Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Caterina Olivotto
Tra le molte sollecitazioni che mi sono arrivate pensando ai vari significati e alle varie sfaccettature che il segreto assume nella teoria psicoanalitica e nella sua clinica, vorrei soffermarmi su due considerazioni che, come un filo sotterraneo, mi hanno portato poi a riflettere sull’ombra che a volte fa il segreto, riflessione che proverò a fare attraverso un romanzo di Javier Marìas e ad alcune vignette cliniche tratte dal lavoro con Antonio, un bambino di 5 anni.
Mettendo insieme i punti di vista teorici di alcuni autori a proposito del concetto psicoanalitico di segreto a partire da Freud, mi è piaciuto immaginare queste teorizzazioni in movimento e cioè come se seguissero un percorso che, partendo da una lettura e da una interpretazione del segreto prevalentemente centrata su ciò che accade all’interno della psiche del soggetto – quale posto esso può prendere e quale significato inconscio attribuirgli tenendo conto dell’influenza che questo poi ha nella cura del paziente – arriva pian piano ad una sua (del segreto) dimensione sempre più relazionale nella quale un posto centrale viene attribuito al motivo che ha portato al segreto, al suo contenuto e, di conseguenza, alla sua influenza sia nella relazione con l’oggetto che all’interno della psiche dei due soggetti implicati. Se ci raffiguriamo questo movimento tra due poli, possiamo immaginare che metta in evidenza come, di volta in volta, uno stesso concetto, visto da diversi punti di vista e ancor di più, da livelli diversi, possa offrire una visione più completa e più integrata di ciò che sta succedendo nel paziente e nella relazione di cura; ci può aiutare, soprattutto nei momenti più difficili e di stallo, a poter privilegiare, cambiando prospettiva, una lettura piuttosto che un’altra a seconda del momento che ci troviamo ad affrontare nella cura. Mi piace quindi pensare questo movimento come l’emergere pian piano di diversi livelli di lettura in un loro andirivieni che fa luce ora più su un significato metapsicologico, ora più relazionale del segreto.
Tenendo conto di questo immaginario movimento tra due poli, un altro aspetto che mi si è palesato è che il segreto, nel suo significato, mi pare si presenti sempre con due facce: una guarda all’esterno e alla relazione con l’altro, l’altra è rivolta all’interno di sé stessi coinvolgendo diverse istanze psichiche e la relazione che ognuno ha con i propri oggetti interni. Quando lo sguardo va all’esterno, il segreto sembra essere qualcosa che coscientemente, in qualche modo, la persona decide o si ritrova costretta a mettere da parte; nella sua mente resta presente, ma contemporaneamente separato, qualcosa che è tenuto da parte, ma al quale si può tranquillamente accedere. Cercando il significato della parola segreto mi aveva colpito che nella sua definizione veniva sottolineata la “separazione, non per ostilità o per astio”, come sua vera essenza. Esclusione di qualcosa di proprio che si può aver paura di esprimere o di condividere perché temiamo non possa venire approvato o accolto, di cui ci si vergogna – e penso qui, seguendo La Scala e Munari (2003), a quella vergogna che appare nel momento in cui ci si accorge che ci si differenzia dall’altro e il timore che se ne può provare; o, al contrario, qualcosa che teniamo nascosto perché pensiamo troppo prezioso per poter essere condiviso. In questa accezione, che ci tiene nel campo della coscienza e di ciò che può essere ragionato e dedotto, il segreto ci mette sempre in relazione con l’altro: se ci pensiamo non può esserci un segreto simile se non in funzione di un’altra persona con cui decidiamo di non condividerlo. Immediatamente pensiamo allo spazio privato così prezioso per la formazione del Sé (Winnicott 1960, 1963). Ma se guardiamo attraverso l’altra faccia del segreto, un conflitto deve pur esserci stato da qualche parte se poi qualcosa viene celato. Quindi forse, “non per ostilità o per astio” possiamo anche intenderlo riferito a qualcosa che ora non si vede più, ma che un tempo c’è stato e che è divenuto esso stesso segreto magari perché fonte di qualcosa di inaccettabile in quel momento per l’economia della psiche come, ad esempio, la distruttività legata all’affacciarsi della pulsione di morte. Possiamo allora pensare che sia qui, in questo qualcosa che ora non vediamo più, il nesso che lega le due facce? Sembra quindi che qualcosa debba restare segreto anche a costo di tanti sforzi e impiego di energia come a scongiurare la sensazione angosciante inevitabilmente legata al suo apparire. Non è proprio tutto cosciente quindi ciò che viene celato e dobbiamo tenere conto anche di parti che sfuggono inevitabilmente alla coscienza, che operano uno slegamento e scindono l’affetto dal fatto concreto, diventando segrete a noi stessi; il dualismo sé/altro, interno/esterno diventa necessariamente un dualismo Sé/Sé, interno/interno. Che cosa si gioca allora nel nostro mondo interno in relazione al segreto dalle due facce, cosa ci spinge a nascondere a noi stessi qualcosa che nemmeno noi sappiamo? È inevitabile a questo punto il riferimento a ciò che Freud scrive ne Il Perturbante (1919). Prendendo in esame i vari significati della parola tedesca heimlish (confortevole) che poi lentamente si trasforma nel suo contrario unheimlish (perturbante), Freud si sofferma su una frase di Shelling “E’ detto unheimlish ciò che dovrebbe restare … segreto, nascosto, e che è invece affiorato” (86). In altre parole, e più avanti nel testo Freud sarà ancora più chiaro, egli definisce il perturbante, cioè ciò che genera l’attivazione dell’angoscia, il ritorno del rimosso ovvero il segreto che torna e ciò che è stato rimosso è il desiderio. Non è la paura che genera la sensazione perturbante, “bensì un desiderio o anche semplicemente una credenza infantile” (95). Ecco allora che ci appare in controluce il conflitto di cui eravamo alla ricerca e le forze del controinvestimento che spingendo indietro il desiderio inaccettabile lo tengono nascosto, segreto appunto; il suo riaffiorare, anche se sotto mentite spoglie, genera quella sensazione di angoscia diffusa che preme perché niente torni a galla e ci confronta col perturbante. Nel suo penultimo romanzo, Berta Isla, che racconta della relazione tra i due protagonisti immersi in una vita condizionata dallo spionaggio, Javier Marìas – su cui tornerò più avanti soffermandomi un altro suo romanzo – segue una volta di più il filo del segreto e della sua spinta ad emergere dolorosamente e quasi si affianca al pensiero di Freud “Ciò che si è provato ed è stato scartato in quanto eccessivo, criminale o ingiusto, in realtà non è stato eliminato, rimane solo in attesa, latente, dormiente, dillo come preferisci, ansioso di tornare in vita, di essere ridestato, in attesa di tempi meno riflessivi, più vili, che alla fine tornano sempre” (Berta Isla, 227).
Si attivano allora difese primitive come la scissione, il diniego, la negazione e poi l’identificazione proiettiva che permette a ciò che, in alcune situazioni, è segreto nella nostra psiche di migrare nella psiche dell’altro all’insaputa di ognuno dei protagonisti, producendo però così tanti effetti su entrambi come ben ci hanno fatto vedere gli autori che si interessano del transgenerazionale.
Proprio come l’ombra che soffoca quando, ad esempio, sotto un grande albero, impedisce alla luce di dare linfa vitale alle piantine che si trovano lì sotto, così il segreto, in questa sua faccia, diventando frutto di una manovra difensiva per tenere a bada desideri o pensieri inaccettabili che spingono per emergere e che si collegano, in qualche modo, ad un trauma che non può essere affrontato ed elaborato, può arrivare ad inglobare qualcosa di sconosciuto e inconoscibile al soggetto agli effetti del quale però egli non può sfuggire.
Ho pensato allora ad Abraham e Torok che, cercando di dare un significato metapsicologico alla realtà interna così come appare nella situazione analitica, affermano “Essa si definisce dunque come ciò che è rifiutato, mascherato, negato in quanto – per l’appunto – ‘realtà’, come ciò che, poiché non deve essere conosciuto, è; in breve, si definisce come un segreto” (245). Sottolineano poi che fino al momento in cui il segreto non si fa strada emergendo in analisi “… (esso) tuttavia pesa sulla cura con la sua presenza occulta. La cripta è là con la sua bella serratura, ma dove è la chiave per aprirla? Nella topica, questa cripta corrisponde ad un luogo definito. Non è né l’Inconscio dinamico né l’Io dell’introiezione, bensì un’enclave tra i due, una sorta di Inconscio artificiale, collocato in seno stesso all’Io. L’esistenza di una tale tomba ha l’effetto di otturare le pareti semi-impermeabili dell’Inconscio dinamico: nulla deve filtrare verso il mondo esterno. Spetta all’Io la funzione di guardiano (…)” (1987, p. 247). Secondo questi autori ciò che viene sepolto è un desiderio già realizzato divenuto inaccettabile e niente può far sì che venga cancellato il ricordo della sua realizzazione e del suo soddisfacimento. “Quel passato è dunque presente nel soggetto come un blocco di realtà ed è preso di mira come tale nelle negazioni e nei dinieghi” (p. 248). Si chiedono allora “e se questo “crimine”, questo contenuto segreto (…) fosse un puro e semplice fantasma?” (p.248). Trovo molto interessante, seguendo questi autori, pensare a come lavora questo fantasma sia all’interno della psiche della persona a cui il segreto appartiene, che nella psiche di colui nel quale, passando alla generazione successiva, trasmigra. La trasmigrazione necessariamente opererà un effetto sull’inconscio del soggetto determinato dall’ombra della cripta che non gli appartiene, da un segreto inconfessabile che spesso riguarda lutti non elaborati. L’ombra della cripta, il fantasma del segreto indicibile, dà luogo ad una incorporazione basata su una lenta inclusione che incatena il soggetto e impedisce il libero fluire della sua propria vita pulsionale.
Già Freud (1912-13; 1914) ci aveva fatto presente come ci sia una eredità psichica che si fa garante della continuità tra generazioni sia negli aspetti positivi che in quelli negativi, ma anche che consegna alle generazioni successive il compito di superare ciò che è rimasto in sospeso nell’inconscio di chi li ha preceduti.
Così, immersa in questi pensieri, mi è tornato alla mente insistentemente un bellissimo romanzo che lessi anni fa. Si tratta di Un cuore così bianco, sempre di Javier Marìas. Al tempo mi piacque molto per tutt’altri motivi e sinceramente la questione del segreto mi era rimasta sullo sfondo; probabilmente, però, era solo nascosta e, in un certo modo, segreta nei miei pensieri visto che poi si è palesata in modo così forte.
Nel romanzo il protagonista, Juan, è in una fase molto delicata della sua vita; si è appena sposato invaso però da dubbi e tentennamenti sulla possibilità di fidarsi ed affidarsi, preso da fantasmi di presagi funesti che lo assillano fin da piccolo. È qualcosa che lo inquieta dentro di sé, qualcosa che lo confonde, ma che non capisce, non riesce ad afferrare pur avvertendo le conseguenze nella sua vita di tutti i giorni e nei suoi pensieri. Sembra essere qualcosa che proviene da altrove, che non lo riguarda direttamente, ma che è inserito nella sua storia e così, in un certo qual modo, Juan lo mette in scena nelle sue inquietudini. Sarà la giovane moglie Luisa, quasi in veste di detective – e, mi piace pensare, quasi di analista – che pian piano riuscirà ad avvicinare il tragico segreto di famiglia legato al padre del protagonista. Il segreto riguarda il motivo che ha portato alla tragica morte di Teresa (sorella della madre di Juan), motivo che non è mai stato messo in parole, anzi, tutto il tragico evento traumatico, è rimasto avvolto da una nebulosa di non pensiero. Nel finale del romanzo tutto viene svelato e anche il titolo del libro, che ci riporta al Macbeth di Shakespeare e soprattutto a Lady Macbeth, ci mostra la direzione. Mi dispiace per chi non ha letto il romanzo, e proverò a svelare solo pochi particolari della storia che ci appare dominata da un colpo di scena. Luisa, in una lunga conversazione con Ranz (padre di Juan) scopre pian piano ciò che è stato: Ranz era già sposato quando conobbe Teresa; non c’era modo a quel tempo di aggirare l’ostacolo. Teresa decide allora di lasciare Ranz poiché non ci possono essere speranze per il loro amore, a meno che la moglie non muoia. Questo pensiero, espresso a parole e quasi sovrappensiero da Teresa, ma pensato in fondo da entrambi, diventa il filo del tormento che porta Ranz ad agire. Successivamente, ormai libero, Ranz sposa Teresa e durante il loro viaggio di nozze, senza rendersene veramente conto e in uno slancio di sincerità, svela il terribile segreto. Teresa che non può reggere alla realtà dello svelamento che la fa sentire complice e altrettanto colpevole per le parole che pronunciò un tempo, si toglie la vita. Ranz sconvolto nasconde anche a sé stesso i motivi del gesto di Teresa e il segreto torna a celarsi. Resta custodito in Ranz in una parte della sua memoria, come staccato da tutto il resto tanto che sposerà Juana (sorella di Teresa e madre di Juan) alla quale nulla verrà mai svelato. Ranz vivrà la sua vita in una apparente, inquieta e scissa tranquillità, ma la sua ormai tarda età, il matrimonio del figlio, con il quale ha da sempre un rapporto difficile e soprattutto l’incontro con Luisa sembrano permettere un’apertura e il segreto infine verrà pian piano svelato non senza timore da parte di entrambi, non senza doversi confrontare con qualcosa di perturbante “ ‘Non me lo racconti se non vuole. Non me lo racconti se non vuole’, sentii Luisa ripetere e ripetere, e ripeterlo e ripeterlo quando era già stato detto non era che un modo civile di esprimere uno spavento, anche il mio, forse il pentimento di aver chiesto” [p.285-286]. Juan, tornato in anticipo da un suo viaggio all’insaputa di Luisa, riposa nella stanza accanto e, sbirciando dalla porta, ascolta tutto. “Così hai visto” gli dirà poi Luisa … “Ho visto” risponderà lui. Il segreto svelato, messo in parole sembra liberare Juan e creare nessi che lo alleggeriscono tanto che pian piano si scopre diverso “Adesso il mio malessere si è attenuato e i miei presentimenti non sono più tanto funesti, e benché ora non sia in grado di pensare come prima al futuro astratto, torno a pensarci vagamente, a errare con il pensiero rivolto a ciò che deve venire o può venire, a domandarmi senza troppa concretezza né interesse su cosa sarà di noi domani stesso o tra cinque o quarant’anni, per ciò che possiamo prevedere” (p. 307).
Il romanzo ci mette di fronte ad una azione delittuosa traumatica, frutto di un desiderio che viene soddisfatto, che nel momento in cui viene svelata genera un altro trauma. Ranz ad un certo punto dirà a Luisa “se avete dei segreti non raccontateveli mai”. Lo svelamento dell’evento traumatico diventa così traumatico esso stesso e la catena deve essere spezzata a protezione di tutti. Il prezzo sembra essere la formazione di una cripta che attraverso scissione e diniego ingloba, o meglio incorpora, ciò che è stato. Una parte della vita di Ranz scorre, il resto diventa segreto, dove per “resto” intendo non tanto il ricordo del fatto concreto, ma l’affetto, traccia di tutto ciò che emotivamente si genera nell’incontro con il trauma e che non può essere pensato, elaborato, simbolizzato e non può quindi avere un senso. È questo allora che diventa il contenuto del fantasma e che, dalla cripta segreta, fluttua e fa ombra nella vita del soggetto? Ed è questo fantasma segreto che, non restando immobile nella mente nella quale si è generato, trasmigra depositandosi nella mente di chi, ignaro, viene dopo? Possiamo pensare che proprio questo sia successo a Juan invaso da un’ombra non sua che però troneggia nella sua vita attraverso dubbi e timori che si rincorrono in un circolo vizioso mettendo in scena una sorta di coazione a ripetere; sarà solo attraverso la relazione e la presenza significante di Luisa, che pian piano potrà emergere la via d’uscita: il segreto verrà così liberato e l’ombra pian piano svanire.
Quando un bambino si ritrova ad avere a che fare con un segreto legato ad un evento non elaborabile che aleggia all’interno della sua famiglia o nella mente di uno dei suoi genitori o di entrambi, quando si trova ad avere a che fare con il fantasma migrato dalla cripta del genitore, inevitabilmente il suo funzionamento psichico ne sarà influenzato e si ritroverà a rispondere ad una invasione sconosciuta che non può respingere. Parlando dello spazio transizionale, Winnicott scrive “sembra che qualunque cosa che si trovi in questo spazio e che provenga da qualcun altro sia materiale persecutorio, ed il bambino non abbia modo di respingerlo” (1971, 175). In questa situazione egli potrebbe irrigidirsi e lasciarsi incorporare lui stesso dalla cripta o cercare disperatamente di dare significato, di simbolizzare qualcosa che proviene da un altro, ma che è presente in lui come un oggetto interno, un oggetto strano direi, con cui in qualche modo fare i conti. Ombra di segreti impensabili che portano in sé la traccia di traumi inelaborabili dell’altro che bloccano e cristallizzano il pensiero.
Mi sembra che anche ciò che La Scala (2012) ipotizza come barriera psichica patologica ci possa aiutare a comprendere che cosa può succedere all’Io quando, a causa di una invasione traumatica o che il soggetto sente tale perché proviene da qualcosa che non gli appartiene, si irrigidisce e si deforma per ridurre il passaggio di qualsiasi cosa attraverso di esso in modo da non lasciarsi attraversare più, oltre che dalla forza delle pulsioni, anche dalla traumaticità della realtà esterna. Un Io così deformato e irrigidito resta bloccato, come incatenato, e non può evolversi.
Antonio arriva in consultazione a 5 ½ anni, frequenta l’ultimo anno di scuola materna ed è pieno di fobie. È un bambino con gli occhi tristi, irrigidito dalla paura, “duro” nei movimenti. I genitori sono molto preoccupati perché, ormai da due anni, presenta delle forti paure che si sommano una all’altra continuamente e da un po’ stanno limitando la sua vita e la loro. Antonio ha paura dei mostri che di notte possono sbucare da sotto il letto e fargli del male agguantandolo e portandolo via, motivo per il quale dorme nel letto dei genitori dal quale pian piano il padre è stato estromesso. Ha paura di stare da solo senza la mamma e il suo stare alla scuola materna è molto difficile. Piange, non è interessato particolarmente agli altri bambini se non quando stringe dei rapporti molto molto stretti in cui l’altro bambino sembra diventare una parte di sé; ha paura di qualsiasi nuova attività gli venga proposta e non vorrebbe mai allontanarsi da casa. Insomma ha paura di tutto. La paura della magia lo blocca e lo fa scappare via terrorizzato durante una festa alla scuola materna. Quando chiedo ai genitori se hanno notato qualcosa di particolare o se è successo qualcosa di particolare in concomitanza con l’inizio di queste paure, mi raccontano che un po’ di tempo prima, la signora ormai al quinto mese di gravidanza, improvvisamente ha perso il bambino e per questo è stata in ospedale alcuni giorni. Antonio ha pianto tanto per l’assenza della mamma, era inconsolabile. Il racconto da parte dei genitori scorre liscio, una serie di notizie messe una in fila all’altra, una realtà raccontata e spogliata da qualsiasi sfumatura emotiva. Le parole escono tra leggeri raggelati sorrisi. Mi sento invece colpita da una forte ondata emotiva, sento dolore, orrore, pena per quello che è successo. Ad Antonio è stato detto qualcosa di molto vago, “tutto è andato avanti e ha ripreso il via … non se n’è più parlato … lui non ha chiesto e non chiede e noi sorvoliamo … poi sono arrivate le paure”. Cosa può essere però passato ad Antonio di questa “cosa” di cui non si poteva parlare, che aleggiava, ma che non poteva essere sentita e pensata? I genitori, nell’impatto con il trauma, si sono trovati nell’impossibilità di elaborare, di bonificare essi stessi, e ognuno a suo modo, questo lutto improvviso e non hanno potuto quindi svolgere una funzione di rêverie e di trasformazione significante di tutte le angosce di Antonio legate a questo evento. Mi sono chiesta allora se questo fantasma poteva essere passato al bambino e cosa lui stava cercando di farci; aveva forse preso vita nelle paure che lo assillavano? Scrivono Abraham e Torok “il bambino fobico non fa che enunciare nel sintomo una storia di paura, una paura di cui sono vittima i suoi genitori, sia direttamente sia a causa di una eredità che, volenti o nolenti, trasmettono alla propria prole refrattaria” (1987, 382) e più avanti “Chiamiamo fantasma una formazione dell’Inconscio dinamico che vi si è installata non per una rimozione personale del soggetto, ma a causa di una empatia diretta del contenuto inconscio o rinnegato di un oggetto genitoriale. (…) Il che significa inoltre che il fantasma che porta dentro di sé gli è estraneo e infine che le diverse manifestazioni del fantasma che chiamiamo assillo non sono direttamente collegate alla vita pulsionale e quindi non devono essere confuse con il ritorno del rimosso. Il fantasma, al contrario, si manifesta abitualmente come disturbo per introiezione nella vita pulsionale. (…) La peculiarità del fantasma della fobia è di venire ad assillare per incitare a denunciare una paura, appartenuta ai genitori, occulta e mai formulata” (ibidem, 383).
Le sedute con Antonio sono difficili e pesanti; è spento, spaventato, triste, si avvicina con timore alla scatola che dobbiamo esplorare insieme pian piano, gioca raramente, spesso dorme sul divano ritirandosi dalla stanza e da me; è come se qualsiasi strada fosse bloccata, come se non potessimo procedere in nessuna direzione. Spesso è arrabbiato con me e mi sente come una nemica, qualcuno che, seppur per aiutarlo, è lì perché qualcosa si muova. Solo dopo molto tempo mi parlerà dei mostri che spuntano da sotto il letto, che potrebbero catturarlo e farlo sparire; una volta mi dice “Caterina, ma si possono mandare via? Chi sono? Mi fanno tanta tanta paura … la mamma dice che mi puoi aiutare … mi puoi aiutare? Guarda che sono tanto brutti … se chiudo gli occhi li vedo … mi vengono nei pensieri … vengono da me …” “Perché vengono da te?” – gli chiedo – “vengono … vengono e basta … mi portano via … sono lì … ci sono sempre e mi vogliono portare via … (lungo silenzio, aspetto e lo guardo giocherellare con un pupazzetto che si rigira tra le mani) … sono cattivo delle volte … (silenzio) … ti devo raccontare un segreto … (silenzio) … io i bambini li odio …” “È un segreto molto importante questo … deve farti proprio tanta paura” Resta in silenzio per un po’, poi mi guarda molto serio “tanta paura … io li odio tanto … soprattutto i maschi … perché si portano via la maestra … e io poi non ce l’ho … (lungo silenzio) … io i bambini proprio li odio … tutti e … (gettando il pupazzetto) … li voglio buttare via … via tutti spariti … (ridacchia spaventato)”. Penso che fossero in attesa di un fratellino … gli dico “certo che devi sentirti proprio tanto arrabbiato quando la maestra non può essere tutta per te e questa rabbia forte forte ti fa desiderare che non ci sia più nessun bambino intorno a te … vorresti buttarli via proprio come hai fatto con il pupazzetto che avevi in mano, ma poi ti spaventi tanto perché pensi che la tua rabbia faccia veramente succedere qualcosa ai bambini … forse questa rabbia la senti anche quando non puoi avere la mamma tutta per te, quando c’è qualcun altro con lei … magari è per questo che senti che arrivano i mostri nei tuoi pensieri …” Antonio sembra riflettere a lungo mentre giochicchia con una pallina presa dalla scatola, poi mi dice “non sono un bambino cattivo se ho la rabbia? Se te la racconto?” Gli dico “la rabbia è solo un pensiero che senti e non fa succedere niente alle persone, ma è importante che capiamo perché c’è …”
Le sedute continuano ad essere difficili; Antonio sembra potersi muovere molto lentamente, ma i mostri pian piano si presentano con meno frequenza e lui sembra esserne un po’ meno spaventato. La paura della magia prende però prepotentemente il palco e, come all’improvviso e al posto dei mostri, si fa fortemente presente. Dopo molte sedute di apparente chiusura e di strade sbarrate, Antonio mi dice:
A – sono scappato via quella volta della festa, sai?
C – Mi ricordo che mi hai raccontato …
A – era la cosa della magia … quella cosa che mi fa tanta paura …
C – quale cosa della magia?
A – Sì quella cosa – scappa in fondo alla stanza e resta in silenzio per un po’; aspetto – quando c’è il mago, lui poi fa la magia e appare una cosa … così … prima non c’era, poi appare … e poi fa ancora la magia (lungo silenzio) … fa delle cose …
C – cosa?
A – … (silenzio) … fa sparire …
Dopo alcune sedute in cui a tratti, come se all’improvviso trovasse il modo, mi racconta più e più volte le sue angosce sul mago, sull’apparire improvviso e sullo scomparire improvviso provo a dirgli:
C – forse il mago ti fa tanta paura perché anche tu quando mi dici che odi tutti i bambini vorresti farli sparire tutti, proprio come fa il mago con la magia, ma poi questo pensiero di farli sparire tutti ti fa tanta paura e tempo fa arrivavano i mostri; ma il mago fa anche apparire le cose, così all’improvviso appaiono dicevi …
A – (molto serio) la magia fa sparire tutti … io quando sono arrabbiato ho paura che faccio sparire tutti i bambini … (si siede al tavolino e prende l’astuccio e un foglio, ma non comincia a disegnare, apre l’astuccio, ci guarda e fruga dentro come a cercare qualcosa) … io voglio stare sempre con la mamma, sempre … lo sai vero? Sempre con lei anche quando c’è il papà, sempre con loro …
C – forse vuoi stare sempre con la mamma perché se lasci la mamma sola con il papà poi magari può apparire un altro bambino … un po’ come il mago che all’improvviso fa apparire le cose e questo ti fa tanta paura, ma anche tanta rabbia …
A – (butta l’astuccio lontano) … io voglio sapere tutto … è tanto brutto quando appaiono le cose … e quando spariscono …
Il tempo passa, Antonio è ormai alla scuola elementare; occupandoci faticosamente di tutti questi pensieri e aspettando pazientemente che i momenti di oppositività e di rabbia verso di me trovino un loro senso nel lavoro di transfert, i mostri non ci sono quasi più e la paura della magia si è notevolmente alleggerita; continua però ad avere paura di molte cose e la sua vita è ancora molto limitata. All’inizio della seconda elementare, uno spettacolino in cui, molto brevemente appare un mago, riporta a galla i pensieri sull’angoscia dello scomparire e apparire all’improvviso. Questa volta però sembra esserci qualcosa di diverso. Antonio è come alla ricerca di qualcosa, sembra volermi dire qualcosa che non sa, si è come sbloccato qualcosa. Comincia a disegnare un computer con tastiera e mi racconta così dei videogiochi a cui gli piace giocare. Pian piano costruisce lui stesso una specie di videogioco che ci accompagnerà a lungo. Disegna allora un computer con tastiera e monitor da cui partono delle frecce che portano ad altrettanti quadratini che contengono delle cose che dobbiamo fare per superarli. Ce ne sono molti e ogni livello superato ci porta sempre più avanti fino ad arrivare ad una grande cassaforte. È lo scopo del gioco, la dobbiamo aprire, ma non abbiamo le chiavi, dobbiamo superare i livelli per poter ottenere degli indizi per trovare il luogo in cui è nascosta la chiave. Antonio è molto ambivalente nei confronti della cassaforte, da una parte desidererebbe impossessarsi del suo contenuto prezioso, goderne da solo e indisturbato; anche io divento un nemico con cui lotta per eliminarmi e avere tutte le cose preziose per sé; dall’altra la teme, ha dentro qualcosa di segreto, che non si può sapere, che è pericoloso da avvicinare, che potrebbe farci del male; in questo caso io sono sua alleata, insieme cerchiamo di avvicinarla e di trovare la chiave che ci permetterebbe di sapere cosa c’è dentro; A – dobbiamo scoprire la verità Caterina … lì c’è la verità che se non la sappiamo poi va tutto brutto …
Mentre giochiamo al gioco della cassaforte sembra essere più facile avvicinare i contenuti e le sue fantasie relative al desiderio di possedere unicamente e completamente la mamma, di desiderare che chiunque al suo fianco sparisca, di trovare un posto al suo interno da cui non muoversi più e la rabbia per il sentirsene fuori, per il fatto che la mamma non è soltanto sua, ma c’è anche il papà che come mi dirà un giorno “ma lo sai che c’era prima di me? … uffa però!”. In questo caso, la “lotta” contro il ritorno del rimosso, che tanta parte ha nelle fobie e che in questa situazione ha generato importanti sensazioni perturbanti, sembra, pur essendo molto faticosa, lentamente possibile. Quando il gioco invece prende l’altra strada tutto è più complicato: non riusciamo mai a completare e a superare i livelli, nonostante ci alleiamo, qualcosa di non definito ci ributta indietro e troviamo le strade completamente sbarrate; ci tocca sempre ricominciare da capo; gli indizi di dove è la chiave sono molto pochi … Antonio è scoraggiato, mi dice che forse non ce la possiamo fare ad aprirla e non sapremo mai la verità. Ho la sensazione che questi due diversi “livelli” si intreccino tra di loro, che qualcosa che non appartiene propriamente al bambino, ma che lui porta in sé, agisca e faccia ombra su Antonio e combatta contro ciò che in lui ora preme per essere liberato. Tentando pian piano di sciogliere l’intreccio, una volta, all’improvviso, con espressione molto seria mi dice:
A – una volta è successa una cosa … una volta la mamma aveva la pancia grande perché dentro c’era un fratellino … io ero piccolo … poi la mamma è sparita … è sparito anche il fratellino … non lo so dove è andato questo fratellino … dov’è andato il fratellino? Nessuno lo sa … La mamma è tornata … piangevano … io non so niente …
C – a volte succedono delle cose tanto tanto tristi che non si riesce a parlarne … tu cosa pensi che sia successo?
A – è la morte che fa sparire … il nonno di D è morto, vuol dire che va in cielo e non c’è più … il fratellino è in cielo Caterina?
C – è in cielo … per questo la mamma è stata via per un po’ … per questo erano tutti tristi e a casa non è mai arrivato … è stata una cosa tanto tanto triste … Antonio resta in silenzio per un po’, poi mi guarda intensamente
A – io li odiavo tutti i bambini, adesso però un po’ di meno … (spaventato) ma il fratellino è andato da solo in cielo, vero?
C – ci è andato da solo e senza la magia …
Antonio resta assorto, poi mi guarda, sorride e con fare divertito (forse per la prima volta) mi dice:
A – guarda, guarda Caterina! Proprio siamo distratti! Non ci eravamo neanche accorti che abbiamo superato due livelli! Eh, se continuiamo così la chiave la troviamo di certo!
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