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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Evoluzione e complessità del metodo psicoanalitico

di Stefano Bolognini

(Bologna) veneto di origine, vive a Bologna. Membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana, di cui è stato Segretario Scientifico e Presidente. È stato anche Presidente dell’International Psychoanalytic Association, membro del comitato editoriale europeo dell’International Journal of Psychoanalysis e membro del Theoretical Working Party della Federazione Europea di Psicoanalisi. Autore di innumerevoli articoli e volumi. Di questi ultimi, qui segnaliamo:                                

Come vento, Come onda: dalla finestra di uno psicoanalista, i nostri (bi) sogni di gloria, Bollati Boringhieri, 1999. (Per quest’opera gli è stato assegnato il Premio Gradiva).

Il sogno cento anni dopo. Sua cura del volume collettivo, Bollati Boringhieri, 2000.

L’empatia psicoanalitica, Bollati Boringhieri, 2002.

Psicoanalisi e pluralismo delle lingue selezione dallo ‘International Journal of Psychoanalysis’ 2004.

Passaggi segreti. Teoria e tecnica della relazione interpsichica, Bollati Boringhieri, 2008.

Teoria e tecnica della relazione interpsichica, Bollati Boringhieri, 2008.

Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire, Bollati Boringhieri, 2010.

Flussi vitali tra Sé e Non-Sé – L’interpsichico, Raffaello Cortina Editore, 2019.                    

Freud e il mondo che cambia. Psicoanalisi del presente e dei suoi guai. (In collaborazione con L. Nicoli,) Enrico Damiani Editore, 2022.

*Per citare questo articolo:

Bolognini S, (2024) “Evoluzione e complessità del metodo psicoanalitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 150-175

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

Non è formale, per me, ringraziare Patrizio Campanile e il Centro Veneto per questo invito perché, oltre all’onore di far parte dei dieci esperti analisti chiamati a svolgere una simbolica “Lezione”, esso muove un risvolto affettivo del tutto personale: io ho cominciato la mia frequentazione SPI proprio nel Centro Veneto, nel 1980, come giovane Candidato, e sono stato un membro del CPV per sei anni, prima di cambiare città. Questa è quindi, per me, un’occasione scientifica e affettiva di profondo significato.

 

In accordo con questo aspetto, devo anche avvertire che quello che vi presenterò è veramente molto soggettivo e personale: è quello che io, sulla base delle mie esperienze e della mia formazione, sono arrivato per ora a formulare come visione d’insieme attuale, contemporanea, della psicoanalisi come viene praticata nei suoi vari aspetti oggi.

 

E allora parto, con una certa libertà, dalla prima cosa che avevo scritto iniziando a prendere appunti in vista di questa serata; e cioè dal fatto che, come tutte le creazioni umane complesse, anche la psicoanalisi conosce, secondo me, una sua lenta, misurata e per lo più ben meditata trasformazione evolutiva. Cosa che cercherò di dimostrare questa sera.

 

Dico anche “ben meditata” perché la vera e propria alluvione di lavori psicoanalitici, di libri che cercano di descrivere nei vari aspetti e movimenti quello che si sta producendo nel nostro campo e che si sta elaborando nelle varie zone del mondo, non permette di solito agli analisti di avere una visione realmente ampia della situazione, né di potersi definire compiutamente informati circa i diversi orientamenti della psicoanalisi oggi, e su come essa si stia articolando, e come si sviluppi.

Ognuno di noi, di fatto, conosce un pezzo della psicoanalisi contemporanea mentre, si suppone, conosce invece abbastanza bene le storiche basi teorico-cliniche che ci accomunano e che ci fanno sentire colleghi.

 

Questa trasformazione la ritroviamo nelle teorie, nelle tecniche e perfino nel metodo, se non altro per i processi di approfondimento e di aumento della complessità che proprio la ricchezza e la spinta vitale interna della psicoanalisi stessa determinano pressoché inesorabilmente.

Si percepisce una spinta evolutiva, simile per qualche verso a quella propria del mondo vegetale, o di quello animale, o delle comunità, in ciò che a più livelli sta avvenendo nel mondo psicoanalitico.

In questo quadro di evidente articolazione e innegabile complessità, in questo processo trasformativo così ampio riguardo al nostro modo di dare rappresentazione teorica e di impostare la nostra reale pratica professionale, ci spetta il compito di essere finemente critici nella riflessione ma di non coltivare presupposti rigidi riguardo al nuovo; poi va da sé che “distinguere il grano dal loglio” è e rimane oggi uno dei nostri compiti fondamentali e inesauribili, aldilà di ogni idealizzazione.

 

Nella presentazione di queste dieci lezioni viene enunciato un principio importante: metodo, teoria e oggetto della psicoanalisi sono legati da un reciproco rapporto per cui una variazione di uno di tali elementi comporta una modificazione degli altri.

Io credo che sia inevitabile oggi aggiungere a questi elementi anche il soggetto, considerando il soggetto-analista non meno che il soggetto-paziente; cosa che sicuramente ci complica l’indagine, ma che al contempo penso ci avvicini alla realtà della situazione analitica.

 

Chiariamo subito: non pensiate che io sia un intersoggettivista.

Quello che, però, voglio dire senza mezzi termini è che il soggetto-analista c’è, esiste, che ci piaccia o no; che ogni analista ha una sua peculiare storia personale e formativa; e che se – come credo – la soggettività dell’analista non è il fattore del processo psicoanalitico, pure è un fattore non meno importante di altri.

Arriveremo alla fine di questo détour a parlare più specificamente di metodo, ma sento l’utilità e anche il bisogno di partire da queste basi che, volenti o nolenti, ci riguardano tutti.

 

Appaiono oggi particolarmente interessanti la connessione e la composizione che risultano possibili tra i vari ambiti, e talora vari segmenti, del Sé personale e del Sé professionale dell’analista, anche perché queste connessioni e queste composizioni determinano in una certa misura l’operare effettivo dello psicoanalista, non meno della sua competenza teorica e della sua fedeltà ai criteri classici della scuola e dei modelli a cui si ispira.

Tra l’estremo di una iper-soggettività e perfino di un iper-soggettivismo dell’analista come motore e focus privilegiato del processo terapeutico, e il polo opposto, altrettanto mitico peraltro, di un analista ministro impersonale di un verbo e di un rito astratti, sovrani e sovra-personali, si colloca la realtà ben più complessa dell’analista contemporaneo che ha conosciuto varie fasi e idealizzazioni teorico-cliniche settoriali e anche piuttosto stilizzate, che di solito ne è sufficientemente conscio, e che tende – più o meno consapevolmente – ad integrare le sue progressive, diverse acquisizioni in una nuova composizione che sia sufficientemente armonica in sé, anche se non vidimata sulla base di appartenenze già codificate.

 

La mia idea è che gli analisti odierni siano perlopiù abbastanza consapevoli delle fonti a cui attingono, che siano protesi a una sufficiente coerenza anche se – e qui cominciano i guai – alcuni Working Parties della FEP, in particolare il Theoretical Working Party della FEP, fin dai primi anni del 2000, ha esplorato il mondo delle teorie implicite e inconsce degli analisti. E si è scoperto che in realtà queste posizioni teoriche, implicite e inconsce, possono avere un grado di incoerenza notevole con l’immagine di sé, con la dichiarazione di appartenenza dell’analista stesso a una scuola o a una corrente.

Perché? Per tutta una serie di fattori che sono appunto piuttosto soggettivi, che vanno dalla introiezione inconsapevole di modelli di altra natura a semplici fattori di propensione personale o addirittura di adesione impulsiva a modi di essere che non hanno granché a che fare col modello teorico prescelto; e, insomma, una volta di più si potrebbe dire che l’Io non è padrone in casa propria e neanche l’Io di lavoro è padrone in casa propria.

O perlomeno, lo è in una misura di solito un po’ inferiore a quello che le persone si raffigurerebbero.

 

Ora, queste fasi e idealizzazioni teorico-cliniche, settoriali come sono state integrate nell’analista? Con un eclettismo nozionistico magari erudito ma superficiale, o con autentiche introiezioni costitutive e con un Io di lavoro capace di portare e gestire il senso della complessità?

E quanto la teoria, l’attenzione alla specificità e ai bisogni dell’oggetto (il paziente e la cura) e la soggettività dell’analista stesso sanno combinarsi in proporzioni e modalità abbastanza armoniose e adeguate al compito?

Il triangolo edipico analista-teoria-paziente richiede, in maniera molto simile al triangolo familiare, una certa bilanciata equidistribuzione dinamica di investimento, con accentuazioni momentanee su un polo o sull’altro o sugli altri due, in modo alternato.

Come sapete, ci sono senz’altro delle situazioni in cui l’analista fa coppia in modo troppo radicale con la teoria e il bambino paziente o la relazione terapeutica è tagliata fuori. Ce ne sono altre in cui viceversa c’è una troppo esclusiva relazione tra l’analista e il paziente e la teoria è lasciata fuori, e il metodo anche. Perché, in un certo senso, uno sbilanciamento disarmonico, in questo triangolo familiare profondo, si è verificato. Torneremo su questo discorso.

 

Gli stili relazionali degli analisti al lavoro sono il prodotto complesso delle loro esperienze familiari e formative e recano i segni e i frutti del loro percorso: l’analisi personale, il training, le supervisioni, la famiglia istituzionale, la cultura di gruppo.

I transfert verso gli autori e verso le teorie stesse fanno parte di questa storia e della sua composizione più o meno armonica, più o meno ricca come nella vita, nella formazione familiare e in quella scolastica.

E mi piace pensare come nelle botteghe dei pittori dei secoli passati, dove l’imprinting degli insegnamenti iniziali si modifica poi con gli incontri, gli scambi, le impressioni, le influenze reciproche favorite dai viaggi e dagli apprendistati seguenti. Sono affascinanti le storie di molti pittori perché i veri esperti sono in grado di riconoscere i periodi della loro produzione in relazione ai viaggi che facevano. Per esempio, appunto, negli anni del Rinascimento e poi del Barocco i classici movimenti dei pittori italiani andavano da Bologna a Venezia e viceversa, poi a Firenze, poi a Roma. E queste erano tappe che sono leggibili nelle opere di questi artisti. Il colore veneziano, la composizione, certe scelte tematiche, diventavano via via naturalmente introiettate da questi pittori man mano che conoscevano, incontravano e frequentavano i colleghi dell’epoca e le loro opere.

Io credo che qualcosa del genere si possa verificare anche nel nostro campo e nel nostro mondo, e dopo specificherò un po’ meglio come e perché.

 

Ciò che però risulta significativamente diverso nei vari analisti, dopo percorsi formativi apparentemente simili, è in realtà il differente grado di introiezione e di armonizzazione integrativa delle componenti interne. Il loro combinarsi più o meno fertile, la propensione allo scambio naturale (“inter” e non “trans”, cioè non effrattivo) della natura, della personalità, delle possibilità di passaggio dall’interno dell’uno all’interno dell’altro, in un modo fisiologico se è “inter”, in un modo traumatico se è “trans”.

Quando c’è questo scambio con l’altro e con il proprio oggetto interno, quando si realizza la disponibilità alla simmetria parziale in momenti specifici dell’esperienza in seduta e alla asimmetria strutturale dei diversi ruoli e funzionamenti nel trattamento.

 

E qui faccio un esempio.

La mia storia formativa ha seguito uno sviluppo specifico – credo che ognuno possa ricostruire la propria – con alcune analogie non casuali con la mia storia familiare personale. Io, per esempio, ho passato 30 anni a cavallo tra il Veneto e l’Emilia, passando frequentissimamente dall’uno all’altra, e ho frequentato per sei anni il Centro Veneto, mentre la mia analisi e la prima supervisione si sono svolte a Bologna, la seconda supervisione a Venezia con Sacerdoti.

La mia base è fermamente freudiana. A Venezia, però, entrai in contatto anche con il mondo kleiniano-bioniano, portato là nei primi anni Settanta da Salomon Resnik, che mi fece assaporare dal vivo altri versanti della cultura analitica.

Ma sempre a Venezia, attraverso i suggerimenti di lettura di Savo Spaçal, un collega triestino che si era formato negli Stati Uniti e che aveva poi trasmesso a Sacerdoti una serie di input, ho cominciato a conoscere anche la psicoanalisi nordamericana nei suoi vari aspetti e nelle sue varie declinazioni.

 

Ho descritto in lavori successivi l’evoluzione-standard di un giovane analista: inizialmente nella sua famiglia analitica locale; poi nell’incontro a livello nazionale con la realtà della Società Psicoanalitica Italiana, delle altre famiglie di altre città ognuna con la sua storia, la sua cultura e la sua tradizione; e poi nell’ambito internazionale, nei grandi congressi della Federazione Europea e dell’IPA.

Qualcosa di non dissimile dall’esperienza degli studenti nei vari ordini di scuole, dalle elementari fino all’università, poi all’Erasmus in Paesi stranieri, gli scambi, i dottorati e tutte quelle varie fasi di acculturazione.

Queste esperienze possono entrare veramente in profondità, diventando parti autentiche di noi; oppure possono affastellarsi confusamente e generare imitazioni, internalizzazioni non introiettive che restano indigerite e si limitano a occupare spazio interno, finendo poi per sostituire in modo inautentico il proprio Sé.

Nulla è garantito in questo processo.

Il contatto e lo scambio con colleghi di scuole, culture, stili, posizioni teoriche e modelli molto diversi tra loro, mi ha dato molto da pensare; mi ha sicuramente trasformato e mi ha almeno aperto alla complessità.

Come molti di voi sanno, la FEP e l’IPA sono state sedi successive di esperienza e di studio, per me come per molti altri.

Ora, questa opportunità mi ha anche posto il problema di non giustapporre alla bell’e meglio un patchwork arlecchinesco di prospettive e di metodo, bensì di comporre anno dopo anno un mio mondo, un mio Sé professionale, di trovare il mio stile e di lavorare in direzione di una certa armonia metodologica, teorica e clinica.

 

Sono stato colpito, in particolare, dal fatto che più o meno fino alla metà degli anni Novanta, il confronto internazionale, puramente astratto e teorico, esitava regolarmente in una contrapposizione ideologica tra “falli” non comunicanti, protesi a imporre ognuno la propria superiorità in vere e proprie guerre di religione teorica; mentre quando ci si disponeva alla discussione gruppale di un materiale clinico, i colleghi si riscoprivano almeno parzialmente tali, cioè colleghi, e ognuno ritornava in sé, piuttosto che impersonare la rappresentanza militante di una compagine teorica esclusiva.

 

La datazione indicata (all’incirca la metà degli anni Novanta) non è priva di riferimenti storici.

Risale a quel periodo la creazione dei Working Parties e dei Working Groups internazionali, che inaugurarono una nuova modalità di lavoro e di scambio tra analisti di nazioni e scuole diverse, modificando profondamente le atmosfere e i laboratori interni di tanti psicoanalisti.

Non riporto qui cosa ho ricevuto, ricavato e almeno in parte, credo, imparato da quegli scambi, perché il discorso si farebbe lungo e caso mai nella discussione lo svilupperò.

 

Infine, l’esperienza che mi ha profondamento segnato (e in-segnato) è stata quella, nell’IPA, del Dizionario Enciclopedico di Psicoanalisi dell’IPA (Inter-Regional Encyclopedic Dictionary, IRED) nel quale ho impegnato parecchi anni, e che mi ha poi portato a sviluppare la prospettiva dell’evoluzione storica e geografica dei concetti psicoanalitici: una prospettiva che mi ha aiutato a comprendere, distinguere e anche a integrare molte cose, sia nella teoria che nel metodo, conducendomi a sentirmi un analista dei tempi nostri anche grazie al nostro passato, senza fermarmi a esso ma senza eliminarlo evacuativamente.

C’è un patrimonio enorme, tuttora validissimo, nella produzione psicoanalitica dei decenni passati, così come c’è oggi uno sviluppo successivo in varie direzioni.

 

Mi è capitato così – qui vi riferisco la mia, d’esperienza – di rivivere il potente scenario della prima topica, rivisitandola nei percorsi quotidiani del nostro lavoro tra conscio e inconscio e viceversa, e integrando tecnicamente i criteri basilari di astinenza, di attesa e di sospensione, con tutte le modalità di vuoto aspirato, di disponibilità ricettiva pro-attiva, di diverse percepibili qualità del silenzio – qualcosa di simile a Il senso di Smilla per la neve, trenta tipi di silenzio se volete – che siamo in grado oggi di allestire, di percepire e di far sperimentare all’altro in modo più funzionale al lavoro analitico.

Per intenderci, un silenzio non feticizzato di per sé con un atteggiamento esteriormente rituale di cui magari compiacersi narcisisticamente, un silenzio “sospeso” di attesa, sempre meno persecutorio per come lo proponiamo al paziente; è un silenzio “che serve” (è utile), che favorisce il contatto interno e la emersione conflittuale di quello che invece una parte del paziente non vorrebbe emergesse.

Ho imparato, inizialmente con stupore e poi con sempre maggior fiducia, spesso con piacere e qualche volta con sincero divertimento, le straordinarie potenzialità e la ricchezza sorprendente del preconscio, scegliendo quando condividerlo in seduta e quando no: sperimentando in seduta come in certi casi fare ciò sia utile per dimostrare sul campo al paziente, con l’esempio, quanto possa essere fertile aprirsi creativamente a quel livello di contatto interno; mentre in altri casi il mostrarsi capace di frequentarlo è prematuro e fonte di frustrazione e di invidia, per chi ancora non se lo può permettere. Tutto ciò, comunque, sapendo che prima o poi quel tipo di pervietà tra i due livelli sarebbe diventato il centro di una parte importante del nostro lavoro.

Per me la psicoanalisi è diventata, con gli anni, sempre meno la scienza dell’inconscio in sé e per sé, troppo spesso a rischio di speculazione astratta e iper-concettuale; e sempre più, invece, la via del possibile accesso all’inconscio, una via vissuta ed esperienziale: una strada vitale, piena di colori, di suoni, di occasioni e di scambi, anche se inizialmente densa di oscurità e di paure.

Questa strada va percorsa con un paziente conflittualmente cooperante, possibilmente sensibile, sognante ma sveglio, non ipnotizzato (come anche Freud stabilì); non ci interessano le configurazioni fantasmatiche profonde del paziente come un astratto dato di laboratorio a sua insaputa, non ci interessa “informarlo” in modo astratto al solo livello dell’Io cognitivo.

Ci interessa molto di più aiutarlo a trovare una sua modalità di contatto vivo e non impossibile con il suo interno. Come diceva Confucio: “insegnargli a pescare, non dargli un pesce una tantum”.

E ho scoperto soprattutto che ci sono modi e stili diversi di percorrere questa strada.

 

Con la seconda topica, rivisitata e progressivamente integrata da molti autori post-freudiani, soprattutto con una migliore specificazione dell’area dell’Ideale dell’Io e del Super-Io, mi si è posto con crescente evidenza un problema generale che è entrato a far parte del mio metodo: quello della progressiva individuazione, evidenziazione ed esplorazione delle disarmonie, sproporzioni e sbilanciamenti tra le istanze della persona.

Non c’è e non ci può essere uno standard preciso e universale, un “metro di Sévres” per calcolare la salute o la patologia delle combinazioni interne di una personalità: ci sono mille tipologie personali, infiniti modi di essere al mondo e di relazionarsi con gli altri e con sé stessi.

Eppure negheremmo l’evidenza delle nostre percezioni se non riconoscessimo di essere comunque almeno impressionati, in molti casi, da un “troppo” o da un “troppo poco” nella distribuzione di spazi e di risorse, di investimenti libidici e narcisistici, a volte di potere tout court, nel gioco interiore delle istanze dei nostri pazienti, di noi stessi al lavoro e degli esseri umani in generale.

 

Il passaggio teorico e descrittivo del mondo interno dalla seconda topica freudiana alla teoria delle relazioni oggettuali è stato vissuto a suo tempo come una rivoluzione spinta fino alla contrapposizione piena di modelli teorici, drammatizzata al suo acme dalle Controversial Discussions.

Oggi credo che siamo in condizione di ridimensionare, almeno parzialmente, quel senso di assoluta e radicale discontinuità, rivisitandone invece proprio gli aspetti d’intrinseca continuità, che ci portano a conoscere in analisi le configurazioni ramificate, i climi, le atmosfere, le temperature, le luci, le ombre, la qualità delle relazioni interne che si riflettono e si ri-editano in quelle esterne, venendo però a loro volta influenzate da queste ultime.

 

Apro due parentesi.

La prima è questa: uno degli sviluppi possibili delle prospettive psicoanalitiche, da un punto di vista teorico, sarà secondo me proprio quello di riconoscere alcune continuità che sembravano enormi discontinuità, tra modelli precedenti e modelli successivi.

Mi spiego meglio.

La radicalizzazione dei modelli è stata molto spesso il frutto della evoluzione dei rapporti tra i vari gruppi scolastici: rapporti inaspriti da questioni personali tra i protagonisti, dalle cosiddette Pioneer Syndromes, dalle rivalità (come quella arcinota tra Anna Freud e Melanie Klein) che hanno estremizzato, portato a massima tensione, alcune differenze che ci sono, sì, ma che a distanza di decenni risultano almeno in parte comprensibili in una ottica di maggiore continuità.

Per esempio, tra la seconda topica e la teoria degli oggetti interni, laddove quest’ultima sembra, in effetti, fornire una diversa articolazione, tridimensionalità e raffigurabilità degli equivalenti delle istanze: personaggi anziché istanze, figure anziché istanze, presenze nel mondo interno delle fondamentali figure umane di ogni soggetto, ma continuità con le istanze.

 

Un approfondimento di queste letture in chiave storica che diminuiscono la discontinuità lo possiamo ritrovare in quegli studi, peraltro ancora molto rari, che mettono in dialettica l’Edipo e le sue radici nella fase diadica.

Detta in altri termini: a seconda di come le fasi primarie diadiche sono state vissute e sperimentate, e si sono organizzate come esperienza interna, si possono in molti casi prevedere o perlomeno comprendere gli sviluppi edipici successivi, nelle loro drammatiche tensioni, nelle loro coloriture più o meno cupe o vivibili.

E io prevedo che questa parte di storia della psicoanalisi si svilupperà meglio nel futuro, quando gli psicoanalisti riemergeranno da potentissimi “transfert di scuola”: quando potranno porsi in una posizione “terza” e ulteriore che permetterà loro di ricostruire certe fasi degli sviluppi della psicoanalisi con un occhio più sereno e meno passionalmente arruolato presso figure di Maestri che sono stati oggetto di transfert massicciamente strutturati nel loro mondo interno individuale e gruppale.

 

Che l’analista non sia solo il reporter o il testimone di vicende interne, ma ne sia a volte in qualche misura un potenziale cori-autore – “co” e “ri”, di nuovo – è consonante con la nostra idea attuale che l’analisi non sia solo un’operazione di conoscenza informativa noetica (tipo “abbiamo scoperto che lei è così e così per queste e quelle ragioni”), ma che sia un’esperienza ben più complessa e trasformativa a livelli più essenziali e profondi, a volte pre-logici e a volte pre-rappresentazionali. E aggiungo: pre-soggettuali; e in certi casi co-soggettuali.

 

Abbiamo potuto esplorare in questi ultimi decenni la primitività degli stati del Sé; la vitalizzazione o la atrofia e l’impoverimento di esso; la complessità del bilancio narcisistico individuale e familiare; la qualità differente della notazione narcisistica di base, fisiologica e necessaria; di quella grandiosa, residua anti-separativa e di quella distruttiva, comprese le idealizzazioni narcisistiche segrete che conducono a relazioni perverse intra- e inter-personali.

Abbiamo imparato a percepire i livelli sani o alterati di coesione del Sé, che a loro volta influenzano e talora condizionano quelli dell’Io.

Questa crescente complessità del campo teorico-clinico ci ha condotto ad essere interessati non solo alle rappresentazioni visive, al linguaggio, ai contenuti e ai personaggi delle fantasie dei sogni e più in generale dei pensieri dei pazienti; ma anche a quelle condizioni più atmosferiche, umorali, viscerali e generali che caratterizzano gli stati del loro Sé, quelle condizioni che per osmosi creano per entrambi (analista e paziente, in seduta) i vissuti più profondi, inespressi e talora più sottilmente pervasivi.

Vissuti che contribuiscono spesso a farci sentire bene o male, vicini o lontani, in contatto o distaccati, interi o frammentati; quei vissuti che in certi casi i nostri amici neuroscienziati riferirebbero, ad esempio, più all’attivarsi di aree posteriori dell’insula che non ad aree corticali, e via di questo passo, e coi quali noi siamo chiamati a sperimentare qualcosa che non è stato di solito condiviso e integrato, quando sarebbe stato tempo che ciò avvenisse.

Qualcosa che chiede ancora e sempre di essere sentito e possibilmente dotato di senso con l’aiuto di qualcuno.

 

DA QUI

Sono certo di stare presentando qui, con questi pensieri un po’ sparsi, ben meno di un centesimo di quello che è oggi la psicoanalisi, esplorando quel plancton variegato che essa può offrire attraverso le sue molteplici acquisizioni in progress e le osservazioni dei sempre più numerosi colleghi che operano nel nostro campo.

Ma sono anche certo di riportare qui, sia pure in forma iper-condensata e sincopata, una serie di annotazioni che rientrano nel tema del metodo: dal momento che queste molteplici acquisizioni di fatto lo hanno esteso, arricchito, reso più articolato e complesso anche se meno rassicurante e circoscritto.

Pensiamo, in una prospettiva storica, a quanta difficoltà – non solo teorica in astratto, ma anche metodologica – è stata incontrata per decenni nel definire il ruolo e la funzione possibile del controtransfert nel nostro lavoro, tra chi lo ha visto solo come un ostacolo, un disturbo, e chi ne ha enfatizzato a volte ottimisticamente la funzione euristica.

Eppure la maggioranza degli analisti oggi lo considera un elemento fondamentale del nostro lavoro.

E anche la considerazione verso la più recente delle annunciate “vie regie” verso la comprensione dell’inconscio (l’enactment), come si è visto nel penultimo Congresso della SPI, sta registrando una crescita notevole di interesse.

 

Ora, venendo al metodo: un punto importante, secondo me, è stata la progressiva valorizzazione integrativa degli aspetti esperienziali del trattamento.

Il paziente e l’analista oggi sono molto spesso implicati, coinvolti, in un’esperienza che non è limitata al capire, al decifrare, al tradurre, e nemmeno al solo rappresentare; e utilizzano questa opportunità come parte del metodo.

Naturalmente parliamo di qualcosa che chiede di essere integrato con una comprensione e con una utilizzabilità analitiche; ma l’aspetto esperienziale ha guadagnato un’importanza e dignità metodologiche. Potremmo dire che è progressivamente diminuito l’aspetto intellettualistico o culturale dell’analisi, e si è accentuato sempre più quello integrativo.

 

Una piccola digressione, un détour associativo: mi avevano colpito recentemente quei movimenti ecologisti, peraltro supportati da alcuni governi dei Paesi più avanzati, che finanziano delle attività di rewilding sul loro territorio nazionale.

Il rewilding è una iniziativa di Stati europei e nordamericani di cura e sviluppo di aree ecologiche in cui possano essere conservati o reintrodotte forme di vita selvaggia: animali autoctoni che stavano estinguendosi vengono protetti o appunto re-introdotti, in modo che possano vivere allo stato brado, reintegrando lo stato naturale precedente di quei territori.

 

Mi era venuta questa associazione, pensando al fatto che, all’opposto, una antropizzazione estrema dei territori potrebbe equivalere, in termini psichici, ad una pretesa dell’Io di affrancarsi troppo dall’Es, dalle pulsioni e dagli istinti.

Il detto freudiano per cui là dove c’era l’Es ci dovrà essere l’Io, può essere oggi integrato recuperando zone di reintegrazione naturalistica e di pescaggio ambientale che secondo me equivalgono ad una valorizzazione del preconscio: la persona potrebbe integrare l’accesso al proprio osservatorio/laboratorio pulsionale in una maniera più fluida e più vivibile; in un ambiente più “convivibile” per i vari livelli e le varie istanze interne.

In sostanza, questo riguarderebbe il recupero di una maniera vivibile, appunto, di mettere in contatto l’Io con una più ampia porzione dell’Es, favorendo una migliore pervietà e praticabilità del preconscio. Beninteso, con opportune limitazioni: se pensiamo alla guerra, ecco, lì di Es ce n’è troppo, e non è quello un rewilding auspicabile come scenario collettivo di integrazione armonica…

 

Un secondo punto che, a mio avviso, è in evoluzione riguarda il superamento progressivo della antinomia relazione-pulsione, che per motivi storici e di varia natura è stato terreno di dispute polemiche per molte correnti del nostro movimento psicoanalitico.

Secondo me queste dispute saranno destinate a perdere la loro drammaticità man mano che le componenti transferali verso i maestri, gli autori e le teorie in sé saranno un po’ mitigati, dopo qualche passaggio generazionale.

La contrapposizione tra il modello pulsionale e quello relazionale è stata enfatizzata al di là del necessario: io credo che, per così dire, un’automobile debba avere il motore e i freni, ma debba avere anche le luci di posizione, il volante, il cambio e tutto il resto. Insomma, penso che l’antinomia pulsione-relazione possa in futuro essere studiata, compresa e anche storicizzata in una maniera che porti a una visione più integrativa, con minori angosce identitarie all’interno dei vari gruppi analitici.

 

La libera associazione resta il pilastro, l’elemento basilare del nostro metodo.

Secondo me, comunque, c’è stata un’evoluzione in senso migliorativo perché è stata progressivamente legittimata, valorizzata, studiata, sgranata, lubrificata, diffratta in modo fertile, sempre per favorire una maggiore e migliore pervietà e fluidità, soprattutto dell’area preconscia.

Così come, nella meteorologia dell’ambiente interno del soggetto, abbiamo compreso l’importanza delle congiunture meteorologiche, favorevoli o no, che possono intercorrere tra le istanze, ai fini della crescita del soggetto e dell’evoluzione del trattamento.

In questo senso possiamo dire che il concetto di “bonifica” (un concetto che riguarda sicuramente il mondo degli oggetti interni, ma che è estendibile anche alla seconda topica, al rapporto tra le istanze classiche) non coincide affatto con la funzione correttiva dell’analisi, perché è qualcosa di ben più complesso: non si tratta di insegnare qualcosa al paziente, o di farlo star meglio lì per lì.

Si tratta di introdurre dei cambiamenti, in certi casi delle trasformazioni, delle fluidificazioni, delle connessioni, che prima non erano possibili, attraverso l’aumento della vivibilità del mondo interno del paziente.

Che questo effetto venga poi ottenuto anche attraverso la relazione tra paziente e analista, non è certo una questione di semplice manipolazione, o di soppressione degli elementi di transfert negativo, di ostilità o altro; è invece un lavoro estremamente complesso di comprensione e di convivenza interpsichica.

Si inizia con una coabitazione analitica, si va a una convivenza analitica, e se le cose vanno bene si impara – esperienzialmente – l’interscambio analitico.

 

E qui si apre il vario e vasto mondo delle diverse modalità possibili di scambio tra analista e paziente, tra individuo e individuo: quelle modalità che portano a ripercorrere, se possibile con cambiamenti in meglio, i canali fisiologici di passaggio dall’interno dell’uno all’interno dell’altro che furono sperimentati a livello corporeo ab initio.

È il tema del rapporto dialogico tra e con gli oggetti interni, della possibilità di scambio con l’altro nell’hic et nunc, e dell’utilizzazione analitica anche degli scambi nell’alibi et tunc.

 

Mi spiego meglio, con un riferimento alla clinica.

Un tempo, quando un paziente iniziava una relazione amorosa esterna all’analisi (alibi et nunc, ora e fuori dalla stanza analitica), ci sarebbe stata di solito una tendenza un po’ scolastica a far scattare subito l’interpretazione della difesa di spostamento; non sbagliata in sé, nella maggior parte dei casi, perché è vero che quello che viene sviluppato, diciamo ispirato, messo in moto dall’oggetto-analista spesso si trasferisce al di fuori; e infatti vediamo appunto tante relazioni esterne, più o meno significative, che si sviluppano lateralmente all’andamento dell’analisi.

 

Ma quello che stiamo imparando a distinguere meglio, in questo periodo, è quando si tratta di spostamenti difensivi e quando si tratta invece di nuove, inedite possibilità di utilizzare all’esterno qualcosa che è diventato psichicamente vivibile all’interno della situazione analitica.

Questa possibilità di differenziazione clinica è a mio parere una delle mille cose che sono cambiate in questi anni: l’analista oggi si pone maggiormente il problema, in senso tecnico, di distinguere le patenti, evidenti operazioni difensive, di mero evitamento, che possono diventare tenacemente resistenziali, rispetto al riconoscere, nella stanza di analisi, quei tentativi – a volte molto naïf ma dotati di qualche germoglio nascente più che rispettabile – di utilizzazione a latere di ciò che è stato faticosamente aperto, costruito, trasformato, fatto evolvere, anche nella relazione analitica interpsichica.

La sensazione e la rappresentazione metodica delle modalità degli scambi in seduta, come equivalenti delle interazioni corporee fondanti tra soggetto e oggetto nei processi di crescita e di sviluppo, parte dai Tre saggi sulla teoria della sessualità: Freud stabilisce il punto fermo della primarietà dell’esperienza corporea e delle equivalenze tra relazioni corporee e successive relazioni non corporee, che si possono stabilire tra gli esseri umani e poi all’interno di ognuno di essi.

Molto semplicemente, sappiamo come la nutrizione trovi i suoi equivalenti più evoluti nelle maniere con cui un soggetto adulto può nutrirsi, appunto internalizzare e nei casi migliori introiettare e far proprio (quindi con un processo metabolico e digestivo valido e completo) quello che l’altro può fornirgli.

È uno schema processuale che ritroviamo anche nelle fecondazioni e fertilizzazioni, nelle situazioni in cui qualcosa passa dal dentro dell’uno al dentro dell’altro, e gli equivalenti di questo producono effetti trasformativi in chi riceve. Ma anche in chi dà.

Per esempio conosciamo la sensazione (non illusoria!) che può prodursi nell’analista, di stare lavorando sufficientemente bene, quando avverte che il paziente è in condizione di nutrirsi con quello che l’analista dà.

Qualcosa che ha qualche analogia, qualche equivalenza, con il piacere della madre nel dare il latte a un bambino che riesce a succhiarlo volentieri, e l’accoppiamento fra i due si può realizzare in una maniera sufficientemente piacevole e armoniosa.

 

Questa è una delle esperienze che fanno a volte gli analisti quando si realizzano quelle “lune di miele analitiche” non idealizzanti e non difensive, o almeno non troppo idealizzanti e non troppo difensive, quando all’inizio di certe analisi un paziente che ha avuto la fortuna di una buona esperienza primaria e ha invece trovato degli ostacoli in una fase successiva della crescita, rivive e ricrea con l’analista una sensazione di buon lavoro nelle sedute della prima fase dell’analisi: quella fase che chiamiamo allora di “luna di miele analitica”, in attesa che si presentino poi gli ostacoli in fasi successive.

È un’atmosfera che oggi non sperimentiamo affatto invece con tutti quei pazienti – e sono molti – che sono passati attraverso una difficoltà primaria ad attaccarsi al seno, ad accettare la suzione analitica, e che fanno sentire l’analista frustrato, inutile, incapace, arrabbiato e lacerato da vere e proprie “ragadi psichiche” quando il paziente, drammatico portatore e riproduttore delle difficoltà nella relazione primaria, le fa rivivere pienamente nello scambio dal dentro dell’uno al dentro dell’altro.

 

Per inciso, io sono convinto che una buona parte di molte difficoltà oggi, di far accettare a un paziente la frequenza intensiva fin dall’inizio, dipendano proprio da una maggiore frequenza di queste difficoltà primarie, che a loro volta derivano da una serie di concause che non riporterò qui, ma che sono aumentate negli ultimi decenni.

 

È aumentata la nostra attenzione ai processi di fusione e defusione, di simbiosi e separazione, di investimento e di ritiro lungo l’asse della relazione tra soggetto e oggetto (ritiro del baricentro), sia nelle espressioni transferali sovradeterminate e ripetitive sia in quelle di apertura e di prova. Credo che siamo più esperti, grazie a tutto il lavoro fatto dalle generazioni precedenti, nel distinguere queste due tipologie di situazioni.

Anche in Italia abbiamo avuto contributi di grande interesse in questo senso: pensiamo, per esempio, ai lavori sui disturbi di fusione e defusione, che sono diventati una delle specialità della scuola italiana.

Sono aspetti cui una volta si badava meno, ma che adesso sono oggetto frequente della nostra attenzione e inevitabilmente anche del metodo: siamo diventati più attenti nel tenere in mente questi aspetti, queste configurazioni, questi sviluppi, questi modi di essere e di rapportarsi sia del paziente che dell’analista, in seduta.

 

Ancora: siamo diventati molto, molto più attenti di quanto non si fosse (ovviamente) nei primi decenni della psicoanalisi, a tutte le forme di scissione, di dissociazione, circoscritte a reali episodi oppure massive e strutturate, e ai processi di rientro di ciò che è proiettato o è stato in qualche maniera chiuso fuori, a diversi livelli di gravità.

Siamo pure molto più interessati alle vicissitudini del bilancio narcisistico, nell’ampio spettro di declinazioni che intercorrono tra fisiologia e patologia; così come monitoriamo con attenzione gli effetti di questo bilancio narcisistico sullo stato del Sé, sulla consistenza, sulla vitalità e sulla coesione interna del soggetto.

Valutiamo con cura lo stato dell’alleanza di lavoro: un concetto che è stato abbastanza contestato in Europa quando è stato formulato negli anni ’50 e ’60 dai nordamericani, ma che è stato poi arricchito da un apporto italiano importantissimo, quello di Gaddini quando parla dell’“alleanza clandestina”.

Perché di fatto siamo oggi più sensibili a questo aspetto?

Perché sono sempre di più i pazienti che non sopportano di dipendere dall’analista, che sostanzialmente non accettano di farsi nutrire; molti di essi detestano essere in una relazione fertile, hanno mille motivi (che saranno poi oggetto di lavoro e di comprensione) per non voler essere nutriti per lungo tempo.

Gaddini ha studiato l’alleanza terapeutica clandestina: un processo che avviene a parziale insaputa del paziente, del soggetto, e che gli analisti più accorti somministrano “sottotraccia” per un certo tempo, attraverso canali preconsci o inconsci, quasi di contrabbando, prima che il paziente diventi capace di accettare consciamente un canale ufficiale di nutrizione e di interdipendenza.

 

Io ricordo che Giorgio Sacerdoti suggeriva di utilizzare a volte tecniche un po’ irrituali con certi pazienti narcisisticamente refrattari alla dipendenza: secondo lui bisognava saper fare un po’ il pesce in barile, giocare scientemente la parte dello stupido, “fare lo gnorri”, nel fornire certi elementi (a volte goccia a goccia, a volte sottobanco) che nutrono il paziente senza che il paziente se ne accorga troppo e senza che si offenda narcisisticamente.

Qualcosa di simile a ciò che si fa con certi bambini che non vogliono il cucchiaio di minestra, e li si distrae col cucchiaio/trenino che fa ciuf ciuf per andare a finire nella “stazione” che è la bocca del bimbo imbambolato: una procedura molto comune, che permette la nutrizione mettendo un po’ da parte, appunto, certe componenti oppositive del piccolo.

Ecco, secondo me è in evidente aumento una serie di preclusioni oppositive, in molti pazienti, che richiedono proprio l’utilizzo dell’alleanza clandestina: una configurazione tecnica che gli analisti hanno imparato a includere nel loro metodo, stando bene attenti a non fornire prematuramente contributi interpretativi che – al di là dell’essere più o meno perturbanti per la loro specificità – offenderebbero il narcisismo sovrano di un lattante che in quel momento sputerebbe fuori tutto.

 

Citerò infine, come conclusione, alcuni provvedimenti tecnici minimi di uso comune, che sono poca cosa in assoluto, ma che danno un’idea di una metodologia analitica sempre più consapevole e articolata.

Come vedrete, si tratta per lo più di cose che facciamo tutti e che facciamo da un pezzo, solo che non sono state descritte più di tanto, quasi fossero figlie di un dio (teorico-tecnico) minore. Proviamo a dare dignità e descrizione a questi piccoli stratagemmi tecnici.

 

Uno è semplicemente la richiesta di esplicitazione: quando lavoriamo con un paziente che ha formulato una frase, un’associazione, un qualcosa che necessita di essere più esteso, e sentiamo necessario che il paziente non sia così avaro di successivi pensieri associativi, noi certe volte chiediamo:

Cioè?

Oppure:

Tipo?

Oppure:

In che senso?

Altrove ho descritto minuziosamente le differenze fra il chiedere “Cioè?”, il chiedere “Tipo?” o il chiedere “In che senso?”. Non ve le propongo in questa sede, ma segnalo come questa sia una modalità di integrazione della libera associazione che in certi momenti, e non certo con tutti i pazienti, può costituire un ulteriore sviluppo del metodo.

 

Un altro provvedimento che è entrato a far parte del metodo e che sembra una cosa semplice (mentre in realtà dal punto di vista teorico è piuttosto complessa) entra in scena quando noi usiamo una formula universalizzante con il pronome “si” (per esempio: “si dice che…”, eccetera eccetera) invece che l’uso del pronome personale (“io dico così, tu dici così”).

Il “si” ha una funzione possibile di universalizzazione, di umanizzazione in certi casi, è volutamente generalizzante, può favorire momenti di simmetria intenzionalmente selezionati e somministrati nell’interscambio analitico.

Perché se si dice, si fa, si sente, si vive qualcosa, vuol dire che noi esseri umani comunemente sperimentiamo e scambiamo proprio queste esperienze come comuni a tutti noi; è una modalità che serve nei momenti in cui all’interno della asimmetria analitica si creano, o è utile creare, delle fasi di simmetria in cui il paziente può sentire condiviso qualcosa che in questo modo viene reso meno spaventoso o folle o insostenibile.

 

La meno appariscente fra queste operazioni minime si compie forse quando noi diciamo: “mmmh”.

Sul “mmmh” in psicoanalisi fu scritto uno storico lavoro da Greenson, negli anni Cinquanta. Ma Greenson lo riferiva soprattutto a un aspetto orale di suzione: “mmmh” come “mamma”, “mother”, “Mutter”, “mère”, eccetera eccetera; quella M che ha una forte componente labiale e che rimanda proprio al succhiare.

Io invece estenderei il senso di questo vocale anche alla costruzione, da parte dell’analista, di una situazione, di un campo, di un’area in cui, dato un segnale di ricevuto (“mmmh…”), si apre un’area di pensiero e di assaporamento comune, ma anche di invito alla riflessione. Come dire: tu mi hai dato questo; io lo sto assaporando e considerando e ti faccio sentire che l’ho ricevuto; ma al tempo stesso creo una sensazione di pensosità, di pensabilità auspicata per cui ”… mmmh … ”, vediamo. Vediamo insieme, vedi tu coi tuoi pensieri, insieme a me.

È un potenziamento, a ben vedere, della pensabilità delle libere associazioni.

 

Utilizziamo un altro di questi “minimi” strumenti tecnici quando segnaliamo a un paziente che in seduta “è riuscito a”: per esempio, che è riuscito a dire una certa cosa, è riuscito ad aprire una finestra su un argomento, è riuscito a vincere un ostacolo nel dire a noi una certa cosa, “è stato capace di”: in questo caso si provvede ad una valorizzazione del Sé di lavoro del paziente.

Questa operazione va fatta solo a ragion veduta e raramente; ma in certi casi è preziosissima perché conforta narcisisticamente in senso sano, fisiologico e necessario, il contributo del paziente in analisi, il suo “stare in analisi”, e il sentirsi un co-protagonista dell’analisi stessa.

 

E che dire poi di quell’altro provvedimento metodologico del limitarci, a volte, a ripetere o riformulare qualcosa che il paziente ha detto?

Da un lato c’è naturalmente una riproposizione che permette al paziente di ripensare meglio a quello che ha detto; ma c’è anche quell’aggiunta, con la nostra voce e col nostro modo di parlare, di un contributo soggettivo e co-soggettivo, ausiliario da parte dell’analista, che trasforma ciò che il paziente ha detto in un oggetto notevole su cui riflettere ulteriormente; beninteso, con il non trascurabile arricchimento delle inevitabili nuance preconsce che l’analista metterà in quella sua produzione.

 

Infine desidero menzionare, in questa rapida carrellata di strumenti tecnici minimi, l’uso mirato e intenzionale del “noi” in passaggi comunicativi specifici, che spesso prelude poi a possibili interpretazioni di transfert.

 

 

Stefano Bolognini (Bologna)

Centro Bolognese di Psicoanalisi

dott.stefano.bolognini@gmail.com

*Per citare questo articolo:

Bolognini S, (2024) “Evoluzione e complessità del metodo psicoanalitico”, Rivista KnotGarden 2024/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, p. 150-175

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