – e sta proprio in questo la sua funzione euristica; poiché da quello scarto conseguono ulteriori richieste al lavoro della teoria, che dovrà modificarsi in modo da raggiungere un grado di approssimazione migliore. Il rapporto tra osservazione e teoria è perciò in ogni scienza interdipendente e reciproco. In altre parole, i dati e le teorie sui dati non esistono come due realtà separate; costituiscono un sistema solidale all’interno del quale si determinano reciprocamente.
Ma c’è un’altra obiezione a una via che intenda far discendere la teoria dalla clinica; ed è che tale proposta si basa su un fraintendimento: quello di ritenere che una teoria clinica sia perciò stesso “empirica”. Ora, a parte il fatto che equiparare le esperienze analitiche (analytische Erfharungen) a dati empirici (empirische Daten) è difficilmente sostenibile[2], il presupposto che abbia per oggetto la clinica non rende affatto questa teoria meno “teorica”, la rende semmai meno “generale”. Una teoria clinica è solo una teoria particolare, e in quanto tale dipende da una teoria più generale e non solo dai fatti. Come aveva esaurientemente dimostrato già negli anni settanta Benjamin Rubinstein, tutti i termini di cui si serve la teoria clinica – identificazione, proiezione, fantasia inconscia, conflitto, resistenza, transfert – sono concetti metapsicologici. E perfino il livello più particolare di descrizione, quello del resoconto della seduta, è una teoria; dal momento che è un ordinamento dei fatti, successivo all’esperienza dei fatti e inseparabile dalla loro selezione e interpretazione. Come del resto era già ben chiaro a Freud: “Già nel corso di una descrizione non si può evitare di applicare al materiale determinate idee astratte, le quali sono ricavate da un’altra parte e certo non solo dalla nuova esperienza (…) piuttosto esse rinviano al materiale dell’esperienza dal quale sembrano ricavate, ma che in realtà viene ad esse assoggettato” (S. Freud, Pulsioni e loro destini).
In altri termini, la clinica della quale possiamo parlare non esiste se non come un livello della teoria, che rimanda da un lato agli altri livelli teorici e dall’altro alle esperienze cliniche – perciò, anche da questo punto di vista, ogni visione intesa ad assegnare un primato alla teoria o alla clinica è semplicemente priva di senso. La realtà che come analisti indaghiamo, consiste tanto dei fenomeni psichici che osserviamo – ma più spesso desumiamo – quanto delle teorie che ci consentono di osservarli e desumerli. La soluzione non può stare perciò nel rivolgersi agli uni piuttosto che alle altre, ma nella loro correlazione. I criteri che consentono e regolano questa correlazione costituiscono il metodo. La questione della specificità rimanda quindi al metodo, ovvero a quali sono le regole che consentono la rilevazione dei dati della psicoanalisi, che consentono di osservare e comprendere le esperienze che facciamo in analisi.
Rinunziare a quelle regole ci espone al rischio di una pratica clinica soggettiva e immediata, “selvaggia”. E a me pare che l’idealizzazione della clinica quale luogo della veridicità dell’analisi, contribuisca alla divaricazione progressiva tra un campo di esperienze cliniche sempre più eterogenee quanto ai sistemi osservativi da cui provengono e un apparato teorico sempre più destituito del compito di indagarne i livelli non manifesti; col risultato di ritrovarci nuovamente al ground zero della psicoanalisi e alla rinascita della “psicologia dell’ovvio”: il soggetto della coscienza, il piano manifesto, i comportamenti, i fatti, la relazione reale, il bambino e la madre reali: ovvero, capovolgendo Winnicott, dalla psicoanalisi alla pediatria.
Freud era ben consapevole di tutto questo, dal momento che aveva posto uno Junktim fra teoria, metodo e clinica (che egli chiamava più propriamente “il trattamento”), aggiungendo che è dalla loro triplice correlazione che prende origine il campo osservativo della psicoanalisi. Allo stesso modo in cui sono necessari almeno tre punti per definire uno spazio. Se volessimo perciò rappresentarci il campo dell’analisi, dovremmo raffigurarlo con un triangolo, del quale Teoria, Metodo e Clinica costituiscono i vertici. Dalla loro co-relazione si genera lo spazio all’interno del quale si producono le nostre osservazioni, le nostre interpretazioni e le teorie che rendono possibile il passaggio dalle une alle altre.
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[1] F. Riolo, Un Common Ground per la psicoanalisi? Rivista di Psicoanalisi, 1990, XXXVI, 3.
[2] F. Riolo, La teoria come dimensione dell’oggetto analitico. Rivista di Psicoanalisi. 1991, XXXVII, 1.
E l’idea che la psicoanalisi è un sistema derivante dalla correlazione fra teoria, metodo e clinica è in linea di principio condivisa da tutti. Ma solo in linea di principio: perché, se è facilmente accettata nelle premesse, lo è assai meno nelle conseguenze – che sono invece cogenti. In virtù di quella triplice interdipendenza dobbiamo assumere infatti che il metodo e le teorie non solo ci guidano nella comprensione delle osservazioni cliniche, ma anche determinano quali livelli e oggetti possiamo osservare; e che reciprocamente, questi livelli e oggetti determinano quali teorie si rendono necessarie per la loro spiegazione. Parafrasando una celebre frase di Einstein, sono le teorie a decidere quali osservazioni possono essere fatte; e sono le osservazioni a decidere quali teorie possono essere formulate. Ne consegue che il cambiamento di ciascuno dei vertici determina, che lo si voglia o no, il cambiamento degli altri: a livelli di osservazione diversi corrispondono oggetti diversi e descrizioni diverse.
Tutto ciò sarebbe immediatamente evidente se facessimo riferimento a sistemi osservativi ben consolidati come quelli delle scienze fisiche. Il telescopio ottico è figlio delle leggi della meccanica classica e servì a consentire l’osservazione degli oggetti considerati da quella teoria – i moti dei pianeti, delle comete, i corpi visibili. Ma fu necessaria l’invenzione del radiotelescopio per oltrepassare la banda delle radiazioni ottiche e poter osservare le stelle di neutroni e i quasar. Allo stesso modo, fu necessaria l’invenzione dell’acceleratore gravitazionale per poter osservare il nucleo dell’atomo e le particelle. Ma l’acceleratore gravitazionale, a sua volta, è figlio della teoria quantistica, e non sarebbe mai stato concepito se quella teoria non l’avesse reso concepibile. Risulta così evidente che se cambiano la teoria e gli strumenti, cambiano anche gli “osservabili” e, reciprocamente, se cambia il campo d’osservazione, dovranno cambiare corrispondentemente le teorie e gli strumenti.
Non sto dicendo che non li dobbiamo cambiare. Al contrario, l’esempio delle scienze fisiche dimostra l’utilità, e perfino la necessità, di cambiarli se vogliamo estendere il nostro dominio osservativo a nuovi fenomeni clinici e essere in grado di comprenderli – basti pensare alle modificazioni della tecnica rese necessarie dall’estensione dell’analisi ai bambini, alle psicosi, ai gruppi. La psicoanalisi, come ogni scienza, deve evolvere e trasformarsi. Il punto è “che cosa” deve trasformarsi e che cosa non – poiché una trasformazione è tale in quanto qualcosa cambia e qualcosa rimane invariato; altrimenti non di una trasformazione si tratta, ma di una cosa interamente nuova e diversa.
Freud aveva adoperato a questo proposito la metafora del coltello di Lichtenberg[1]; un fantomatico coltello, invenzione surreale di un multiforme scienziato del Settecento, Christoph Lichtenberg; che tra le molte cose serie, scrisse anche un trattatello umoristico sulle umane debolezze; un inventario di oggetti paradossali: un barometro che segna sempre bel tempo; una fonderia tascabile per farsi in casa le palle da cannone; una maschera con lacrime incorporate da indossare per le visite di lutto; e una macchina anticartesiana che faceva copulare l’anima con il corpo. In una delle pagine non c’è niente; sotto c’è scritto: “un coltello senza lama al quale manca il manico”.
Questa afanisi di coltello fu utilizzata da Freud per esemplificare la sparizione della psicoanalisi a causa, scrive, “della sottrazione di tutti quei punti in cui mi è stato possibile identificare la sua stessa essenza”. Che così elenca:
– l’abolizione del contenuto inconscio del sogno, rimpiazzato dal testo manifesto o dai pensieri latenti, donde le interpretazioni attuali e prospettiche;
– l’abolizione della pulsione sessuale rimpiazzata dalle motivazioni dell’Io;
– l’abolizione della nevrosi infantile rimpiazzata dai conflitti che attengono al presente;
– l’abolizione dell’inconscio istintuale, quale vis a tergo ancorata al corpo, rimpiazzato da un’idea di inconscio spirituale e simbolica.
Questi erano dunque per Freud gli invarianti della teoria psicoanalitica.
“Ma una volta abbandonate le teorie – aggiunge – si rese indispensabile abbandonare totalmente anche il metodo d’osservazione e [di conseguenza] la tecnica analitica. Tali modifiche della psicoanalisi sono un corrispettivo del famoso coltello di Lichtenberg. Hanno tolto il manico e hanno sostituito la lama; ma avendovi inciso la medesima marca, noi dovremmo prendere questo coltello per quello precedente” (S. Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico).
La teoria è il “manico” e il metodo è la “lama”: dal loro incardinamento deriva il coltello di Freud; dalla loro sottrazione, il coltello di Lichtenberg, ovvero l’evanescenza dell’intero strumento. Donde l’attuale dicotomia teorico-operativa che non solo rende possibile qualsiasi affermazione teorica, ma autorizza qualsiasi pratica clinica; per cui, come diceva Wallerstein, anything goes; ognuno può fare quel che gli pare e chiamarlo psicoanalisi.
A questo punto dovrebbero essere sufficientemente chiare due cose:
Come già anticipato dalla citazione del ‘14, per Freud essi vanno infatti distinti:
il primo, il “metodo osservativo”, è il dispositivo concepito per condurre l’esplorazione dell’inconscio attraverso i suoi derivati coscienti; la seconda, la “tecnica analitica”, è il dispositivo concepito per consentire l’esercizio del metodo, la conduzione del trattamento. Per questa ragione le libere associazioni, in quanto sono lo strumento osservativo fondamentale della psicoanalisi, contraddistinguono il metodo psicoanalitico; mentre il setting, l’interpretazione, l’analisi del transfert, fanno parte della tecnica. E questo ha implicazioni importanti per il nostro discorso, poiché ci permette di distinguere ciò che, appartenendo al metodo psicoanalitico, è da considerare invariante; da ciò che appartenendo alle tecniche operative, può essere soggetto a variazione.
Ma con una limitazione decisiva, che discende dallo Junktim: le variazioni devono essere compatibili con la teoria e con il metodo.
Quando apportiamo dei cambiamenti alla tecnica dobbiamo perciò domandarci non solo se sono utili; ma se sono o meno compatibili con ciò su cui essa si fonda e la sottende. In caso contrario dovremo assumerci la responsabilità scientifica di affermare che quel cambiamento, investendo parimenti la tecnica, il metodo e la teoria, assume la portata di un cambiamento paradigmatico.
Un esempio è il modo in cui viene affrontata la questione dei cambiamenti del setting, dai cui parametri – la stanza d’analisi, la frequenza e la durata delle sedute, la postura fisica, la limitazione del campo visivo, il privilegio della comunicazione verbale, il pensiero liberamente fluttuante, la sospensione dell’attenzione orientata e del giudizio, l’astinenza da condotte suggestive e direttive, l’assenza di rapporti personali – dall’insieme di tutti questi fattori risulta un dispositivo osservativo specifico, e questo è correlato agli assunti teorici dai quali quel dispositivo discende – la teoria del determinismo inconscio dei contenuti della coscienza, la teoria delle difese, la teoria del sogno, la teoria del transfert e della ripetizione. Il dispositivo tecnico è concepito cioè in funzione della rilevazione di quei processi che il dispositivo teorico mette sotto osservazione.
Che accade allora se cambiamo il dispositivo? Le analisi sans divan, le analisi familiari, le analisi a una seduta settimanale – e sono in atto le tappe successive, la mail-analysis, la tele-analysis, la skype-analysis. Quali processi e oggetti ci aspettiamo di incontrare in questi setting osservativi? Perché almeno una cosa dovrebbe essere evidente: che ne risulteranno inevitabilmente osservazioni cliniche, almeno in parte, diverse; e queste influenzeranno la natura delle nostre spiegazioni e delle nostre teorie.
Certo, i pazienti cambiano, il mondo cambia, la cultura cambia, e gli psicoanalisti devono pur sopravvivere. Ma anche la psicoanalisi deve sopravvivere perché possano sopravvivere degli “psicoanalisti”.
Come si affronta invece solitamente la questione? Con la negazione delle differenze: non importa se le sedute sono quattro o una; o se sono fatte al telefono, purché dall’altra parte ci sia un analista – come se l’analisi non fosse una teoria e una tecnica, ma un’entità mistica che risiede nella mente dell’analista, improntando col suo crisma qualsiasi cosa egli faccia. “Questo è idealismo, Signori!”, avrebbe detto Freud.
Conoscete la storia degli “occhiali di Berkeley”? Dunque, il reverendo Berkeley raccontò un giorno ai suoi studenti che molti anni prima gli si era rotta la montatura degli occhiali e perciò aveva dovuto sostituirla. Successivamente, a causa del peggioramento della vista, aveva dovuto sostituire anche le lenti, e di conseguenza i cerchi. Eppure quelli che adesso inforcava erano per lui sempre gli stessi occhiali, anche se non un solo pezzo di essi era rimasto uguale nel tempo. Dunque? Dunque gli occhiali erano per Berkeley l’idea degli occhiali. E se la psicoanalisi fosse l’idea della psicoanalisi saremmo a posto. Ma cosa potrebbe fermare allora, nella realtà, quel conto alla rovescia che sembra inarrestabile? Cinque sedute, quattro sedute, tre, due, una… zero! Fino al foglio completamente bianco di Lichtenberg.
Un’altra prova che non è possibile definire alcuna regola tecnica senza far riferimento a quale sia l’idea di processo che vi sottende; o, il che è lo stesso, a quali siano il metodo e la teoria della cura.
La domanda è allora: quali sono le condizioni necessarie all’esercizio del metodo analitico? Se, ad esempio pensiamo, come io penso, che quattro o tre sedute settimanali siano entrambe condizioni compatibili con l’esercizio del metodo; mentre la co-presenza di un analista e di un paziente nella stanza ne sia una condizione necessaria, considereremo il numero delle sedute una variabile dipendente, che ammette delle variazioni controllate; mentre assumeremo come invariante la regola che analista e paziente debbano essere fisicamente presenti; e escluderemo perciò di poter considerare psicoanaliticamente valida una relazione che ha come interlocutori due “effigies” su uno schermo. Naturalmente altri potrebbe considerare quella condizione non necessaria per l’esercizio del metodo (e in tal caso dovrebbe dimostrarlo). Intendo dire che, se quello che ho detto fin qui è vero, la questione della tecnica non può essere affrontata con criteri puramente contestuali o pragmatici. Perché non si tratta mai solo di differenze di tecnica o di strumenti.
Quindi, per essere chiaro, non sto parlando del ricorso alla pratica dell’analisi a distanza, reso inevitabile dai drammatici eventi di questi ultimi anni, ma della sua “normalizzazione” a-nomica che era già in atto da molto tempo prima. Diceva Green, se mi trovassi su un aereo e un passeggero avesse ingurgitato di traverso un’oliva e stesse per morire soffocato, potrei praticargli una tracheotomia anche con il coltellino di plastica sul mio vassoio; ma questo non vorrebbe dire abilitare come pratica chirurgica l’uso del coltellino di plastica al posto di un bisturi e di una sala operatoria. In altre parole, l’estensione di quella pratica, al di fuori delle condizioni eccezionali che l’hanno resa necessaria, richiederebbe una giustificazione che ne mostri la fondatezza teorica e metodologica. La posizione escludente, ad esempio, si fonda su un assioma del metodo freudiano: l’analisi si svolge in presenza dell’oggetto. Poiché “nulla può essere sconfitto in absentia o in effigie”.
Anche più forte è l’assioma bioniano: l’oggetto analitico deve possedere tre dimensioni, un’estensione nella dimensione dei sensi, un’estensione nella dimensione del mito e un’estensione nella dimensione della passione. Dove la qualità della presenza è duplice: quella che è propria dei sensi e quella propria della passione: “Con “passione” intendo una dimensione che L, o H, o K deve possedere per essere riconosciuto come un elemento che è presente. […] La consapevolezza della passione non dipende dai sensi. Perché i sensi siano attivi è necessaria una mente soltanto: la passione è la prova che due menti sono presenti e legate fra loro e che non possono esservi meno di due menti se la passione è presente”. Pertanto gli oggetti e i fenomeni caratterizzati da una sola di quelle dimensioni sono da considerare per Bion non appartenenti al campo della psicoanalisi.
Mi auguro a questo punto di aver chiarito che la tecnica non è indipendente dalla teoria e dal metodo.
Dovrei parlare adesso più diffusamente di ciò che caratterizza il metodo. Ma vi rimanderei su questo al lavoro che ho scritto per Notes per la psicoanalisi e che è stato recentemente ripubblicato sulla Rivista di psicoanalisi[2]. Mi limiterò a richiamare brevemente quelli che ho indicato come i funtori costitutivi del metodo psicoanalitico:
Il primo, e il più importante, è il pensiero del sogno, perché è dalle regole del lavoro del sogno, le regole logiche, sintattiche, temporali, spaziali, del processo primario, che nacque l’invenzione del metodo, la “via regia” per l’inconscio. Le regole fondamentali del metodo analitico, le libere associazioni e la sua controparte per l’analista l’attenzione liberamente fluttuante (dream-like thinking), sono isomorfe alle regole del lavoro onirico: hanno lo scopo di sottrarre il flusso del pensiero alle trasformazioni operate dal processo secondario, all’interesse, all’intenzionalità della coscienza, all’organizzazione di senso già data, permettendo che si sviluppino altre reti di significazione.
Il lavoro-del-sogno assume di qui valore paradigmatico. Esso sta a fondamento del metodo analitico, che lo applica a tutti gli “osservabili”: che in tanto divengono oggetti dell’analisi, in quanto sono sottratti alla loro realtà manifesta – sensoriale, razionale, fattuale – e considerati come trasformazioni di processi inconsci che si manifestano nel linguaggio, nel comportamento, nel transfert, nelle formazioni sintomatiche e nella relazione reale.
Il metodo analitico assolve, in questa prospettiva, la funzione specifica di strumento operativo per la messa in crisi del piano fenomenico della coscienza, in quanto sistema “interamente intessuto di falsi nessi” (Freud). Non un sistema da “decodificare”, quindi, ma da “disingannare”, interrompere e rompere, in modo da rendere accessibili i nessi soggiacenti. Questa attività decostruttiva è il secondo funtore del metodo. “Il termine analisi significa scomposizione e contiene un’analogia con il lavoro che il chimico compie sulle sostanze complesse che porta nel suo laboratorio per isolarne gli elementi”. “L’analista mette in moto un Auflosung Prozess […] e questo, una volta avviato, va per la sua strada e non si lascia prescrivere né la direzione, né la meta” (S. Freud, Nuovi consigli sulla tecnica psicoanalitica). In tal modo Freud sottraeva l’analisi non solo al dominio del pensiero intenzionato, ma anche a quello dell’agire intenzionato, al dominio dell’utile, del buono e del giusto; assegnandole anche come terapia il medesimo obbiettivo che le aveva affidato come scienza: il riconoscimento disinteressato della realtà. Perciò nulla di più distante dal metodo analitico del desiderio, del wishful thinking che attraversa ogni forma di terapia direttiva, pedagogica e correttiva, con la loro predominanza di senso normativo e morale.
Al terzo funtore ho già accennato, è la triplice natura dell’oggetto analitico, in quanto essa comporta la presenza dell’oggetto, di due corpi e due menti in relazione tra loro. Il lavoro psichico di trasformazione che avviene in un’analisi non dipende da un soggetto soltanto; è funzione della personalità del paziente e di quella dell’analista, delle sensazioni, delle cognizioni e delle passioni (pathémata) di entrambi. Sulla nostra via, nel nostro “metodo”, camminano due viandanti.
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Vorrei tornare adesso allo Junktim, per mostrarvi, attraverso il confronto fra gli enunciati di Freud, di Klein, di Winnicott e di Kohut, come le differenti concezioni teoriche determinino configurazioni assai diverse della concezione della cura e della tecnica del trattamento. Per brevità di tempo mi limiterò a citare solo alcune proposizioni e per l’intento esclusivamente metodologico del discorso, mi asterrò dall’esprimere alcun giudizio sul loro merito. [3]
Confrontiamo i seguenti enunciati testuali:
Freud
Assunti di base
“L’Io ha il compito di soddisfare le esigenze derivanti dal suo triplice rapporto di dipendenza – dalla realtà, dall’Es e dal Super-io – mantenendo allo stesso tempo la sua organizzazione e affermando la sua autonomia. La condizione degli stati patologici […] può essere solo un indebolimento assoluto o relativo dell’Io […] nel tenere a bada le pretese pulsionali dell’Es […] e le pretese morali del Super-io”. (GW, 17, 97; O.S.F., 11, 599[4]).
“La causa scatenante lo scoppio di una psicosi è o che la realtà è diventata insopportabilmente dolorosa o che le pulsioni si sono rafforzate in misura eccessiva (GW, 17, 131-32; O.S.F., 11, 628[5]). Se Es e Super-io si rafforzano troppo, riescono a sfaldare l’organizzazione dell’Io e a modificarla in modo tale che il giusto rapporto dell’Io con la realtà ne risulta alterato o addirittura reciso […] quando l’Io si distacca dalla realtà del mondo esterno cade in preda alla psicosi sotto l’influenza del mondo interno (GW, 17, 98; O.S.F., 11, 599-600[6]). L’imbrigliamento delle pulsioni che [gli individui] erano riusciti ad attuare fallisce […] a causa del rafforzamento pulsionale. […] L’esito sottolinea l’irresistibile potere del fattore quantitativo nel processo che dà origine alla malattia” (1937, GW, 16, 69-70; O.S.F, 11, 508-9[7]).
Concezione del trattamento
“Su queste considerazioni si fonda il nostro progetto di cura. Dal momento che l’Io è indebolito a causa dei suoi conflitti interni, […] l’analista e l’Io indebolito del paziente, tenendosi ancorati al mondo esterno, devono formare un partito comune contro le pretese pulsionali dell’Es e le pretese coscienziali del Super-io […] Il nostro sapere deve compensare il suo non sapere, restituendogli la piena padronanza su quelle regioni della vita psichica di cui ha perso il controllo. In questo contratto consiste la situazione analitica” (GW, 17, 98; O.S.F, 11, 600[8]).
“La via che noi dobbiamo imboccare per rafforzare il suo debole Io parte da un ampliamento della sua conoscenza di sé. […] La prima parte della nostra opera di soccorso consiste dunque in un lavoro intellettuale” (GW, 17, 103; O.S.F, 11, 604[9]). “L’effetto terapeutico è legato al farsi cosciente di ciò che nel senso più ampio del termine è rimosso nell’Es” (1937, GW, 16, 84; O.S.F, 11, 521[10]).
“Il superamento delle resistenze è la seconda e più importante parte del nostro compito. […] L’Io si tutela contro l’irruzione degli elementi indesiderati provenienti dall’Es inconscio e rimosso per mezzo di controinvestimenti che devono rimanere immutati perché l’Io possa funzionare normalmente” (GW, 17, 104; O.S.F, 11, 605-6[11]).
“L’esito finale del trattamento dipende da relazioni quantitative, dalle energie a favore che riusciamo a mobilitare nel paziente, a confronto con la somma energetica delle forze che combattono contro” (GW, 17, 108; O.S.F, 11, 609[12]).
Klein
Assunti di base
“L’interazione degli istinti di vita e di morte va considerata governare l’intera vita mentale (1958, 89; ed. it.: 549). Sotto l’impatto della lotta tra i due istinti, una delle principali funzioni dell’Io – il padroneggiamento dell’angoscia – è attiva fin dall’inizio della vita. […] Il pericolo di essere distrutto dall’istinto di morte dà origine all’angoscia primitiva nell’Io. [Ne consegue] la tendenza dell’Io a scindere se stesso e i suoi oggetti” (1958, 84-5; ed. it.: 542[13]).
“Il mio lavoro sulle prime fasi dello sviluppo […] mi ha portato a distinguere due forme di angoscia: l’angoscia persecutoria, che è predominante nei primi mesi di vita e dà luogo alla “posizione schizo-paranoide”, e l’angoscia depressiva, che giunge all’apice verso la metà del primo anno e dà luogo alla “posizione depressiva”. […] L’angoscia persecutoria è rivolta principalmente ai pericoli sentiti come minacce per l’Io; l’angoscia depressiva ai pericoli sentiti come minacce per l’oggetto amato, soprattutto a causa dell’aggressività del soggetto”
(1950, 43; ed. it.: 454-455[14]).
Concezione del trattamento
“Il fine ultimo dell’analisi è l’integrazione della personalità del paziente. […] Per quanto riguarda la tecnica, ho cercato di dimostrare che solo analizzando costantemente le angosce e le difese legate all’invidia e agli impulsi distruttivi, si possono ottenere progressi nell’integrazione” (1957, 232; ed. it.: 114[15]).
“Ho descritto il mio approccio all’angoscia come punto focale della mia tecnica. Fin dall’inizio, le angosce non possono essere incontrate separatamente dalle difese contro di esse. […] L’Io si protegge costantemente dal dolore e dalla tensione che l’angoscia suscita, e si serve quindi delle difese fin dall’inizio della vita post-natale” (1957, 215-16; ed. it.: 83[16]).
“È altamente richiesto all’analista e al paziente di analizzare i processi di scissione e l’odio e l’invidia sottostanti, sia nel transfert positivo che in quello negativo. Questo procedimento si differenzia sostanzialmente dalla tecnica [dell’alleanza terapeutica] che mira a mitigare l’odio con l’amore per aiutare il paziente a raggiungere una migliore integrazione di sé (1957, 225; ed. it.: 101-102). Solo analizzando sia il transfert negativo che quello positivo, l’angoscia può essere ridotta alla radice” (1950, 46-47; ed. it.: 458[17]).
“Questa particolare enfasi andava contro il punto di vista psicoanalitico secondo il quale le interpretazioni non dovrebbero essere troppo profonde e troppo frequenti. Ho perseverato nel mio approccio, nonostante il fatto che esso comportasse un cambiamento radicale della tecnica” (1955, 132[18]).
Winnicott
Assunti di base
“Il bambino e le cure materne costituiscono insieme un’unità (1960, 39; ed. it.: 44-45[19]). L’unità non è l’individuo. L’unità è un’organizzazione individuo-ambiente. Il centro di gravità dell’essere non origina nell’individuo. È nell’organizzazione totale” (1952, 99; ed. it.: 122[20]).
“I differenti tipi di malattie psico-nevrotiche possono essere meglio raggruppate in base alle tipologie di difesa, di cui la principale è la rimozione (1959-64, 130; ed. it.: 164-5[21]). […] Nella psicosi vengono messe in gioco e organizzate difese molto primitive causate da anomalie dell’ambiente. […] i deficit ambientali che producono la psicosi appartengono allo stadio che precede quello in cui lo sviluppo dell’individuo ha ottenuto l’equipaggiamento grazie al quale è consapevole sia del rifornimento ricevuto dall’ambiente che della sua mancanza (ibidem, 135-6; ed.it.: 171-2[22]). La psicosi è una malattia da deficit ambientale” (1963, 256; ed. it.: 334[23]).
Concezione del trattamento
“Ciò che intendo è assumere la teoria generale della continuità, di una tendenza innata verso la crescita e verso l’evoluzione personale, e la teoria della malattia mentale come ostacolo allo sviluppo. Quest’ultimo punto porta con sé l’idea di un orientamento dinamico della cura – nel senso che, se viene rimosso il blocco dello sviluppo ne consegue la crescita grazie alle potenti forze che appartengono alle tendenze innate di ogni essere umano” (1967, 194; ed. it.: 216[24]).
“Il setting dell’analisi riproduce le prime e più antiche tecniche materne. Invita alla regressione a motivo della sua affidabilità (1954, 286; ed. it.: 342[25]). Dove c’è un Io integro e l’analista può dare per acquisiti i primi elementi dell’accudimento del bambino, il setting dell’analisi è secondario rispetto al lavoro interpretativo. […] Nel lavoro che sto descrivendo il setting diventa più importante dell’interpretazione. L’accento passa dall’una all’altro” (1955-56, 297; ed. it.: 353[26]).
“Lo sguardo del neonato e del bambino che vede se stesso nel volto della madre, e successivamente allo specchio, ci offre un modo per guardare all’analisi e al compito psicoterapeutico. La terapia non consiste nel fare interpretazioni intelligenti e appropriate; in linea di massima, consiste nel restituire al paziente ciò che il paziente porta. È’ un derivato complesso del volto che riflette ciò che è là per essere visto” (1967b, 117; ed. it.: 199[27]).
Kohut
Assunti di base
“Le nozioni di Sé da una parte, di Io, Super-io, Es dall’altra […] appartengono a livelli differenti di formazione concettuale; Io, Es e Super-io sono elementi costitutivi di un’astrazione specifica della psicoanalisi che si riferisce a un livello elevato, cioè lontano dall’esperienza: l’apparato psichico (1971, XIV; ed. it.: 8[28]). I concetti di Sé e di oggetto-Sé si riferiscono a esperienze interne che […] appartengono alla realtà psicologica” (1984, 50; ed. it.: 76[29]).
“La pulsione sessuale infantile isolata non è la configurazione psicologica primaria […]. La configurazione psicologica primaria (di cui la pulsione è solo una componente) è l’esperienza della relazione fra il Sé e l’oggetto-Sé empatico. Le manifestazioni pulsionali isolate si stabiliscono solo dopo fallimenti traumatici e/o prolungati dell’empatia da parte dell’ambiente oggetto-Sé (1977, 122; ed. it.: 117-118[30]). Il nucleo dell’angoscia di disintegrazione è l’anticipazione del crollo del sé, non la paura della pulsione” (1977, 102-104[31]).
“La distruttività dell’uomo, come fenomeno psicologico, è secondaria; essa sorge originariamente come risultato del fallimento dell’ambiente oggetto-Sé nel corrispondere al bisogno del bambino di risposte empatiche ottimali – non massimali” (1977, 116; ed. it.: 113[32]).
Concezione del trattamento
“La psicologia del Sé, sebbene non trascuri il conflitto psichico e lo analizzi quando si presenta nel transfert, lo fa solo come un passo preliminare sulla via di ciò che considera il compito essenziale dell’analisi terapeutica: l’esplorazione, nelle loro dimensioni dinamiche e genetiche, dei difetti della struttura del Sé mediante l’analisi delle traslazioni d’oggetto-Sé” (1984, 41; ed. it.: 67[33]).
“La forza trainante del processo analitico nei disturbi del Sé consiste essenzialmente nella riattivazione dei bisogni evolutivi del Sé che erano rimasti privi di risposta (1984, 192; ed. it.: 245[34]). Il compito essenziale del trattamento diventa l’analisi delle manifestazioni provenienti dalle strutture compensative che si sono formate in modo incompleto nella prima parte della nostra vita” (1984, 44; ed. it.: 70[35]).
“Le cosiddette difese-resistenze non sono né difese, né resistenze. Esse costituiscono piuttosto elementi preziosi per proteggere il Sé, per quanto debole e difensivo possa essere, dalla disintegrazione e dall’invasione” (1984, 141; ed. it.: 183[36]).
“Il trattamento indicato in questi casi non è la psicoanalisi, ma è […] una forma di terapia d’insight psicoanaliticamente affinata che non richieda la mobilizzazione terapeutica di una regressione che frammenti il sé” (1971, 13-14[37]).
“Non è l’interpretazione che cura il paziente (1977, 30-1; ed. it.: 43[38]). L’unità terapeutica di base della guarigione psicoanalitica non si fonda sull’espansione della conoscenza […]. A costituire l’essenza della guarigione è piuttosto l’accrescimento della struttura psichica […] dell’analizzando, che gli viene assicurata sotto forma di interpretazioni correttive” (1984, 108; ed. it.: 145[39]).
Come si vede, da assunti di base diversi, concezioni ezio-patogenetiche diverse e concezioni della cura a loro volta diverse. I cambiamenti introdotti dai diversi autori nell’ambito della teoria generale si esprimono in modo evidente nei cambiamenti della teoria e della tecnica. Sussistono differenze profonde rispetto agli obiettivi dell’analisi e ai mezzi per conseguirli. E questi riguardano: il punto in cui va posto il focus del trattamento, il ruolo del setting, del transfert e dell’interpretazione, il lavoro sulle difese e sulle resistenze, e la stessa finalità della cura. Come decidere allora su questi senza decidere sui primi?
A fronte di quelle differenze va considerato che esse sono in parte da ricondurre allo spostamento del campo d’osservazione dalle nevrosi alle psicosi e ai disturbi narcisistici della personalità; e all’estensione della tecnica dall’analisi degli adulti a quella dei bambini e degli adolescenti. E questo ha indubbiamente comportato un’evoluzione della teoria, insieme a gradi variabili di non-integrazione. Il quesito è: in che misura ciò si riflette anche sul metodo?
Una domanda per tutte, che ne è del posto in analisi del sogno? Perché il metodo e il sogno sono legati a uno stesso destino.
La Klein si pose il problema della compatibilità tra la sua innovazione, la tecnica del gioco, e il metodo analitico. E per rivendicarne la continuità assunse il gioco come una forma di espressione simbolica analoga a quella del sogno; e assunse l’azione come un precursore della parola: “Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri ed esperienze. In questo si servono dello stesso linguaggio, della stessa forma di espressione arcaica, filogeneticamente acquisita, che ci è ben nota dai sogni. […] Oltre che di questa forma arcaica di rappresentazione i bambini si servono di un altro meccanismo primitivo; essi cioè sostituiscono le parole con le azioni (che erano originariamente i precursori dei pensieri): nei bambini l’agire svolge un ruolo prevalente” (Klein, Assioma 10.2). Della sua innovazione tiene a ribadire la natura esclusivamente operativa: “Il metodo del gioco mantiene tutti i principi della psicoanalisi e conduce agli stessi risultati […] È solo questione di differenza della tecnica, non dei principi di trattamento” (1927, 36-37; ed. it.: 160-161[40]).
Diversamente Kohut, affermò esplicitamente che la Psicologia del Sé è da considerare “metapsychologically independent” dalla psicoanalisi freudiana, ponendola pertanto in una cornice paradigmatica e metodologica a sé stante non più in rapporto di derivazione da quella.
A parte Kohut, tutti gli autori propongono le loro concezioni come sviluppi della teoria e del metodo di Freud, volti a integrarli ed espanderli in nuove direzioni; le peculiarità di questi sviluppi rendono tuttavia problematico il loro rapporto con gli assunti originari, derivandone come dicevo gradi variabili di discontinuità e incompatibilità sia rispetto al sistema freudiano, sia gli uni rispetto agli altri. E tali divergenze, se da un lato hanno implicazioni rilevanti sullo statuto unitario della teoria generale, dall’altro si riflettono sulla teoria e la pratica clinica, determinando la pluralità e l’indecidibilità teoretica delle strategie tecniche e operative.
La mia conclusione è che l’evoluzione della psicoanalisi richieda di riconoscere quelle divergenze, non ignorandole a favore di politici ecumenismi, né decidendole in base a opzioni ideologiche e schieramenti di scuola, ma affrontandole attraverso la ricerca e il confronto disinteressato tra le teorie e le osservazioni psicoanalitiche, le osservazioni cioè rese possibili e ottenute attraverso il metodo psicoanalitico.
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[1] F. Riolo, Freud e il coltello di Lichtenberg. Rivista di psicoanalisi. 2006, LII, 3.
[2] F. Riolo, Il metodo psicoanalitico e i suoi funtori. Rivista di Psicoanalisi, 2020, LXVI, 3.
[3] Rimando per una più ampia descrizione a: F. Riolo (a cura di), Teorie psicoanalitiche a confronto. Un’indagine assiomatica. Rivista di Psicoanalisi, 2021, LXVII, 4.
[4] Freud S. (1938). Compendio di psicoanalisi. O.S.F., 11.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Ibid.
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
[13] Klein M. (1958). On the development of Mental Functioning. Int. J. Psycho-Anal., 39: 84-90 [Sullo sviluppo dell’attività psichica. In Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 1978].
[14] Klein M. (1950). On the Criteria for the Termination of a Psycho-Analysis. Envy and gratitude and other work.s 1946-1963. Edited by: M. Masud R. Khan, London, The International Psycho-Analytical Library 104: 1-346, The Hogarth Press and the Institute of Psycho-Analysis, 1975 [Sui criteri per la conclusione di un trattamento psicoanalitico. In: Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 1978].
[15] Klein M. (1957). Envy and gratitude and other works 1946-1963. Edited by: M. Masud R. Khan, London, The International Psycho-Analytical Library 104: 1-346, The Hogarth Press and the Institute of Psycho-Analysis, 1975 [Invidia e Gratitudine. Firenze, Martinelli, 1969].
[16] Ibid.
[17] Klein M. (1950). On the Criteria for the Termination of a Psycho-Analysis. Envy and gratitude and other work.s 1946-1963. Edited by: M. Masud R. Khan, London, The International Psycho-Analytical Library 104: 1-346, The Hogarth Press and the Institute of Psycho-Analysis, 1975 [Sui criteri per la conclusione di un trattamento psicoanalitico. In: Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 1978].
[18] Klein M. (1955). The Psycho-Analytic Play Technique: Its History and Significance. Envy and gratitude and other works 1946-1963. Edited by: M. Masud R. Khan, London, The International PsychoAnalytical Library 104: 1-346, The Hogarth Press and the Institute of Psycho-Analysis, 1975.
[19] Winnicott D.W. (1960). The Theory of the parent-infant relationship. The Maturational Processes and the Facilitating Environment: Studies in the Theory of Emotional Development. London, The Hogarth Press and The Institute of Psycho-Analysis, 1965. [La teoria del rapporto infante-genitore. In: Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma, Armando Editore, 1970].
[20] Winnicott D.W (1952). Anxiety Associated with Insecurity. Through Paediatrics to Psycho-Analysis. London, Tavistock Publications, 1975 [L’angoscia associata all’insicurezza. In: Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975].
[21] Winnicott D.W. (1959-64). Classification: Is There A Psycho-analytic Contribution To Psychiatric Classification? The Maturational Processes and the Facilitating Environment: Studies in the Theory of Emotional Development. London, The Hogarth Press and The Institute of PsychoAnalysis, 1965. [Classificazione: esiste un contributo psicoanalitico alla classificazione 54 psichiatrica? In: Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma, Armando Editore, 1970].
[22] Ibid.
[23] Winnicott D.W. (1963). Dependences in infant-care, in child-care, and the psycho-analytic setting. The Maturational Processes and the Facilitating Environment: Studies in the Theory of Emotional Development. London, The Hogarth Press and The Institute of Psycho-Analysis, 1965. [La dipendenza nell’assistenza all’infante ed al bambino e nella situazione psicoanalitica. In: Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma, Armando Editore, 1970].
[24] Winnicott D.W. (1967c). The Concept of Clinical Regression compared with that of Defence Organisation. Psycho-Analytic Explorations. Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1989. [Confronto tra il concetto di regressione clinica e il concetto di organizzazione difensiva. In: Esplorazioni psicoanalitiche, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995].
[25] Winnicott D.W. (1954). Metapsychological and Clinical Aspects of Regression within the PsychoAnalytical Set-Up. Through Paediatrics to Psycho-Analysis. London, Tavistock Publications, 1975 [Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione nell’ambito della situazione analitica. In: Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975].
[26] Winnicott D.W. (1955-56). Clinical Varieties of Transference. Through Paediatrics to Psycho-Analysis. London, Tavistock Publications, 1975 [Le forme cliniche del transfert. In: Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975].
[27] Winnicott, D.W., (1967b). Mirror-role of Mother and Family in Child Development. Playing and Reality. London & New York, Tavistock/Routledge Publication, 1971 [La funzione specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile. In: Gioco e realtà, Roma, Armando Editore,1974].
[28] Kohut H. (1971). The analysis of the Self: a systematic approach to the psychoanalytic treatment of narcissistic personality disorders. University of Chicago Press edition, 2009 [Narcisismo e analisi del Sé. Torino, Bollati Boringhieri, 2014].
[29] Kohut H. (1984). How does analysis cure? The University of Chicago Press, Paperback edition 2013. [La cura psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri, 2002].
[30] Kohut H. (1977). The restoration of the Self. University of Chicago Press edition, 2009 [La guarigione del Sé. Torino, Bollati Boringhieri, 2015].
[31] Ibid.
[32] Ibid.
[33] Kohut H. (1984). How does analysis cure? The University of Chicago Press, Paperback edition 2013. [La cura psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri, 2002].
[34] Ibid.
[35] Ibid.
[36] Ibid.
[37] Kohut H. (1971). The analysis of the Self: a systematic approach to the psychoanalytic treatment of narcissistic personality disorders. University of Chicago Press edition, 2009 [Narcisismo e analisi del Sé. Torino, Bollati Boringhieri, 2014].
[38] Kohut H. (1977). The restoration of the Self. University of Chicago Press edition, 2009 [La guarigione del Sé. Torino, Bollati Boringhieri, 2015].
[39] Kohut H. (1984). How does analysis cure? The University of Chicago Press, Paperback edition 2013. [La cura psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri, 2002].
[40] Klein M. (1927). The Psychological Principles of Infant Analysis. Int. J. Psycho-Anal., 8:25-37 [I principi psicologici dell’analisi infantile. In: Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 1978].
*Per citare questo articolo:
Riolo F., (2024) “Il Metodo Psicoanalitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 10-34
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
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