Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Antonello Correale
(Venezia), Membro Ordinario con funzione di Training della Società Psicoanalitica Italiana, Presidente del Centro Veneto di Psicoanalisi.
*Per citare questo articolo:
Correale A, (2024) “Le vicissitudini della percezione”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 176-200
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Intanto vorrei ringraziare Patrizio e il Centro Veneto di questa opportunità, che mi è sembrata di grande importanza, perché permette un dibattito fra tutti noi su un tema fondamentale, quello del metodo psicoanalitico. Ho assistito ad alcuni interventi – e avrò modo di documentarmi sugli altri in futuro – e trovo che sia veramente qualcosa di molto importante e sono molto grato a voi di avermi invitato.
Vi spiego subito perché ho scelto questo titolo particolare: “Le vicissitudini della percezione”. Ho l’impressione che il metodo psicoanalitico sia forse quello che più di tutti permette di seguire l’accidentato e complicato percorso che va dalla sensazione al pensiero e poi dal pensiero individuale al pensiero collettivo.
Mi sembra che questo sia un tema fondamentale, per il fatto che nella percezione si verificano una serie di vicissitudini talmente drammatiche, in tutte le varie forme di disturbo psichico di cui noi ci occupiamo che collegare, cogliere, approfondire questo argomento ci permette, a mio parere, di cogliere tutte le potenzialità del metodo psicoanalitico. Secondo me, gli altri metodi di intervento non consentono di seguire tutte queste vicissitudini.
Mi spiego meglio. In fondo, che cos’è la percezione? La percezione è un dato sensoriale che, a un certo punto, si arricchisce, si impoverisce, si declina in varie forme, ma comunque tende a modificarsi per diventare qualche altra cosa.
Ma diventa sempre tutto qualche altra cosa? Cioè: pensiero, immaginazione, fantasma? O questa altra cosa lascia un residuo nell’oggetto, nella cosa?
A mio modo di vedere, lascia qualche cosa che non può diventare tutto fantasma e questa cosa che rimane, che noi possiamo definire sensoriale, ha un addentellato all’oggetto e un addentellato al corpo della persona che conosce. Questo dato sensoriale quindi si trova come a metà tra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro.
Ma ripeto: è un dato sensoriale. Cioè, non è soltanto immaginazione, non è soltanto ciò che avviene in quanto noi lo arricchiamo, lo spostiamo, lo condensiamo, ma è qualcosa che mantiene una sorta di solidità, che però è legata, proiettata, spostata, ma che lascia un suo residuo molto importante.
Vorrei dire la cosa in un altro modo: la psicoanalisi più di qualunque altra scienza e altro metodo si occupa del palinsesto sensoriale.
Che cos’è un palinsesto? Un palinsesto è una struttura originaria, sulla quale si scrivono molte altre cose. Si aggiunge un’altra scrittura e poi ancora un’altra. Si può dire, utilizzando un concetto fin troppo noto, che la memoria rielabora, modifica, sposta sulla base delle pulsioni e sulla base delle difese. E di nuovo: veramente sposta tutto? Io penso che ci sia invece qualcosa che rimane come bloccato, forte, imponente, immodificabile, che viene anche modificato, con modalità, che non sono quelle abituali della rimozione, dell’associazione, dell’immaginazione e degli altri meccanismi di difesa, ma qualcosa che resta fisso. A me farebbe piacere discutere con voi di questa fissità (Correale, 2021).
C’è una fissità, che deriva dal fatto che certe percezioni non sono state rimosse, ma, invece, hanno mantenuto una sorta di rigidità. Questa sorta di rigidità si verifica prevalentemente nel trauma e nella psicosi; o meglio, si verifica tutte le volte, che non c’è un soggetto interagente, che condivida in modo adeguato la sensorialità. Non si condivide solo il pensiero, l’immaginazione, l’emozione, ma quella base quasi fisica, oserei dire, che sta nella percezione, anzi nella sensazione e che molto spesso il soggetto vive da solo (Correale, 2021).
Ho la convinzione che tutte le patologie, ma in particolare le patologie gravi, siano legate al fatto, che una quota della sensorialità è stata vissuta in solitudine; forse è stata condivisa una certa emozione, o una certa immaginazione, ma non è stata condivisa la possibilità di quell’impatto, che il dato sensoriale ha sulla persona.
Un impatto non condiviso. L’impatto può essere qualunque cosa: può essere un insetto, può essere una faccia, un abisso che ci sta davanti, può essere un gelato da leccare. Può essere qualunque cosa: quello che mi affascina e mi ha sempre affascinato della psicoanalisi, è che da questo dato originario, nasce qualcosa che si sviluppa in tutte le direzioni, ma che rimane legato a questo.
Lo si può dire in tanti modi, lo si può dire parlando di livello simbolico, sub-simbolico, simbolismo verbale o non verbale (Bucci, 2016), ma io vi citerei Freud che mi pare tutto sommato la fonte che ci ha lasciato un’eredità talmente immensa che non possiamo in alcun modo trascurarla. Freud dice appunto che l’oggetto mantiene in sé qualcosa di estraneo (Freud, 1895).
Freud introduce anche il concetto di rimozione originaria (Freud, 1915): qualche dato sensoriale è talmente forte, talmente intenso, talmente potente, talmente invadente, talmente accecante, che non valgono i meccanismi consueti per spostarlo, rimuoverlo, giocarci sopra, crearci libere associazioni.
Io aggiungerei: questa potenza della percezione induce la rimozione originaria, perché i meccanismi di rimozione normale non sono, come dire, utilizzabili. E tutto questo avviene in assenza di un altro che aiuti il soggetto percettivo a fare propria questa percezione.
Come agisce la rimozione originaria? Viene fissata e viene contro-investita. A me sembra un punto molto importante che ci aiuta moltissimo anche nelle patologie gravi. E in che consiste la fissazione? Che in qualche modo dei dettagli sensoriali – un rosso, un occhio, una voce, un gesto, un temporale, il gemito di una volpe, la faccia di una persona che ha mal di denti, un lupo che corre, un bambino che gioca e via dicendo – possono avere un carattere così potente da diventare qualcosa che forse in ambito non freudiano, lacaniano, si potrebbe definire il reale. C’è qualcosa che ha in sé una potenza irriducibile.
Questo è molto noto agli psicotici, è molto noto ai borderline, per motivi diversi che vedremo insieme ma, secondo me, avviene a tutti i livelli della organizzazione psichica.
E quindi ancora, in che consiste la fissazione? È troppo forte questa intensità, è troppo potente un colore, un sapore, c’è una invadenza, una potenza, che non si può ridurre con la semplice libera associazione. E non si può neanche trasformare in fantasma.
Il fantasma in fondo che cos’è? È l’oggetto che ha subito le nostre pulsioni, i nostri desideri e le nostre difese e quindi è un oggetto modificato. Poi il fantasma a sua volta darà origine alla fantasia e ci saranno tutte le conflittualità, legate all’immaginazione, all’identificazione, ai ricordi e così via.
Ma io sono interessato a proporvi una dimensione che è ancora più originaria: il momento in cui dall’oggetto, si passa al fantasma. Non dal fantasma alla fantasia. E, in qualche modo, come avviene che questo fantasma si impregni troppo dell’oggetto?
Faccio degli esempi per spiegarmi meglio.
Un mio paziente psicotico dice: “Sa, io non riesco a pensare a niente, leggo un libro e mi distraggo, parlo con una persona e mi distraggo; parlo con mia madre e mi stanco; parlo con lei e mi affatico, mi fa fatica tutto. Gli chiedo: “Mi parli di questa fatica”. Risponde: “Sa, (questo paziente ha un padre molto malato, uno psicotico che urla continuamente) non mi riesco a cacciare dalla testa la faccia torva di mio padre. L’ho sempre in testa, come se fosse qualcosa che sta lì, ma sta anche dentro. Sta come a metà e non ci posso fare niente. È torva quella faccia e resta torva. Ecco io posso dire mio padre è malato, mio padre è psicotico e dovrebbe andare a curarsi. Parto e lascio la casa, ma non ce la faccio, perché questa faccia torva mi impegna in un modo potentissimo e mi impedisce di pensare ad altro”.
Si può dire che c’è stata una fissazione di questo eccesso, di questa faccia urlante, un po’ addolorata, un po’ violenta, un po’ brutale, un po’ disperata, un po’ moribonda, un po’ troppo vitale … troppe cose. Tutto condensato in una immagine che non si può elaborare: rimane fissa così.
Diventa necessario fare un controinvestimento: cioè, la sposto. Allora penso che mio padre – non so – ha degli occhi tristi; mi concentro su questi occhi tristi e rimangono fissi anche quelli. Il controinvestimento sposta dal generale al particolare, ma non permette al particolare di diventare a sua volta qualche altra cosa.
Potremmo dire che la fissità e il controinvestimento, cioè l’investire un particolare al posto del tutto, siano modalità che fanno parte della rimozione originaria – come certamente tutti voi ricorderete –, ma questa rimozione primaria avviene quando l’Io non è in grado di fare l’operazione della rimozione secondaria.
A me sembra che questo punto sia fondamentale. L’Io dello psicotico è leggero, è debole. L’Io del traumatizzato è momentaneamente messo fuori uso dal trauma.
Ma tutti noi in certi momenti abbiamo delle oscillazioni nelle funzioni dell’Io. Tutti noi siamo candidati, senza volere e senza poterci fare molto, a delle immagini, che poi sono sensazioni, dati sensoriali, le quali sono fissate.
Io credo che liberarsi dalle fissazioni, dalle immagini fissate, sia uno dei grandi compiti della psicoanalisi. Perché tutti noi siamo ossessionati, perseguitati da un fondo sensoriale che sta dietro le ideologie, i pensieri, i ragionamenti, i concetti. Ma anche dietro l’amore, dietro l’odio, dietro, in fondo, alle basi emotive. Io propongo l’idea, che mi pare faccia parte del metodo psicoanalitico e che sia anche un’idea molto freudiana, che ci sia alla base di ogni pensiero una controparte sensoriale.
E questa controparte – che proveremo a guardare insieme – ha qualcosa che si rinforza in tutti quei momenti in cui l’Io non ha il supporto di un altro Io che lo aiuti in qualche modo.
In questi casi, l’oggetto sensoriale si fa padrone dell’Io, non l’identificazione che è ancora un’altra cosa, proprio l’oggetto.
Pensiamo a un’altra immagine.
Un paziente cammina per strada, è depresso, ha un fondo malinconico e vede un palazzo romano; sono le dieci del mattino, va a comprare il giornale e vede un palazzo romano illuminato dal sole. Prova un sentimento di gioia di qualche secondo.
Che cosa è successo? Che cosa c’è in questo palazzo illuminato dal sole che dà a questo personaggio malinconico l’idea che invece in quel momento si può concedere un attimo di gioia? Che cosa è successo? Quali sono le percezioni, le sensazioni? La luce, la luminosità, la forma più nitida, l’idea di qualcosa di molto lontano come il sole si rende vicina, illumina e riscalda. Quindi, forse, possiamo parlare di un gioco di distanza-lontananza-vicinanza? Che cosa è successo a questa persona, per cui questo dato banalissimo percettivo “sto guardando un palazzo romano dominato dal sole” diventa invece una ricchezza di potenzialità?
Io credo che l’analisi ci permetta di approfondire che cosa sia successo a quella persona, quando ha avuto quell’attimo di gioia nel guardare il palazzo illuminato dal sole.
Il soggetto malinconico guarda il palazzo illuminato dal sole e quindi prova un sentimento adeguato al gioco di rimozioni e di fantasmi che si creano intorno a questo palazzo.
Invece, nel mio paziente psicotico, che non riesce a guardare nessuno, l’immagine torva del padre lo perseguita, gli occupa la mente, lo ostruisce, gli impedisce di osservare, di pensare, come se fosse invaso da un calabrone che gira nello spazio della sua testa e ronza in modo tale, che si sente soltanto il ronzio di questo calabrone e nient’altro.
Se le cose stanno così – come dire l’articolazione fissato-rimosso, bloccato-in parte fluidificato – è possibile che la percezione si muova su questo terreno? La percezione ha come destino la fissazione, e poi un controinvestimento, per cercare di difendersi dell’impatto spostandolo sul particolare, oppure si può attivare un gioco di processi, che sicuramente lascia adito ai conflitti dei fantasmi, ai conflitti amore-odio, ai ricordi nascosti, ma che in qualche modo fluidifica? E qual è la differenza?
Sicuramente una differenza è il linguaggio, cioè nella rimozione è in gioco la verbalizzazione, mentre nella rimozione primaria non lo è. Ora, sarebbe molto importante chiedersi se questa idea della rimozione primaria ha qualcosa a che fare con altri metodi, che sono stati individuati come difesa dalle percezioni troppo forti, come la identificazione proiettiva, ma prima ancora con quella modalità del rigetto freudiano, ripreso dalla forclusione di Lacan (Lacan, 1955-1956).
Ecco, la rimozione primaria ha qualcosa a che fare con la forclusione? Oppure la forclusione è un momento secondario? Quando questa immagine bloccata-fissata dalla rimozione originaria, occupa troppo spazio, allora si ha una forclusione, cioè una fuoriuscita.
In fondo, che cos’è la forclusione? Proprio una fuoriuscita, un’espulsione dal linguaggio.
Ma è un’espulsione o una perdita? Noi siamo stati abituati a pensare alla psicosi come qualcosa che continuamente si espelle. Ma tutto si espelle? Non è piuttosto proprio un non riuscire ad espellere, un non riuscire a evacuare? Perché qualcosa esce senz’altro dal linguaggio, ma rimane sotto forma di una cosa.
Ritorniamo al discorso della cosa.
Freud, negli scritti sulla metapsicologia, quando parla dell’inconscio e della rimozione, dice questa frase densa di significati, ma anche un po’ oscura, su cui ho tanto riflettuto e su cui è stato fatto e scritto molto.
Freud dice “dalla cosa alla parola”, “l’inconscio è fatto di cose” (le parole sono appunto linguaggio) e per passare dall’inconscio al preconscio bisogna attribuire parole alle cose.
Ma che cosa sono le cose? Che cos’è la cosa?
Proporrei l’idea che la cosa è l’oggetto iper-percettivo, iper-forte come intensità, è una sensazione potente e questa sensazione potente non ha ancora incontrato una parola, che da un lato la indebolisca, ma dall’altro la potenzi.
Il linguaggio serve a potenziare, arricchire, definire, comunicare, trasmettere, abbellire la cosa, ma in una certa misura anche ne diminuisce l’intensità.
Quindi ancora che cos’è la cosa? È la sensazione: è il rosso, è la piega delle labbra, sono le oscillazioni del mare, la luna. Ecco, cioè, tutte queste cose, che noi chiamiamo “luna” “mare”, in realtà all’origine sono sensazioni: l’azzurro, il movimento, la luminosità, la potenza, la circolarità, il crollo, l’alzarsi, il cadere.
Quello che a me interessa molto e mi sembra che sia proprio infondo la ragione di vita della psicoanalisi: qual è l’impatto dell’oggetto sulla persona, sul soggetto all’inizio. Che cosa accade quando io mi scontro con qualche cosa, che sta fuori di me e che c’è. C’è qualche cosa che sta fuori di me. Poi questa cosa io la amo, la odio, la temo, la gestisco, io la capisco o non la capisco. C’è un fondo di alterità irriducibile che potrebbe essere la cosa. È chiaro che la cosa non è mai neutra è qualcosa che o entra, o esce, o mi circonda, o mi avvolge, o mi indebolisce, o mi ravviva (Freud, 1925).
Lo psicotico vive in un mondo di cose e ha difficoltà a trasformarle in parole.
Ma perché ha questa difficoltà? Questo accade perché queste cose sono troppo potenti, perché la percezione è troppo potente e lo psicotico, ma non solo lui, ma lui più di tutti gli altri, è stato lasciato solo con le sue percezioni.
Si potrebbe dire questa idea in un modo più tradizionale. Si potrebbe dire, ad esempio, che la madre non ha avuto abbastanza rêverie (Bion, 1962a e 1962b).
Ma in fondo, forse, anche la rêverie, di cui tanto si parla, è una parola, che è stata a mio parere un po’ troppo abusata.
Ritorniamo al concetto base: che cos’è la rêverie? Fornire un’immagine a un’emozione. La rêverie è un’immagine.
Anche il sogno è fatto di immagini e Freud ce l’ha spiegato in un modo meraviglioso nell’Interpretazione dei sogni (Freud, 1900).
Le immagini che cosa sono? Sono derivati sensoriali che possono essere in parte modificati, ma in gran parte mantengono qualcosa del dato sensoriale originale.
La madre, il padre, il fratello, la sorella, ma prima di tutti la madre, dovrebbe avere questa capacità di condividere e di immaginare una sensorialità che sia comune a lei e al bambino o alla bambina. Perché io credo che molto spesso le madri, i padri – anche gli analisti forse – condividono le emozioni, condividono pensieri, condividono e interpretano ciò che è nascosto, ma non sempre percepiscono fino infondo quanto è potente il dato sensoriale originario. Questo mi sembra un punto fondamentale.
Un altro aspetto.
Se la sensorialità è troppo forte, le cose vanno come se si perdesse il contesto. La sensorialità troppo forte risulta decontestualizza: “è troppo rosso!” Basta! C’è solo il rosso; “È troppo veloce la caduta!” C’è solo la caduta. Ricordiamo i quadri di Burri o di Rothko. Sono dei grandi colori e basta. E quel colore, per il fatto che è decontestualizzato, “questo colore e basta”, si colloca su un fondo di spazio immenso. Se la sensorialità è troppo forte, si spalanca l’infinito. Noi siamo abituati a figura-sfondo, ma se lo sfondo non c’è più, la figura dove sta? È appesa. A che cosa? A un’immensità, che gli sta dietro e che non si sa dov’è.
Io penso che una buona parte dello smarrimento degli psicotici. Ma io direi anche buona parte dei borderline, ma anche, in certi momenti, di tutti noi, si verifica quando la sensorialità assume un carattere talmente forte che il contesto si perde.
A che cosa è appesa questa percezione? A cosa è appesa questa sensazione? Il mondo si frammenta e si divide in immagini iper-incandescenti, ma senza una contestualizzazione.
Si dice che clinicamente questo è valido soprattutto per gli psicotici, ma non solo loro: non mi voglio occupare solo dello psicotico. Gli psicotici sono all’estremità di questo.
Allora questa frammentazione ci impone clinicamente di utilizzare una funzione di contenitore. Si dice: “gli psicotici innanzitutto hanno, ma non solo loro, all’inizio tutti, hanno bisogno di un contenitore”.
Ma questo contenitore può essere due cose: può essere un contenitore puro, un deposito, come diceva Bleger (Bleger, 1967). Oppure questo contenitore può essere invece un luogo, dove si riesce a fluidificare la sensorialità.
Io credo che, se ci si concentra sul tema della sensorialità, come una tappa necessaria per, da una parte tornare verso l’origine dell’oggetto, dall’altra andare verso l’immaginazione, il fantasma, la fantasia, è necessario che ci sia un contenitore, che faccia sì che questa iper-sensorialità non venga a espandersi esageratamente senza uno sfondo e quindi a frammentarsi.
Per fare questo, io credo che siano necessari alcuni aggiustamenti del metodo. Credo che questa operazione sulla sensorialità vada facilitata, amplificata, allargata: bisogna cogliere i particolari.
È necessario che l’analista si metta accanto al paziente, dicendo “vediamo un po’ questo rosso”, “vediamo un po’ questa bocca”, “vediamo un po’ queste labbra o queste mani”, “vediamo un po’ questa faccia torva”. Che si metta in una posizione di un io che avvicina, accosta, unisce. Come dire: “ci sono anche io a vedere questa faccia torva”; “non ti lascio da solo e non ti dico subito che cos’è, ma la guardiamo insieme”.
E per far questo è necessario non che ci siano delle rotture del setting, spero sia chiaro questo, ma che ci sia un linguaggio che faccia capire al nostro paziente, psicotico o non psicotico, se è psicotico in maniera massima, se non è psicotico in maniera minore, che io guardo con lui o con lei le cose che l’hanno colpito, o ascolto con lui o con lei le cose che l’hanno colpito.
Questo mi sembra molto importante: condividere la sensorialità presuppone un atteggiamento più attivo: “ma come era questa cosa? Me la dica un po’ meglio”. È molto importante, che questo atteggiamento venga sottolineato e valorizzato.
Perché soltanto un linguaggio che tenga conto che sono lì con te a vedere questa cosa arriva al paziente, e il paziente dice “questa persona c’è”. Il setting ovviamente è importante per fare questo, altrimenti si rischia di fare delle confusioni spaventose. Ma è fondamentale questa idea di un contesto perduto, di un deposito, che all’inizio è solo un deposito, ma poi col tempo diventa una fluidificazione e un arricchimento. Questo mio paziente della faccia torva, ad esempio, all’inizio pensava di essere soltanto malato, che non capiva nulla e basta. Per arrivare alla faccia torva noi abbiamo dovuto indagare approfonditamente tutte le sue esperienze vissute. Poi da questa faccia torva siamo arrivati a questo padre, a che tipo è questo padre e che tipo di malattia può avere, come ci si può difendere da questa malattia, come si può cercare di far sì che la convivenza continua con questo padre non diventi una forma di contagio invincibile.
Un altro piccolo passo: il corpo.
Se noi accettiamo l’idea che la sensazione/percezione possa avere dei gradi di intensità tali, che determinano delle fissazioni e che questi gradi di intensità si verifichino nelle due direzioni, verso il soggetto e verso l’oggetto e che siano un po’ a metà del passaggio, allora noi possiamo dire: qui c’entra molto il corpo.
L’iper-sensorialità si colloca nel corpo delle persone che la provano, non è solo “io guardo”, ma è anche sento, annuso, tocco, gusto. Questo è molto importante: se la sensorialità coinvolge più sensi, coinvolge anche dei vissuti corporei. È molto importante rendersi conto che, quando un paziente mi dice “ho visto una faccia torva”, non l’ha vista e si è spaventato, ma è diventato lui stesso un po’ una faccia torva, un po’ una persona che aveva forse l’idea di un qualcosa che gli entrava dentro.
Porto altri esempi.
Una paziente dice ad una analista: “Sa io sono nata prematura, certe volte mi immagino come dovevo essere in quella incubatrice, forse assomigliavo a un ranocchio”. Questa frase esprime la fantasia di questa persona, che si immagina di essere come un ranocchio in una incubatrice. Ma siamo sicuri che sia tutto qui? Questa persona si immagina in certi momenti di sentirsi come un ranocchio. Come si sente un ranocchio? Io non lo so questo, ma lo posso immaginare. Come si sente un ranocchio? Gambe piccole, sta in mezzo all’acqua e mezzo fuori, vede solamente alcune cose del mondo e del resto non ne capisce nulla, è un animale a sangue freddo.
Si può immaginare che la fantasia che si colloca intorno a una immagine rigida sia però qualcosa che modifica lo stato del corpo stesso e, se noi non ci mettiamo in sintonia con questa modifica del corpo, lo stato del corpo rimane come dire “tutto suo” (Racalbuto, 1994).
Quello che può accadere è che, anche se questa identificazione percettiva risulta essere corretta, tuttavia non è sufficientemente ricca da includere anche le modifiche.
Freud si è sempre voluto continuamente appoggiare al corpo: le fasi, le zone erogene, i fantasmi originari. La scena primaria, la castrazione, la seduzione, sono solo fantasmi? O non sono anche stati a cui i fantasmi originari cercano di dare un contenuto?
Pensiamo alla castrazione. La castrazione, detta così, è un po’ stantio come concetto. Ma se invece lo vediamo come perdita, macerazione, mutilazione, mancanza, handicap, perdita di vitalità, allora è tutto un altro discorso.
È come se fosse un bisogno della mente umana di identificare in un punto, qualcosa che è collocata in quel punto, ma ha molto di più da dire che non quel punto.
E lo stesso la scena primaria. Pensiamo all’uomo dei lupi. Un bambino vede i genitori fare l’amore e vede sei lupi che lo guardano dall’albero e lo fissano. Cosa è diventata quella scena primaria? È diventata uno sguardo, una paralisi, un terrore, una sottomissione, una violenza. E così la seduzione, la sessualità nascosta della madre, i suoi sogni perduti, direbbe Bollas (Bollas, 2001), i suoi amanti sognati e mai raggiunti, le sue difficoltà fisiche. Soltanto attraverso fantasie o attraverso emozioni o esperienze sensoriali?
Oppure se un paziente ci dice: “io mi sento intossicato da mio padre”. È un delirio? “Certe volte mi sembra che mio padre mi avveleni”. Certo detto così sembra un delirio, ma in realtà non potrebbe essere che questo paziente ha visto il corpo del padre malato, il corpo del padre arrabbiato, il corpo del padre stanco, il corpo del padre bianco, il corpo del padre ferito o con dei nei, con delle ginocchia ossute, con un gomito puntuto, con degli occhi cisposi e che sputacchia e che fa dei rumori mentre mastica? Tutto questo gli è entrato dentro, si potrebbe dire, tramite una identificazione? Sì, forse è una identificazione, ma è più di una identificazione: forse è quasi un contagio, quasi un compartecipare alla sensorialità. Mio padre mi è entrato dentro.
Certo si può usare il concetto dell’identificazione, ma a mio parere bisogna utilizzarlo con una sensorialità amplificata. Assistere un malato, spostargli i cuscini, mettergli il pigiama, pulirlo mentre si sporca. Sono cose enormi, sono cose che lasciano una traccia spaventosa, gigantesca, perché il mio corpo si contamina.
Pensiamo anche all’enorme importanza che ha il grande tema della contaminazione, della purezza: è uno degli architravi della civiltà: sporco-pulito, contaminato-non contaminato, la purezza, la sessualità (Douglas, 2014).
Ma che cos’è la contaminazione se non l’idea di qualche cosa del corpo di un altro che mi entra dentro e mi lascia una traccia. Non parliamo delle violenze, non parliamo degli stupri, non parliamo delle perversioni a maggior ragione, ma anche semplicemente di una iper-vicinanza. “L’Io innanzitutto è un io corporeo” (Freud, 1922). E poi dopo aggiunge: “La superficie del corpo è fatta di tanti punti sensibili e ognuno di questi contribuisce all’Io”. Ma che vuol dire? Vuol dire che l’Io per sentirsi io deve appoggiarsi alle sensazioni. Anche l’Io pelle di Anzieu, i significanti formali (Anzieu, 1987a e 1987b), oppure il pittogramma della Aulagnier (1975): sono tutte concezioni che cercano di identificare l’impatto dell’altro su di noi.
Che cos’è che manca in tutto questo? Un altro soggetto – e qui l’importanza della relazione è fondamentale – che mi dica “ci sono anch’io e questa cosa la vediamo insieme. E questo tuo padre che ha il petto incavato, la pancia troppo grossa, i gomiti appuntiti o una ferita e ha un eczema – che ne so – sulla spalla che ti ha fatto schifo guardare. Lo guardiamo insieme. Vediamo un po’ che effetto ti ha fatto fino in fondo”. Oppure un altro esempio. Un ragazzo difficile si sente come se fosse un brutto anatroccolo. Che vuol dire? Vuol dire che è soltanto una metafora? Oppure in certi momenti si sente proprio così, come se camminasse in un modo buffo, come se avesse le ali accorciate, come se avesse un becco un po’ ridicolo.
Forse io sto dando troppa importanza alle metafore, ma queste metafore sono metafore iper-sensorializzate, sono modi di sentirsi. Se ci si riesce a sintonizzare con questi aspetti, non le si considera soltanto come immagini, ma come stati.
Aggiungerei ancora senza andare troppo oltre.
Questa sensorialità diffusa, ipertrofica, eccessiva, che non riesce a trovare una sua strada, perché non c’è qualcuno che faccia, da tramite col linguaggio, richiede un tempo. Non bisogna subito verbalizzare.
Bisogna soffermarsi sulla sensorialità. Soffermarsi. Vediamo i particolari, tutti i sottili aspetti che può avere questa sensorialità perché, se si fa questo, se ci si sofferma insieme su questa acqua, su questo brodo, poi dopo si può verbalizzare. Ma prima bisogna stare lì, altrimenti il paziente o la paziente, sente che qualcosa rimane non detto, qualcosa rimane fuori. Amplificare, allargare i dettagli, rimanere sopra alla cosa e non passare subito dopo.
Nel nostro mondo, soffermarsi è diventata una cosa rara, ogni giorno c’è sempre qualcosa di nuovo. Sembra che quello che bisogna fare sia non fermarsi mai e andare avanti. A me non piace l’idea di fermarsi, ma di soffermarsi. Cosa vuol dire soffermarsi? Ritornare. Freud, ne La negazione (Freud, 1925) dice una cosa che mi ha sempre colpito. Freud dice che, se una cosa la percepiamo per la prima volta, noi la percepiamo, ma immediatamente la sottoponiamo a un mi piace o non mi piace, accettazione-rifiuto. In questo modo, questo mi piace-non mi piace, implica un tale lavorio su quella cosa, che quella cosa percepita resta anche sospesa. Freud dice che per poter dire veramente che si è visto qualcosa bisogna poterci ritornare, riviverla. Questo suffisso “ri” cambia tutto: non viverla ma ri-viverla. La percezione dovrebbe avere due fasi: una e poi due per ritornare su quella cosa.
Ritornare sulle cose vuol dire non perdersi l’enorme quantità di implicazioni, di inconsci, di lacerazioni, sottintesi e arricchimenti, che ci sono e riportarle. Io penso che Freud dicesse anche questo e abbia dato un contributo gigantesco al vivere le nostre cose della vita in modo più pieno.
Bisogna ritornare sulle cose; una percezione vissuta solo una volta rimane sospesa: è proprio sicuro? Altrimenti può diventare un’allucinazione. Mentre se invece noi ci ritorniamo: è proprio questa cosa?
Forse questa è un’idea più fenomenologica che psicoanalitica, però è importante. A me sembra bello, ad esempio, quando si dice “ritorna alla realtà” pensare che non significa dire “accontentati delle cose come sono”, “chi si accontenta gode” e tutte queste stupidaggini. Ma è come dire: la realtà ha qualcosa di molto più ricco e se tu la vedi solamente da un punto di vista del tuo fantasma, o della tua immaginazione o delle tue nevrosi o, peggio ancora, attraverso una iper-sensorialità fissata la realtà non la scopri. La realtà ha tanto da dire di buono e di pessimo intendiamoci. Però è anche il mondo in cui siamo capitati. Quanto facciamo parlare le cose? I poeti lo sanno fare, gli scrittori lo sanno fare, gli scienziati lo fanno a modo loro. E noi lo facciamo fino in fondo? O vediamo sempre quelle quattro cinque cose che ci stanno sempre in testa? Ecco questo mi sembra un punto molto importante rivivere, ritornare.
Tutto questo discorso si può applicare anche a un collettivo, a un gruppo? Io penso di sì.
Pensiamo alle istituzioni. Che cos’è una istituzione? L’istituzione ha una doppia natura.
Innanzitutto, serve per raggiungere degli scopi – punto fondamentale – la scuola, la giustizia, le banche, l’economia, la polizia e naturalmente la psicoanalisi. Ad esempio, l’istituzione serve per diffondere la psicoanalisi. Però l’istituzione ha anche un altro aspetto fondamentale, centrale e spesso non detto. L’istituzione ha un dentro rispetto a un fuori. E questo dentro e fuori è cruciale. Ci sto dentro o no? Mi cacciano, comando o obbedisco? Sto al caldo o al freddo? Ho un’identità o non ho un’identità? (Correale, 1991; Perini, 2015; Obholzer, 2019).
Le due cose non vanno per forza in comune accordo. Per poter stare dentro posso rinunciare a una dimensione più soggettiva in nome dello stare dentro. Oppure mi preme talmente la mia dimensione soggettiva, che lo stare dentro non mi interessa più e allora mi metto in una posizione di continuo scontro.
Si crea così una contraddizione tra i due punti: dentro-fuori e la finalità, obiettivo/compito da raggiungere. L’istituzione si presta enormemente a questa ambiguità, perché da una parte si presta a un servizio, dall’altra ha un dentro. Questo dentro può essere vissuto come un potere, come una vicinanza, come un calore, come ricchezza, come una povertà, come una fatica. È possibile che una istituzione che si stratifica nella sua storia, nelle sue idee, nelle sue ideologie, abbia anche questa profonda contradizione in se stessa, che può diventare qualcosa che perde, perché il suo dentro diventa più importante del suo compito. Il movimento istituzionale diventa più importante del suo compito.
Ritorniamo alla sensorialità. Prendiamo Psicologia delle masse e analisi dell’Io (Freud, 1921). Che cosa vuol dire massificarsi? Rinunciare alla propria soggettività ci dà piacere, perché ci fa piacere stare dentro a qualche cosa.
Ci liberiamo di noi, quanto è bello obbedire! E che fatica invece scegliere sempre, come diceva Sartre (Sartre, 1946), la fatica dell’essere umano è scegliere.
È molto più bello non scegliere, ma andare col fiume, con l’andazzo.
C’entrerà la pulsione di morte? Freud dice: quando il gruppo si fa massa, si segue un’emozione, si distrugge la soggettività e si seguono delle immagini. La massa segue delle immagini. Segue dati sensoriali. Un mio paziente mi ha detto: “Non pensa che se Hitler non avesse avuto quei baffetti, sarebbe stato comunque Hitler?” Una battuta cretina se volete, ma non lo è del tutto. Che cosa c’era in quei baffi che esercitavano qualcosa? Non erano solo quelli naturalmente, ma c’è qualcosa, un’immagine, che gioca una parte inconscia/non detta e che ha un ruolo in tutto questo.
Si potrebbe dire che il dentro che è tanto importante per le istituzioni lavora anche tramite le immagini. I dati sensoriali diventano immagini, e l’immagine è a metà tra la sensazione e l’immaginazione.
Propongo l’idea che anche nelle istituzioni ci possa essere un’iper-sensorialità diffusa.
Laura Ambrosiano ha detto qualcosa di simile nel suo libro molto interessante scritto con Eugenio Gaburri (Gaburri & Ambrosiano, 2014), sulla influenza che la massa può avere sulle identificazioni. Anche la massa può avere questo impatto, non solo i genitori.
Un elemento diffuso, un elemento non precisato, propone delle immagini, che non sono solo visive.
Noi quando pensiamo alle immagini pensiamo solo a quelle visive. Ma pensiamo al tatto per esempio. Una mia paziente mi diceva: “Quando entro in un istituto universitario mi sembra come di entrare in un bellissimo brodo caldo che avvolge”. Come possiamo pensare questa equivalenza tra istituzione e brodo? Lo diceva anche Bleger (Bleger, 1970).
Egli diceva che nelle istituzioni ci sono delle aree mute, cioè aree che si sentono, ma non si vedono, che si percepiscono, ma non si identificano. Direi che questa è la sensorialità.
Essere avvolto da qualcosa, essere circondato da qualcosa essere punto da qualcosa, essere stimolato da qualcosa, che non si sa bene che cos’è.
Un concetto simile a questo dell’area muta è il concetto di atmosfera. Ci sono degli studiosi che studiano questo concetto. Un concetto un po’ vago sono d’accordo, ma non così vago. Perché in fondo cos’è l’atmosfera? È una cosa che non è del tutto una cosa, si sente ma non si vede. Si percepisce una pressione, una esaltazione, una chiusura, una apertura, una finestra aperta o chiusa, un limite, uno stare attento a non rompere un oggetto di cristallo. Ecco sono tutte cose che ci possono dire come una istituzione può, attraverso la presentificazioni di certe immagini che a loro volta agiscono su dati sensoriali, influenzare il singolo verso un elemento molto primordiale ed esercitare un’influenza che può essere positiva o negativa. A questo punto ognuno può fare i conti con la propria istituzione e chiedersi quanto tutto questo valga per essa. E questo può avvenire anche a livello collettivo.
Noi viviamo in una società in cui le immagini sono prevalenti, ma sono immagini aperte o chiuse? Sono immagini che permettono una fluidificazione, un arricchimento o sono immagini che ipnotizzano? Freud dice che in fondo la leadership è una forma di ipnosi, perché è un soggetto che si mette al posto di un altro soggetto e viene introiettato (Freud, 1921).
Io penso che un elemento ipnotico sia molto presente nella nostra società. Pensiamo alla pubblicità o alla televisione: “Vi facciamo vedere le immagini”. Io tremo quando sento questo: se vediamo le immagini ci capiamo qualcosa di più? Qualcosa di più magari sì, ma anche qualcosa di meno. Perché un’immagine poi si blocca là.
Allora io direi che potremmo riassumere tutto questo discorso in questo modo: come ci si può liberare dalla fissità, dall’elemento ipnotizzante delle immagini?
Provo a rispondere: ci si può liberare, se l’analista non si precipita a interpretare, anche se l’interpretazione rimane lo strumento principale, perché non solo svela il nascosto, ma permette di vedere le cose anche da un altro punto di vista e questo è fondamentale.
In questo c’è un corpo a corpo con i pazienti. Perché il paziente sente che l’analista non solo guarda le cose con lui, ma le vede in maniera diversa. Questa è una contraddizione, è una somiglianza e una differenza. E questa differenza può creare sconcerti, timori, agitazioni.
Bion dice che due persone in una stanza devono provare terrore. Lasciamo stare il terrore, però un po’ di preoccupazione sì.
Se le cose stanno così propongo che una misura più attiva, più partecipe, un lieve atteggiamento indagatorio, anche se rispettoso del tipo “ma questa cosa lei l’ha detta, la vogliamo vedere un po’ meglio?”. Cosa c’è di male nel dire questo?
Ci sono questi pazienti ipernormali, i famosi normotici di Bollas (Bollas, 1989), che odiano quella che non è la pura, semplice e banale sensorialità di base, che non è la sensorialità di cui parlavo io che invece è molto ricca di condensazioni, spostamenti e sfumature. È una specie di ossessività sensoriale, si vede quella e nient’altro.
Rompere questo tipo di sensorialità vuol dire affrontare ansie, momenti dolorosi, ma si può fare se noi ci concentriamo sui particolari (Ginzburg, 1979).
Io penso che la psicoanalisi abbia questi due grandi pilastri: soffermarsi e cercare i particolari.
I sogni alla fine, si interpretano sui particolari, non sul contenuto generale. Quella è una elaborazione secondaria.
Il sogno è un agglomerato di particolari a cui le nostre difese danno una cornice narrativa, ma di fatto non è così. Se c’è una macchina rotta, focalizziamoci su di essa, se torna una faccia torva rimaniamo sulla faccia torva. Se ci sono dei capelli lunghi e biondi anche. Indagare, soffermarsi sui particolari, amplificare, allargare è una fase intermedia tra il racconto, la sensorialità e l’interpretazione. Ma se non c’è questa fase intermedia, il rischio è che l’interpretazione si sovrapponga al dato sensoriale e non colga che ci sia tutto un lavoro intermedio da fare.
Qui c’entra il transfert e il controtransfert e c’entra poi la capacità dell’analista di non farsi invadere e neanche di farsi invadere troppo poco. La sensorialità del paziente deve diventare qualcosa che insieme si guarda e non solo la sensorialità visiva ma tutta la sensorialità.
Un’ultima cosa sulle identificazioni primarie e secondarie. L’identificazione traumatica comporta una invasione del soggetto da parte dell’altro. È utile allora proporre che ogni identificazione debba avere una piccola sfumatura di lutto? Dove per lutto intendo qualcosa che riguarda il tempo, perché un amore che ignori il tempo o un odio che ignori il tempo non rischia poi di diventare una immagine identificatoria rigida? Non diventa una invasione? È come se una madre o un padre, o le persone che si occupano del bambino, dovessero dare l’idea che ci sono loro, ci sono il bambino o la bambina, magari dei fratelli o sorelle, e un contesto fuori. Che cosa permette questa terzietà? Il gioco, il racconto. In fondo il gioco, e in questo Winnicott (Winnicott, 1971) ci ha dato un contributo estremamente potente, che cos’è? È quello che mette insieme la sensorialità, l’immaginazione e una figura in un contesto. Un trenino è un trenino ma è anche il papà, il fratellino, un fallo, la sorellina appena nata, un oggetto rosso. E se non riusciamo a mettere insieme, tra due persone che si occupano uno dell’altra, anche questa dimensione contestualizzante può esserci un rischio.
Se la madre invece dice: “Figlio mio, tu sei l’unica cosa, per cui vale la pena di vivere”. Ho sentite dire queste cose tremende: “Tu sei tutta la mia vita”. Tutto il resto che fine ha fatto? “Per mia madre non esiste il mondo, esisto io; per mio padre non esiste il mondo esisto io”. Queste sono identificazioni intrusive gigantesche che ho sentito dire con dolore, angoscia, anche per la sofferenza delle persone che le dicono. Perché è chiaro che persone che dicono così non sono persone cattive, ma sono persone disperate, vuote, sofferenti. Però diventano in qualche modo cattive perché scaricano sul figlio una modalità identificatoria, che lo paralizza.
Fatemi dire un’ultima parola anche scherzosa. Vi ricordate quando Bion parla degli elementi beta? Elementi grezzi. Ma perché grezzi? I dati grezzi contengono tante cose dentro. Voi direte sono grezzi, se non si vedono le cose che ci sono dentro, ma la sensorialità è un gigantesco discorso e bisogna farglielo fare, questo gigantesco discorso, anche alle immagini.
E le immagini, che sono un derivato della sensorialità, quasi sempre contengono un discorso che non viene fatto e ci si ferma là.
Io concluderei con questa battuta.
Ero a Firenze e passeggiavo per la città. Sono andato a vedere le porte del Paradiso del battistero. Sono delle porte con delle sculture su uno sfondo d’oro con storie bibliche. Sono meravigliose. E Michelangelo era talmente ammirato da queste porte che le chiamò le porte del Paradiso. Ghiberti, lo scultore, quanti anni ci ha messo a fare queste porte? Ventisette anni! E sapete quanto tempo in media le persone passano di fronte a queste porte? Tre minuti.
A me questa cosa dei ventisette anni e tre minuti mi ha sconvolto.
È possibile che noi impieghiamo tre minuti a vedere le cose, quando le cose avrebbero tanto da dirci. Noi ci perdiamo i trequarti delle cose che ci sono al mondo perché inseguiamo sempre le cose che conosciamo.
Spero perciò che la sensorialità la guardiamo con aria grata e non soltanto come un elemento accessorio, ma come una dimensione originaria inesauribile della realtà.
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*Per citare questo articolo:
Correale A, (2024) “Le vicissitudini della percezione”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 176-200
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