L’interpretazione in una “personale” prospettiva di campo

di Franco Borgogno

(Torino), Membro Ordinario con Funzioni di Training della SPI e dell’IPA. È stato Professore Ordinario di Psicologia Clinica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università di Torino ove riveste tuttora degli incarichi. Consultant presso il Museo Freud di Londra, è stato Membro dell’Editorial Board di Riviste italiane e straniere. È autore di numerose pubblicazioni tra cui i seguenti libri: – L’illusione di osservare, 1978. – Brevi cenni epistemologici sul metodo dell’osservazione della relazione madre-bambino, 1981. – Bion’s legacy to groups and institutions, 1998 (con P. Bion Talamo, S.A. Merciai): versione italiana e inglese. – W.R. Bion: between past and future, 1999 (con P. Bion Talamo, S.A. Merciai): versione italiana e inglese. – Psicoanalisi come percorso, 1999 (Tr. Inglese, Spagnolo, Portoghese). – La partecipazione affettiva dell’analista, 1999. – Ferenczi oggi, 2004. – The Vancouver interview, 2007 (Tr. Inglese, Spagnolo, Portoghese, Francese, Tedesco). – La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi, 2011 (Tr. Inglese). – Reading Italian Psychoanalysis, 2016 (Editor con A. Luchetti, L. Marino Coe): versione italiana e inglese. – Rileggere Ferenczi oggi. Contributi italiani, 2016. – Una vita cura una vita. Inizi, maturità, esiti di una vocazione, 2020.

[1] Il presente scritto – rielaborazione ampliata della relazione “Immagini e pensieri dal campo”, presentata all’interno del Panel “Notes magico. Predittività. Collasso del campo (Bezoari, Borgogno, Ferro, Gaburri, Vallino)” al X Congresso nazionale della SPI, “La risposta dell’analista e le trasformazioni del campo”, tenuto a Rimini nell’ottobre 1994 – è una versione parzialmente modificata di un saggio pubblicato originariamente nel 1997 nella collettanea Emozione e Interpretazione. Psicoanalisi del campo emotivo (Gaburri, 1997).

*Per citare questo articolo:

Borgogno F., (2024) “L’interpretazione in una “personale” prospettiva di campo”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 220-236

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  1. 1994-1997

Vi descriverò oggi che cosa son venuto a intendere a metà anni novanta[1] con “campo psicoanalitico” ma mi riferirò soltanto a una delle situazioni allora esaminate, quella di Mirko, visitando alcuni frammenti centrali della sua analisi, taluni in modo più dettagliato, talaltro piuttosto al volo.

 Prima di addentrarmi nelle vicende analitiche di Mirko vorrei però precisare che, definendo in quegli anni il campo come “l’ambito delle condizioni necessarie perché potessero aver luogo interpretazioni significative per la coppia psicoanalitica[2], traducevo questo intendimento nella clinica “lasciando che ‘il campo parlasse’ per poi interrogarmi solo in un secondo tempo sul senso del discorso che si era attivato e sul perché si fosse realizzato un certo movimento mutativo nella/e seduta/e”. Procedendo in questo modo avevo in mente principalmente i seguenti fatti: 1) che un’interpretazione degna di questo nome deve essere preceduta da “un’incubazione pre-riflessiva e pre-concettuale” che inconsciamente la prepari; 2) che nell’analisi i soggetti del discorso e i suoi significati non è possibile individuarli subito giacché si fanno riconoscibili, quando le cose van bene, unicamente nella continuità dell’interazione libidico-affettiva inconscia fra paziente e analista e dopo un consistente impegno elaborativo da parte di quest’ultimo; 3) che questo “campo di risonanza inconscia”, sovente indistinta per un periodo temporale a volte assai lungo, è un transito basilare per giungere a quella separatezza comunicativa che consente di condividere a parole i segnali e i messaggi interazionali in termini di dinamica intrapsichica che, come sappiamo, è il fine elettivo dell’esperienza psicoanalitica, un fine realizzabile solo dopo un corposo ascolto teso a rendere le complesse realtà del paziente vivibili e, perciò, pian piano pensabili; 4) che l’analisi nel suo voler “espandere il posto per l’altro (Di Chiara, 1985)” non può che partire da “tutte quelle sensazioni, emozioni e idee che al momento in cui sono sperimentate sono ancora “anonime” (Gaburri, 1997)” e “prive di pensatore (Bion, 1996)”, provenendo spesso da epoche e spazi ignoti ai due membri della coppia analitica che possono esserne i veicoli; 5) che non di rado l’uscita da questa condizione arriva da “metafore iconografiche e visive” che, se nell’immediato suonano rozze e azzardate[3], sono già di fatto il frutto dell’essersi generosamente messi in campo senza paura di perdersi, come farò vedere nel frammento che mi accingo a presentare, e dei processi di “rêverie” e di “lavoro del sogno” ben descritti da Bion sin dalla fine degli anni ’50 (1992), ma per molti versi già anticipati da Marion Milner sul finire degli anni ‘40 (1950)[4].

Illustrata per sommi capi la mia concezione di “campo analitico e interpretazione”, vengo ora senza indugio a dirvi perché Mirko si è rivolto a me. Figlio di una tribù di nomadi dell’Europa dell’Est che, perseguitata, ha dovuto stanziarsi tra Istria e Croazia e in seguito migrare in Italia, Mirko – che si sente sempre sradicato e fuori posto, e al contempo stupido e imbecille venendo davvero preso come tale in più circostanze[5] – mi chiede aiuto a causa di un incidente con valenze forse suicide. «Nel posteggiare l’auto in garage era uscito nella discesa a vedere di chi fosse l’ombra che gli aveva sbarrato la strada, ma – drammaticamente – non aveva inserito il freno a mano e poiché il suolo era ghiacciato la sua auto lo aveva investito lesionandogli gravemente la spina dorsale. Per inciso, se l’incidente aveva reso evidente che questa persona “mancava di una struttura ossea” per potere stare in piedi e muoversi come individuo nella vita, v’era in lui ben al di là delle conseguenze fisiche e psichiche dell’incidente una menomazione psichica profonda, derivante alla primissima infanzia[6].

Il frammento che qui metterò a fuoco risale ai suoi trent’anni (oggi Mirko è ultrasessantenne) e si riferisce ai tempi della sua analisi vera e propria «successiva a tre anni circa di una “psicoterapia nomade” dal momento che il paziente non era in grado in quel periodo di mantenere, per motivi di salute ed economici, una continuità delle sedute e una medesima posizione all’interno del mio studio. Non poteva, in pratica, sovente stare seduto, ma solamente sdraiarsi o rimanere in piedi, talvolta camminando, per cui fu passo importante in quella fase riuscire a conquistare la possibilità di sedersi davanti a me e parlarmi».

«Ancora eccessivamente dolorante e in una condizione pressoché permanente di estrema vulnerabilità, frustrazione e incattivimento, seppure già contenuti rispetto agli anni iniziali (si era nel frattempo sorprendentemente laureato e aveva un lavoro saltuario, che svolgeva quando il suo stato fisico e mentale glielo permetteva), Mirko porta un sogno dove “un aereo ‘Concordi’” nel tentativo di scendere in mezzo a una città, vola sempre più vicino alle case, finché si schianta a terra. Ne escono molte persone, fra cui un drappello di nazisti; il paziente insieme a un amico si rifugia in un bosco a osservare gli eventi e vedere il da farsi».

«Il sogno, com’era suo stile, viene raccontato a spizzichi e bocconi fra mille sospiri e numerose pause, dopo un primo desiderio di comunicarlo. Le associazioni vengono da Mirko inframmezzate al sogno e, per questo, sono poco intelligibili. La lentezza è esasperante e altrettanto esasperante è la sua distraibilità; e, in aggiunta, in parallelo a un formale ossequio zelante e superficiale, si percepisce un’intensa esplosività carica di persecuzione».

«So che il paziente, testardamente, vuole a ogni costo dire tutto ciò che ha in mente, anche se per lui il farlo è un’operazione assai combattuta e dolorosa, piena di spostamenti che appaiono non aver senso (“altra forma di nomadismo”). Attendo per vedere se inserirmi e come inserirmi di fronte a lui che mi guarda per testare se veramente sopporto il suo incessante peregrinare, pronto a dirmi al più piccolo movimento, magari di un piede, che lo rifiuto e gli sto dando calci. Quando Mirko, finito tutto il suo discorso, tace con un’espressione non verbale del tipo “ma che me ne faccio di tutta questa fatica che ho fatto”, gli dico: ‘Eh, già, qui casca l’asino!’, a cui Mirko, quasi insultato, insorge con violenza: “Lei dell’asino non me lo dà!”».

«Mi sento molto dispiaciuto, perché la mia intenzione era di condividere il suo travagliato arrancare nelle associazioni al sogno e non restituirgli la rabbia e l’esasperazione che aveva creato nella seduta fino allo sfinimento di entrambi. Gli dico quindi che “mi dispiace di averlo così ferito; che può darsi che io abbia quest’idea che lui sia un asino e che forse, in seguito, ne capiremo di più; che asino per lui è uno che non conta niente, è stupido, non è da ascoltare, mentre io avevo in mente coscientemente che lui si sentisse a terra dopo un enorme sforzo e che fosse questo il punto a cui lui stesso era arrivato in quel momento della seduta, dopo il racconto del sogno”. Il paziente, colpito dal termine “a terra”, sente riparata l’offesa e comincia a riconoscere la cospicua fatica che fa e il violento dolore che l’accompagna, muti nella loro fino ad allora inelaborabilità».

«È per questa via – imprevista in quella particolare seduta – che si verrà ad articolare una “nuova configurazione del campo”, e l’”asino” nel tempo ci permetterà di “accamparci e di uscire dal bosco” in quanto “metafora fertile” che darà spessore e vigore al nostro incontro poiché non si è limitata a rinvenire un significato ma si è aperta alla significatività affettiva dello scambio, inaugurando un’area di novità pur nella continuità e fungendo da felice “ponte simbolico” che univa insieme in un’unica espressione (“eh, già, qui casca l’asino”) i vari dolori del paziente (la “sfinente sofferenza corporea”; la “testardaggine da somaro” con cui si atteggiava venendo spesso preso per una persona “debole di mente”; il suo profondo percepirsi, in famiglia e al lavoro, come una “soma da carico” che tale deve essere per sopravvivere e avere un posto; l’essersi sentito respinto e cacciato dalla madre dopo la gravidanza e anche alla pubertà-adolescenza quando erano iniziati i suoi primi movimenti d’individuazione e di autonomia), disinnescandone la precedente alta pericolosità e minacciosità tanto che gradualmente, raccontata da lui, farà capolino la sua mortificante storia di profugo e di esule, che riprenderò nel secondo frammento.

Ma veniamo adesso a come l’analista trovò questa immagine e a come si comportò sia dopo averla trovata, sia di fronte alle prime reazioni del paziente quando la comunicò esclamativamente, con intenzioni per lui partecipative. «La risposta emozionale ch’egli in quell’occasione veicolò nel suo atteggiamento interattivo e lo stesso processo interno da cui scaturì non furono infatti, dal mio punto di vista, elementi di contorno, ma ingredienti sostanziali per renderla, dopo un primo suo fraintendimento, assai gradita e remunerativa al palato psichico di Mirko». Due ingredienti soprattutto: la disponibilità che l’analista raggiunse in quel frangente nell’ascoltare il paziente potendosi lasciare andare al va e vieni imprevedibile, sorprendente e non lineare dei pensieri e delle emozioni; la ricaduta di questa sua aumentata disponibilità all’altro, che gli consentì, nel rivolgersi a lui, di fare ricorso a elementari risorse umane e non tecniche, insite nel suo patrimonio esperienziale di cura e soccorso del dolore e del bisogno».

«Avvenne in sostanza che un ricordo personale, distogliendomi per pochi minuti dal seguire il contorto e tortuoso incespicare del paziente, probabilmente anche per prendere fiato rispetto alla sua imperiosa e soffocante richiesta di attenzione, mi rinviò al “gioco dell’asino vola”, caro a me bambino. Un gioco che si faceva negli spostamenti in auto per passare il tempo e lenire la lunghezza e i disagi del viaggio, e che consisteva nel rispondere affermativamente o negativamente a seconda che gli oggetti nominati, cose-persone-animali, potessero volare o no. Fu lì che comparve il “qui casca l’asino” che poi dissi al paziente, allorché il ricordo – riportandomi a lui – mi fece rivenire in mente come spesso esso finisse in un senso di umiliazione e di fregatura per “esserci nuovamente cascato”, che rompeva l’armonia con cui l’avevo iniziato con molta gioia ed eccitazione, in quanto voleva dire che la mamma era in quel momento disponibile e di buon umore».

«Il ricordo, se formalmente mi aveva fatto allontanare dal qui e ora della seduta, misteriosamente mi aveva ricondotto, attraverso un intimo e inaspettato contatto con gli affetti latenti e remoti che vi circolavano, a “maggiore simmetria e sintonizzazione partecipata non assertiva” nei confronti del dolore e del carico che Mirko mi affidava, arrivando coraggiosamente da me da un mondo lontano e desueto rispetto al mio, ora divenuto assai più simile e comune (Racalbuto, 1994)».

 

  1. 1999

Questo frammento è tratto da Psicoanalisi come percorso[7] e si riferisce al settimo anno di analisi (psicoterapia compresa). Meno angosciato e confuso Mirko inizia a dar segni d’interesse verso i suoi stati d’animo e verso i personaggi, del presente e del passato, che incontra nel mondo esterno e in quello interno. Io dal canto mio ben conoscendo la sua suscettibilità trovo un modo per rivolgermi a lui che eviti il più possibile attriti e offese e lo sproni a entrare in contatto con la sua estrema sensibilità facendola propria (Heimann, 1975)[8]. È esattamente su questo aspetto che richiamo la vostra attenzione nel materiale che segue.

«Mirko arriva in seduta con un sogno in cui vorrebbe far chiaro nelle sue stanze ma tutti gli interruttori sono bloccati. Questa volta però riesce a muoversi e a uscire dal letto; non vi sono i vecchi fantasmi che glielo impediscono (parti di me e/o di sé, comparsi in vari altri sogni per minacciarlo di fronte a suoi progetti vitali e al suo porsi in circolazione), anche se è stremato ed esasperato dal non riuscire a mettere in funzione gli interruttori e a sgrovigliarne i fili».

«Stremato ed esasperato lo è anche in seduta, ma pare acquietarsi dopo miei piccoli commenti che gli dicono che “possiamo anche stare al buio”, che “non vi è necessità di far luce subito”, che “si può lavorare nell’ombra e sulle ombre”, rinviandolo a come io capisca il dolore e la ferita, per chi è stato cieco, di ritornare improvvisamente alla luce e la difficoltà di farlo».

«Mirko ritorna la seduta successiva, recando un altro sogno in cui “il fratello maggiore, che lo invitava alla competizione nel gioco del calcio spesso disturbando con pallonate un gregge di pecore lì vicino, scavalca il filo spinato e si mette a seguire il gregge invitandolo a unirsi” e, come associazione, dice che ultimamente il suo compagno di ufficio – quello che gli insegna la struttura profonda dei programmi informatici a cui lavora – è particolarmente quieto e amichevole nel farlo, tanto che a sprazzi gli sembra di provare persino piacere anziché quel nodo di tensioni che solitamente lo attanaglia e lo esacerba».

«Io sono rincuorato da quest’affermazione, e preso da coraggio con sfondo lievemente entusiasta seppure non noncurante del paziente, incautamente accenno, parafrasando le sue parole, al maggiore benessere presente nella nostra relazione. Niente di straordinario, devo dire, ma con un di più di marca narcisistica che Mirko non manca di segnalarmi, rispondendomi che il collega di cui mi ha parlato talvolta insiste su osservazioni troppo dettagliate: “Che sia diventato minimalista? Io non so più in quei frangenti per chi parla davvero il collega in questione. Per lui, per me? Come prendere quindi l’aiuto che mi sta dando?”».

«Il materiale non necessita di un commento, se non per dire che in quella fase dell’analisi la troppa luce sfocava il paziente perché, incerto com’era nel suo germinale iniziare a guardarsi e a vedersi, temeva di essere spento ed eliminato dallo sguardo verbalizzato dell’oggetto materno, per come egli l’aveva principalmente esperito senza poterlo pensare. In particolare, quest’oggetto avrebbe spento la “sua” esperienza, ogni volta che la riconduceva a sé cambiando il luogo e le persone specifiche a cui lui la attribuiva: “massificandolo”, potremmo dire, se si considera il suo vissuto profondo».

«A quell’epoca anche interpretazioni sensibili su minimi suoi comportamenti e reazioni, che richiedevano tuttavia un pensiero da parte sua troppo riflessivo, lo rendevano futile, rabbioso e disperato perché venivano sentite come una richiesta ad accordarsi col mio linguaggio e a impegnarsi per qualcosa che interessava a me e non si armonizzava con il suo stato d’animo di ricerca di uno “sguardo immedesimativo ed empatico, che comprende nel senso letterale del termine e pertanto non ha bisogno di chiedere alcunché al partner”»[9].

«Vorrei adesso, per concludere a proposito di questo materiale, dire qualcosa di più sul seguire il gregge di pecore “scavalcando il filo spinato”. Le pecore infatti ritornarono subito dopo alla ribalta quando – in risposta al suo commento sul collega più anziano divenuto minimalista – descrissi, semplicemente e con le sue parole, il tipo di mutamento di pensieri, emozioni e sentimenti che Mirko aveva provato sul lavoro, senza questa volta riportarlo a noi e a lui, aspettandomi che lo potesse fare lui».

«Con vividezza a quel punto sospirò rilassato: “Le pecore degli altopiani (ricordava la passata annuale transumanza del suo popolo, ora divenuta “transumanza mentale”) per un nonnulla si muovono compatte, mischiandosi fra loro ai più piccoli sussurri dell’ambiente circostante. Stemmo in silenzio, per un attimo “ambedue agli altipiani”: un’unica massa, lanosa e calda in questo caso e non un cortocircuito dove un polo scarica l’altro. Una “mente tra-due”, internamente condivisa, come winnicottianamente ha scritto Pontalis (1975), da Mirko e da me non più presi dal dover essere visibili (Pontalis, 1977)».

 

  1. 2005-2006

Questo terzo frammento è poco più di un appunto risalente a quando con Dina Vallino abbiamo scritto il nostro dialogo sugli “spoilt children”[10] «evidenziando come con questi pazienti così fragili e vulnerabili si debbano espletare non solo le “funzioni psichiche” richieste da ogni analisi, ma pure “funzioni sociali” vere e proprie, che in passato sono loro concretamente mancate in quanto bambini senza genitori che abbiano insegnato loro come provvedere a se stessi e occuparsi della loro esistenza nella sua globalità»[11].

Mirko è uno di questi spoilt children, figlio – come ho già detto – di un trauma generazionale che ha portato il suo popolo e la sua famiglia a migrare fuori dai confini dell’ex-Jugoslavia. Il suo clan originario esule e diverso lo era però già in precedenza in quanto nomadi, ma questa loro diversità si è accresciuta con il divenire stanziali tra Istria e Croazia nel pieno della tragedia degli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale.

Oltre a ciò, si deve avere in mente che «Mirko è anche stato un bambino con genitori giovanissimi, con un papà che non aveva la minima idea di che cosa fosse essere un padre e con una madre che lo ha avuto andando a piedi per chilometri e chilometri verso l’ospedale di Pola, arrivando colà stremata per partorire da sola e in una condizione di desolazione e stanchezza. I genitori, comunque, nonostante fossero molto giovani, hanno in qualche modo provveduto a lui, anche se lui riconosce come figura genitoriale soltanto “Barba Szinec”, un vecchio prozio, parente di parenti, senza nessuno, che era una specie di “familio” di casa incaricato in cambio di vitto e alloggio di svolgere lavori agricoli e di badare a uno sparuto gruppo di animali e a lui, a cui cantava (vi ritornerò su) fischiettandole nenie e filastrocche tipiche del loro popolo».

Ma torniamo ancora un attimo all’esodo dall’ex-Jugoslavia in quanto essi finirono in un campo di raccolta profughi dalle parti di Venezia (i campi dei profughi non erano molto diversi dai campi di concentramento) prima di raggiungere Torino dopo altre varie peripezie. Un esodo, non solo politico ma psichico, patito molto dai suoi genitori e ovviamente anche da Mirko.

«Nel frammento di cui qui vi parlo, il padre è morto e lui vive nel condominio dove sta la madre, ma al piano di sopra coabitando con un gatto o, per meglio dire, vivendo per il suo gatto. Se prima non si sarebbe sognato di occuparsi di un animale perché si muovevano troppo e improvvisamente, ora il suo coinquilino si è trasformato in un “compagno di primaria importanza”, attraverso cui ha imparato giorno per giorno a venire in contatto con i propri bisogni…, primi fra tutti quelli sociali. In un primo tempo ha tentato di educarlo alla spartana, ma presto sono sopraggiunti i bocconcini prelibati e anche le assolutamente necessarie ore d’aria in cortile poiché i gatti sono curiosi e hanno bisogno di libertà e di frequentazioni dei loro simili».

«Sfortunatamente, tuttavia, uscito dal suo “carcere psichico” Mirko si è ammalato di “sclerosi multipla progressiva” e lì è iniziato un nuovo calvario. In tutti i sensi anche per me, poiché io notavo un peggioramento nella sua deambulazione e glielo facevo presente, ma lui non intendeva vederlo come “realtà del corpo”. C’erano per di più a complicare la faccenda i postumi dell’incidente e il fatto che Mirko quand’è arrivato da me camminava in punta di piedi, comportamento a cui qua e là era saltuariamente ritornato nei momenti difficili dell’analisi e della vita riprendendo a usare questa modalità “ballerina” e “claudicante” d’ingresso in seduta e nel suo modo di parlare. Quando poi si è finalmente deciso ad andare a fondo della cosa con visite mediche, più e più volte ha continuato a portare anche i medici non specialisti a cui si rivolgeva a confondersi e a tagliare corto con i suoi sintomi, sì che per un certo periodo questi sono stati scambiati per postumi dell’antico incidente e niente di più. Io non ho comunque desistito perché il peggioramento della deambulazione era troppo evidente. Abbiamo chiamato in seguito questo periodo quello della “Torre di Pisa Pendente Due[12] (camminava storto; non centrava la porta; l’aprivo tutta perché non vi sbattesse contro…), ma le “Torri di Pisa Umane” – gli dicevo – fatalmente prima o poi possono cadere, cosicché di lì in avanti è entrato in scena come argomento principale la morte e con la morte il pensiero che il tempo non dovesse essere più sprecato e che non si potesse di conseguenza assolutamente più rimandare la comunicazione intorno ai legami e la condivisione di momenti di affettuosità e rimpianto.

 

  1. L’evoluzione dei messaggi email inviatimi da Mirko dalla fine dell’analisi sino alla splendida lettera dei primi di dicembre 2021 in cui divento “dottore” e non più “professore” e “carissimo” anziché “caro”

 

Finita obtorto collo l’analisi poiché non più in grado di raggiungermi né tramite l’affitto di una macchina speciale né accompagnato da un operatore del servizio disabili, Mirko con intenso dispiacere e lutto accetta di lasciare l’analisi e, seppure gli avessi proposto di ritrovarci una tantum se se la sentiva, non lo vedrò più tranne un anno e mezzo fa quando fui io ad andare sotto casa sua per dargli L’illusione di osservare ultima edizione di Rosenberg & Sellier, a cui teneva molto in quanto unico libro mio che non possedesse, particolarmente rilevante per lui dato il suo essere fisico e studioso di fisica (Mirko negli ultimi anni aveva iniziato a leggere ogni mio libro e a commentarli uno per volta nelle sue missive). Fu incontro commovente per entrambi che esitò in un reciproco abbraccio in cui a stento trattenni le lacrime.

Ci restarono così inevitabilmente soltanto i messaggi inviatimi nelle feste comandate (Natale, Pasqua, Vacanze inizio e fine) che in seguito aumentarono di numero e si fecero più frequenti con un netto cambiamento di argomenti e di atteggiamento.

In un primo momento m’informavano quasi esclusivamente della sua salute e delle possibilità di terapia alternativa che scopriva. Erano messaggi di sfida alla medicina classica che considerava un nuovo nemico visto che questa non le approvava e una manifestazione di orgoglio per riuscire a cavarsela anche lontano da casa (cliniche svizzere e tedesche o situate nel sud Italia) nonostante il serio dispendio economico e l’eccesso di sforzo fisico che comportavano. Messaggi a cui rispondevo garbatamente dicendogli che sapevo quanto fossero importanti per lui quelle cure pur non rinunciando a fargli notare che molte di queste non le approvavo neppure io sentendole dei veri “ciapa-ciapa” tesi a spremerlo e a illuderlo. La sua reazione alla mia risposta era «comprendo le sue buone intenzioni ma anche la sua ignoranza in proposito».

A un tratto tuttavia la persecuzione e l’idealizzazione di queste nuove terapie si affievolì e lui mostrò di accettare di più senza infingimenti e sconti la sua sofferenza (con un ottimismo talvolta superiore al mio) che lasciò un maggiore spazio a che cosa faceva a livello sociale, a me, e a come passava le sue giornate. Un mutamento di tono che si intensificò quando, anni fa, non ricevendo nessuna mia risposta, telefonò a casa mia venendo a sapere dalla colf che ero ricoverato in ospedale e perciò impossibilitato a parlargli; un evento che produsse un ulteriore cambiamento, giacché la mia malattia e non soltanto la sua divennero di lì in avanti centrali facendogli assumere nei miei confronti una posizione di tenerezza e di affettuosità dichiarate quasi la mia malattia (di cui volle sapere tutto per filo e per segno) ci avesse maggiormente avvicinati e legati l’un l’altro. Prova di questo è la splendida “lettera-email” di inizio dicembre 2021 che vengo a trascrivere.

«Carissimo Professore sono giorni che penso di dedicarle una canzone [da parecchio Mirko scriveva canzoni che mandava agli amici, qualcuna di successo accettata da circuiti amatoriali], una canzone di Natale per l’imminente Natale. So che la imito ma ora anch’io sono capace di creare canzoni e di cantarle trovando per esse la musica adatta. Ma perché – si chiederà – mi è venuto in mente di fare ciò. Ho ripensato al suo “Gru-gru-tirami-su”, espressione che mille volte mi ha proposto cercando di farmi sentire meno “straccio” giungendo anche a cantarmela con ritmo e timbro diversi a seconda delle circostanze. Non gliel’ho mai detto ma questa frase e la sua canzone mi hanno “reclamato alla vita” e sono diventate parte del mio DNA tanto che oggi l’ho resa mia e la canto quando sono scorato e a terra [introiezione trasformativa]. È stata, la sua, opera di fine “rammendo” del buco e del vuoto al centro del mio essere, rammendo-riparazione che si è sostituito al mio reiterato lamento disperato rimettendomi in piedi e in cammino e offrendomi l’energia che non avevo[13].

Vorrei ancora confessarle, Carissimo Dottore, che a lungo ho pensato alla gru come a un animale sociale che immette presto il suo piccolo nel gruppo perché impari attraverso il gruppo a vivere nel mondo dei suoi simili e a difendersi dai pericoli, ma col tempo la gru si è trasformata per me in una cicogna che porta il bambino in bocca sino a che questi non trovi dei genitori che lo adottino dando l’avvio a una nuova nascita. Lo so che lei si è fatto “gru-gru-tirami-su” a causa del mio enorme peso, il peso di un adulto che non era affatto un neonato (lo fossi stato, ma ero un adulto non ancora nato) e che ha cantato questa canzone per aiutarmi e per non abbattersi lei stesso tanto ero congelato e ritirato dal mondo degli altri [verissimo poiché il cantare mi serviva per modulare, stemperare e bonificare i numerosi istanti d’odio e di rabbia scatenatimi dal suo rendermi inesistente e privo di ogni capacità d’essergli d’aiuto][14]. Sappia quindi che sono state la sua tenacia e la sua forza – la sua passione, mi verrebbe da dire – che mi hanno dato speranza e che mi hanno fatto nascere, ed è per questo che le sono infinitamente grato perché ora dentro di me mi ritrovo un tipo di gioia che, pur immobile e paralizzato nel corpo come sono, mi rende completamente vivo nello spirito e nei sentimenti, che come vede sono assai passionali (Bion, 1963, 1977)».

 

Post-scriptum

           

Modificherò qualcosa di quanto portato alla vostra attenzione solo per segnalarvi alcuni nuovi suggerimenti bibliografici dato che molta acqua è passata tra quanto scritto nelle prime tre parti del mio lavoro.

Sostengo questo anzitutto perché l’applicazione clinica dei vari punti posti dall’iniziale premessa teorica a proposito dell’interpretazione e della comprensione dei movimenti inconsci di transfert e controtransfert, ivi comprese le azioni reciproche –intendo il campo di risonanze inconscio, il mettersi di generosamente in campo senza paura di perdersi, il permettere che il campo continui a parlare – tutto ciò mi sembra tutt’oggi valido e alla base del mio modo di concepire l’analisi costituendo per me un modello utile per cogliere i rapporti intrapsichico e interpsichico del paziente con se stesso, con me con gli altri e con la vita.   

Rientra da anni nel mio stile di analisi, di scrittura lasciare al paziente, al collega, al lettore la possibilità di metterci del suo e di completare con domande, considerazioni, tagli osservativi alternativi l’elaborazione di quanto io propongo e le inesorabili mancanze a cui sottostà qualsivoglia pensiero. Per quanto riguarda i nuovi suggerimenti bibliografici a cui prima ho accennato oltre a Bion, Ferenczi, Heimann e certamente Winnicott, che in queste pagine cito soltanto in una nota, includerei molti altri autori appartenenti in particolare o al gruppo degli indipendenti britannici o Larson e Parsons per esempio, o alla scuola francese De M’Uzan e Botella e Botella (2001).

La teoria in ogni buon conto è sempre un qualcosa che deve rimanere sullo sfondo; deve incarnarsi nell’esperienza dell’analista e in primis nella sua vitalità a far incontrare in ogni analisi la sua vita e quella del paziente ovviamente anche se non cito le loro opere Freud e Melanie Klein sono coloro che mi hanno iniziato al mio modo di pensare psicoanalitico.

Per terminare nomino ancora alcuni libri che penso ci possano aiutare ad avvicinare gli aspetti umani ed esperienziali che si situano al di là del contenuto del linguaggio quelli di Raice e di Scarpone e il classico studio di Libermann sugli stili di comunicazione appropriati a seconda delle situazioni dei pazienti; un tema quest’ultimo che pure Semi ha ripreso parlandoci della tecnica del colloquio.

A mo’ di congedo infine un augurio. Un augurio che mi capita sovente di ripetere a specializzandi, candidati e colleghi: che la ferita si faccia e diventi feritoia per entrambi i membri della coppia analitica.

Ritengo sia avvenuto per l’appunto questo nella lunga analisi da me descritta.

 


Note:

[1] Il presente scritto – rielaborazione ampliata della relazione “Immagini e pensieri dal campo”, presentata all’interno del Panel “Notes magico. Predittività. Collasso del campo (Bezoari, Borgogno, Ferro, Gaburri, Vallino)” al X Congresso nazionale della SPI, “La risposta dell’analista e le trasformazioni del campo”, tenuto a Rimini nell’ottobre 1994 – è una versione parzialmente modificata di un saggio pubblicato originariamente nel 1997 nella collettanea Emozione e Interpretazione. Psicoanalisi del campo emotivo (Gaburri, 1997).

[2] Riporto pari pari fra virgolette capitali le considerazioni presenti nel testo del 1997, interpolandole con altre non presenti nel testo originale.

[3] Nel testo originario le paragonavo ai paesaggi toscani che a un primo sguardo possono apparire naturali e incolti, mentre all’opposto sono l’esito della più che secolare mano dell’uomo.

[4] Oltre a Ferro, che è il capostipite del loro studio, Civitarese.

[5] Lo psichiatra a cui si riferiva nei primi anni d’analisi – persona preparata e intuitiva – lo giudicava così, diagnosticandolo affetto da vacuità oligofrenica, per cui dissuadeva me e lui dal farci illusioni e dal nutrire speranze circa il risultato del trattamento.

[6] Rileggendo oggi il caso di Mirko, questo mi sembra emblematico della lacerazione dei profughi che, espropriati della propria patria, devono forzatamente cambiare lingua e usi con non poca sofferenza e conflitti.

[7] Questo materiale lo si trova nel capitolo 5.

[8] Racker (1949-1958) sottolinea quanto sia importante che l’analista vada oltre ciò che è più smaccatamente in superfice, vedendo ossia come dietro l’odio e l’oppositività più aperti si celi il più sovente un amore respinto e invalidato.

[9] Soltanto più avanti venne il tempo per parlargli degli aspetti anali e narcisistici del suo comportamento dominato da un ossessivo attacco ai legami. L’averlo fatto prima non sarebbe stato da lui compreso: si sarebbe sentito “colonizzato da una lingua straniera” che gli avrebbe imposto un nuovo fardello da portare richiedendogli soppressione e ritrattazione dei suoi diritti e della sua identità originale (i Nazisti del “sogno dell’aereo ‘Concordi’”).

[10] Scritto originariamente pubblicato nel 2006 (Borgogno, Vallino, 2006).

[11] Esempio di ciò lo si ritrova in un bello scritto di Lussana (1987) quando, commentando il film di Varda Senza tetto, né legge, sottolinea il “modesto servizio” anche invisibile a cui deve attenersi l’analista con i pazienti severamente danneggiati nella loro specificità.

[12] “Due” perché abbiamo usato questa espressione già in precedenza a proposito della sua claudicante deambulazione.

[13] Non ritengo azzardato sostenere che questa metafora, come le altre in precedenza descritte, facciano parte del “linguaggio dell’effettività” di cui ci ha parlato Bion (1970).

[14] Nel fare questo mi sentivo altresì un po’ matto come lui, ma osservavo che il cantare lo tranquillizzava sembrando lentamente donargli attraverso la mia libertà espressiva e immaginativa una pari maggior libertà di fronte agli aspetti che temeva che io o altri avremmo potuto considerare matti. Molta follia di Mirko nascondeva, in realtà, un’intelligenza poetica che gli fu accessibile allorché, grazie al mio aiuto, poté “renderla prosa.

Franco Borgogno (Torino)

Centro Torinese di Psicoanalisi

borgognofrancescaviola@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Borgogno F., (2024) “L’interpretazione in una “personale” prospettiva di campo”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 220-236

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