Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Rossana Gentile
“Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta “
(U. Foscolo)
Numerose sono state le evocazioni emerse durante il recente seminario organizzato dal Centro Veneto di Psicoanalisi sul tema del Segreto. La parola segreto, dal latino secernere, come molti relatori hanno posto in luce da differenti prospettive, rimanda al separare, mettere in disparte qualcosa; ciò che è segreto genera cura, preoccupazione, tempesta emotiva. Il segreto può svolgere un’azione propulsiva del processo di soggettivazione e di crescita individuale, ma anche costituire una possibile manovra difensiva e protettiva nei confronti di angosce che rimandano a lutti non elaborati, esperienze traumatiche, emozioni non accessibili a livello psichico, vissuti estranei all’Io che possono trasmettersi a livello intergenerazionale inconscio.
Le relatrici della prima giornata, le dottoresse Mazzoncini e Olivotto, hanno evidenziato come il segreto tuteli quell’ area privata del Sé in cui è possibile costruire, far maturare la prima identità.
Nella prospettiva freudiana il segreto è legato all’interdetto e si muove tra le pieghe del desiderio inconscio e del lavoro di rimozione dell’Io (Freud, 1919). Winnicott estesamente ha parlato dell’importanza che ricopre il segreto nel promuovere lo sviluppo creativo della mente, snodo attraverso il quale si realizzano le varie fasi del processo di crescita dell’Io (Winnicott, 1951,1958,1971). Dal punto di vista winnicottiano, il segreto promuove nel bambino la nascita psicologica attraverso i percorsi di differenziazione e di separazione dalle figure genitoriali, fondamento dell’esperienza di soggettivazione che si dispiega in tutto il corso della vita. Il segreto segna il confine dell’individualità, ha a che fare con la capacità di discernere ciò che si può condividere, comunicare, da ciò che si decide di custodire in silenziosa intimità con sé stessi. Il segreto traccia una linea inviolabile tra il Me e il Non Me, definendo il nucleo più profondo dell’Io, un’area privata inalienabile, inaccessibile, dove ha sede la parte più autentica dell’Io, da Winnicott identificata come Vero Sé (Winnicott, 1962). Qualsiasi violazione di questo territorio privato rappresenta un danno irreversibile, una minaccia per l’autoconservazione, con conseguenze drammatiche per la salute mentale dell’individuo se l’infausta violazione avviene in epoca molto precoce (Winnicott, 1953). Qui la questione del segreto si intreccia con quella del trauma e dell’insorgere della psicopatologia.
Mazzoncini si sofferma su alcune considerazioni a proposito del trauma: l’esperienza traumatica distrugge il senso di continuità della vita, producendo un effetto devastante sull’Io che può ricorrere a varie forme di difesa. Varie possono essere le soluzioni difensive, come analizza Ferenczi, citato da Mazzoncini. Può esservi una soluzione alloplastica, che modifica le condizioni esterne per neutralizzare l’aggressore, e quella autoplastica, con possibile ricorso alla scissione e alla identificazione con l’aggressore, una soluzione che può esprimersi attraverso manifestazioni autodistruttive per effetto del disorientamento, rimedio estremo di fronte alla angoscia traumatica legata alla paura di impazzire (Ferenczi, 1929, 1931, 1933). Il segreto può essere uno dei rimedi adottati per evitare la catastrofe di fronte a un trauma. Da tale prospettiva, costituisce l’area dentro la quale l’Io si rifugia per sopravvivere.
Winnicott, riprendendo il punto di vista di Ferenczi, riconosce che, se un evento traumatico avviene in epoca troppo precoce e l’Io non è ancora formato, l’unica difesa possibile è il ritiro in un’area segreta che, se protegge dalla minaccia di soccombere, congela la psiche bloccandone lo sviluppo creativo. In una sorta di autocura, l’individuo cercherà di entrare in contatto con quest’area alla ricerca di quella parte autentica di cui inconsapevolmente “sa” ma che ignora a livello psichico conscio.
Dopo Winnicott, M.Khan si è occupato del segreto nella sua poliedrica e polifunzionale articolazione a livello interrelazionale e intrapsichico (Khan M.M.R 1974, 1983). In un’ottica di ampliamento della teoria freudiana del sogno, M. Kahn distingue il processo del sogno dallo spazio onirico, è quest’ultimo che garantisce la possibilità di fare un buon sogno. Nello spazio onirico, evocazione a livello intrapsichico dello spazio transizionale di cui parla Winnicott, in contatto profondo con sé stesso il soggetto si crea, diventa sé stesso in relazione al mondo. L’esperienza del sognare, legata alle vicissitudini proprie di questo spazio privato, segreto, nella sua espressione riuscita è enigmatica, non è comunicabile, è uno stato d’animo con cui il sognatore realizza regressivamente il suo contatto con l’origine, la dipendenza assoluta dall’oggetto materno.[1]
In ideale dialogo con il quesito posto da Mazzoncini circa la complessa questione se possiamo considerare il segreto una difesa patologica che impedisce lo sviluppo dell’Io o non, piuttosto, una protezione che agisce al servizio dell’Io, Caterina Olivotto riparte dal trauma e dalla sua connessione con il segreto. Spesso nel segreto si racchiude un legame con un lutto non elaborato che va mantenuto perché lo svelamento del segreto può essere più traumatico del trauma subito in origine. Nel segreto si consuma l’apparizione del fantasma inconscio, qualcosa di indicibile, inelaborabile, incistato nella psiche ospitante dopo essere trasmigrato da una generazione all’altra.
L’intreccio del romanzo che si intitola Un cuore cosi bianco, di Javier Marias citato da Olivotto, ben si presta a far comprendere cosa accade quando un fantasma viene incorporato nella cripta producendo alterazioni nelle dinamiche intra e interrelazionali inconsce. Juan custodisce un segreto che risale alla generazione precedente, si tratta di un omicidio che ha reso possibile il suo stesso venire al mondo e che influenza tutta la sua vita.
Come osserva M. La Scala (2012), l’invasione di elementi egoalieni costringe l’Io a funzionare con una barriera psichica patologica. Questa barriera riduce gli scambi con l’esterno impoverendo poco per volta i processi trasformativi e di crescita. La trasmissione è, dunque, di per sé un fattore traumatico da cui l’Io deve difendersi.
Il piccolo Antonio di cui ci parla Olivotto manifesta comportamenti aggressivi con i coetanei verso i quali nutre pensieri carichi di odio e distruttività. Lo spazio analitico consente di collegare il malessere del bambino alla perdita improvvisa del fratellino al quinto mese di gestazione della madre, evento che costituisce un lutto inelaborato di cui non si può parlare. Il dolore dei genitori si trasmette nel bambino come un peso insopportabile che provoca angoscia e rabbia. L’incontro con l’analista aiuta il bambino a rompere la cortina di silenzio che racchiude il segreto del lutto indicibile e a far emergere il dolore di cui Antonio sembra essersi fatto collusivamente carico per non perdere l’amore dei genitori.
Un segreto depositato nella psiche di un bambino quale elemento scisso, negato dalla coppia o anche da uno solo dei due genitori, può agire come cattivo nutrimento che intossica e disgrega il pensiero condannando il bambino alla solitudine. È quanto emerge durante la seconda giornata seminariale dalla bella relazione di Lucia Fattori, che discute due casi clinici presentati dai dottori C. Pozzi e A. Mosconi esponenti del gruppo GAIA da lei coordinato. Le due interessanti esperienze cliniche evidenziano come il portatore inconsapevole di un segreto di famiglia possa trasformarsi nella vittima designata di una violenza che lo opprime dall’interno determinandone le condotte autolesioniste e antisociali. L’analista in ascolto di questo tipo di pazienti può percepire un disastroso senso di irrealtà. Il segreto può pertanto assumere un potenziale valore esplosivo, per il fatto che inchioda chi lo custodisce al congelamento del suo percorso di soggettivazione. Lo svelamento, per tale motivo, aggiungerebbe ulteriore dolore insieme a un secondo trauma. Fattori sottolinea come vi sia una stretta relazione tra la costruzione della scena primaria che ruota intorno al fantasma delle origini e il silenzio che accompagna il segreto. L’altra faccia del segreto è la verità, che può essere svelata nel contesto analitico solo per gradi, nella quantità e nei modi che ciascuna coppia analitica esplora nella stanza di analisi.
Chiude il ciclo di conferenze la ricca e generosa relazione di V. Bonaminio, il cui contributo teorico ampio e accurato sulle problematiche connesse alla trasmissione intergenerazionale inconscia e i suoi effetti nel contesto della cura analitica introduce un bel caso clinico riguardante un giovane paziente con intensi vissuti persecutori organizzati intorno al fantasma dell’omosessualità. Grazie ad un attento e costante ascolto del proprio controtransfert l’analista riconosce nei comportamenti schizoparanoidi del giovane paziente una condizione di assoggettamento ineludibile ad angosce che lo passivizzano ricalcando la sua posizione di erede inconsapevole di qualcosa che non gli appartiene.
In analisi il segreto, come il fantasma che torna redivivo, al tempo stesso si nasconde e cerca di essere svelato, compreso, integrato nel tessuto psichico del paziente, oserei dire in cerca di adeguata “sepoltura”. Abraham e Torok, autori citati a più riprese dai vari relatori, interrogandosi sulla metapsicologia del segreto, individuano nella Realtà il luogo in cui, nell’apparato psichico, il segreto è sepolto (Abraham, Torok, 1987, p 247-248). La Realtà è ciò che deve restare nascosto, inconfessabile. La cripta, una sorta di Inconscio artificiale collocato dentro l’Io, ostacola la permeabilità delle pareti dell’Inconscio dinamico e impedisce che qualcosa possa filtrare all’esterno. L’Io, custode del cimitero, sorveglia questa tomba intrapsichica la cui porta è rimasta socchiusa: da lì il passato si ripresenta, come un blocco di realtà, qualcosa che non può morire, ma neanche pretendere di tornare in vita.
Fuori dal linguaggio figurato e dai simboli, il segreto dunque testimonia l’impossibile lavoro del lutto, indispensabile per la trasformazione degli oggetti interni della vita psichica. Per gli antichi greci, sappiamo, la sepoltura era di importanza fondamentale, un defunto che ne fosse stato privato era condannato a vagare fuori dall’Ade, all’infinito, né morto, né vivo.
L’analista che coglie questi movimenti inconsci, attento a non confonderli con un momento di impasse nella cura, precisa Bonaminio, può aiutare il paziente ad affrancarsi dagli affanni che non gli appartengono, lavorando affinché ciò che è stato ereditato passivamente venga attivamente assunto e soggettivato. Qualsiasi processo di trasmissione ereditaria, chiosa Bonaminio citando Freud, deve poter essere attivamente e nuovamente conquistato, per essere posseduto per davvero! (Freud, 1912-1913, p.161).
In tutti gli interventi ascoltati, in particolare nei diversi casi clinici di cui i relatori ci hanno parlato, l’area del segreto sbarra la strada alla temporalità soggettiva delineandosi al di fuori dell’ordine delle generazioni, passaggio costitutivo delle vicende edipiche (Freud, 1905, OSF,5).
Mi chiedo che tipo di legame possiamo rintracciare tra il segreto e le fantasie sessuali infantili che ruotano intorno al mistero della vita e della morte, della gravidanza e della nascita, della identità e differenza di genere. Mi chiedo, inoltre, per quale motivo un segreto emerga in un momento particolare del percorso analitico.
Il segreto, come il trauma, necessita di un secondo tempo per essere dispiegato e svelato. Nel disvelamento, come in un teatro pirandelliano, si pone un dilemma circa la verità, che a posteriori sembra mettere in discussione ciò che è pregresso e rendere ineludibile la ricerca della propria autenticità. Mi sembra che il dibattito scaturito dalla lettura delle relazioni di Mazzoncini e Olivotto ponesse in campo proprio questioni di questo tipo, prefigurando nel disvelamento una minaccia per la sopravvivenza del Sé. Il disvelamento, infatti, può rimandare all’angoscia del vuoto e alla rabbia distruttiva che si accompagna al senso di impotenza e di consapevolezza del proprio essere stati individui colonizzati, violati. In questo senso l’innesto del segreto dentro la cripta ha sempre in sé qualcosa di traumatico e il disvelamento può provocare un secondo trauma. Nei casi di cui parla Mazzoncini il segreto riguarda il fantasma di una madre che si confronta con il proprio progetto di gravidanza non realizzato; mi sembra che si ripresenti sulla scena “l’ombra dell’altra” intendendo con ciò la madre “vera”, la donatrice nel caso di Tara, la madre naturale nel caso di Cora.
Se il segreto rimanda dunque all’angoscia di inadeguatezza, il suo disvelamento getta luce a posteriori sulla bugia che accompagna il segreto rivelandone, come suggerisce Olivotto, la natura di oggetto conosciuto ma non pensato. Il trauma sembra rinnovarsi per l’effetto di cancellazione a posteriori dei ricordi e della realtà condivisa con quella madre che appare ora una “usurpatrice”. È evidente l’immenso dolore che un bambino può provare di fronte al disvelarsi di questa verità catastrofica che implica un doppio lutto, della vita che c’era prima del disvelamento e di quella che avrebbe potuto esserci e che non c’è stata. Ricordo una bimba di cinque anni che mi fu portata in terapia dalla madre successivamente alla separazione tra i genitori; la signora era molto preoccupata perché la piccola era diventata improvvisamente molto aggressiva e lei non riusciva più a capirla. L’angoscia di non essere una madre adeguata fu dalla signora associata al senso di abbandono e di solitudine che la separazione coniugale aveva determinato, contribuendo ad esasperare sentimenti di ostilità nei confronti del coniuge vissuto come persona narcisista incapace di investire sui rapporti nella lunga durata. La terapia ebbe un periodo molto favorevole in cui la bambina sembrava aver trovato un suo equilibrio, aveva gradualmente iniziato a riconoscere dentro di sé i sentimenti dolorosi che accompagnavano l’assenza del padre. Improvvisamente ci fu una inversione di rotta, madre e figlia apparvero stanche e desiderose di non proseguire nel percorso terapeutico. La signora in particolare lamentava una enorme difficoltà nel trovare il tempo per accompagnare la bimba in terapia. Avvertivo dentro di me ansie persecutorie legate alla preoccupazione di aver sbagliato qualcosa, cercavo eventuali conferme in tale direzione, mi sentivo in colpa al pensiero che forse la madre si era ingelosita vedendo i progressi della bambina, pur traendone beneficio e soddisfazione. Nel comunicarmi un giorno che intendeva sospendere le sedute mi disse, del tutto casualmente, che la bimba era nata da fecondazione eterologa; il seme era del padre e l’ovulo proveniva da donazione sconosciuta avvenuta all’estero. Pensai che forse il desiderio di interrompere la terapia poteva essere racchiuso intorno al segreto della nascita della bambina, probabile collante di una coppia che la bimba aveva contribuito a mantenere unita. L’equilibrio messo in crisi dalla separazione coniugale e dal temibile e minaccioso fantasma del ritorno “dell’altra”, aveva forse provocato il riattivarsi di angosce di inadeguatezza della madre.
Intorno al segreto sia per Tara che per Cora si intrecciano, come abbiamo visto, omissioni e bugie. Per continuare ad avere l’affetto degli adulti, come ci ricordano le nostre relatrici, i depositari del segreto devono fingere di non sapere la verità. Ma questo può determinare un senso di non esistenza, di non appartenenza, che mette seriamente a rischio il legame forse mai del tutto saldo con la madre “acquisita”. Questo determina, forse, profonde incertezze identitarie.
Esemplare a tale riguardo mi pare il sogno di Cora: la bambina è in riva al mare con la nonna materna che la chiama col nome della madre. Una bambina rischia di annegare e Cora, dopo una lunga esitazione, decide di portarla in salvo, la piccola riconoscente la chiama “mamma”. Si tratta di un sogno di transfert raccontato dalla bimba alla analista riconosciuta nel suo ruolo di contenimento e nella funzione materna che la bambina ha ritrovato-costruito insieme con lei. L’analisi ha contribuito a portare alla luce le ferite prodotte dall’indicibile verità di cui la bambina sembra essere prigioniera, rappresentando il dolore come il “mare” dell’universo materno in cui Cora può ora orientarsi e nuotare, grazie all’analisi, senza timore di annegare. Come rileva Mazzoncini, attraverso la narrazione del sogno Cora ha cercato di integrare parti scisse di sé che erano congelate per effetto di angosce traumatiche legate alla paura di implodere. L’esperienza di una relazione positiva con la madre analista ha consentito di poter modulare l’angoscia pervasiva che la vincolava a mantenere il silenzio sulla sua origine, dandole speranza e fiducia sul futuro.
Analogamente Antonio, il piccolo di cui ci parla Olivotto, custodisce con angoscia il segreto di un progetto di gravidanza che la madre non ha potuto portare a termine, fonte del dolore legato al lutto non elaborato per questa perdita. La cura analitica libera il bambino dal segreto riportandolo al piacere del gioco e della dimensione immaginativa.
Nella relazione di Bonaminio l’angoscia connessa alla paura e alla vergogna che si disvelino le fantasie legate a un desiderio omosessuale rimosso trasmigrato dal padre al figlio sembra implodere direttamente nel corpo dell’analista che percepisce alterazioni nel suo schema corporeo sin dalle prime sedute con il giovane paziente. È su questo vissuto intrusivo che l’analista lavora, risalendo all’ipotesi che vi sia un segreto custodito in una cripta nella psiche del paziente; l’attenzione e la particolare sensibilità analitica hanno consentito, in questo bellissimo caso, di fare spazio mentale alla vergogna, sentimento che spesso funge da anticamera del dolore che accompagna il segreto.
Il caso che ci ha presentato il dottor Bonaminio consente di porre l’accento sul vissuto di solitudine e di estraneità che comunica il segreto e sulla qualità dell’ascolto dell’analista che diventa a tale proposito determinante. Il corpo può diventare il terreno di scambio di una comunicazione inconscia tra analista e paziente.
Mi torna alla mente il caso di una giovane paziente che, in una fase dell’analisi, nel bel mezzo di alcune sedute, era solita ritirarsi in lunghi silenzi, per poi comunicarmi il suo senso di fastidio per il disordine in cui secondo lei io la accoglievo: in particolare mi rimproverava per gli oggetti fuori posto sulla scrivania, l’imprecisione negli appuntamenti, il senso di sovraffollamento che provava al pensiero di poter incontrare altre persone che fantasticava fossero miei colleghi, per le scale o sotto il portone, per strada, quando giungeva con alcuni minuti di anticipo. Questi suoi atteggiamenti contrastavano con la sua aria docile e l’assetto psichico abbastanza equilibrato. A livello controtransferale avvertivo confusione ed estraneità, insieme a una grande stanchezza, torpore, disorientamento. Nei sogni della paziente ricorrevano scene predatorie, con ladri che si introducevano nel mio studio mentre lei era con me. Interpretai alla paziente che forse era angosciata al pensiero di non poter avere spazio nella mente dell’analista perché era ingombrata da una moltitudine di fratelli e sorelle, rivali che avidamente si impossessavano del suo affetto prosciugandolo. La paziente evocò l’immagine di una gestante sovraccarica, con un utero inadeguato a portare avanti più gravidanze. L’immagine dell’analista inadeguata fu a lungo una costante nell’analisi di questa paziente. Un giorno, dopo esserci soffermate sulle sue difficoltà nel rapporto con la madre, la paziente mi comunicò che uno dei fratelli le aveva svelato un segreto, qualcosa che lei aveva sempre sospettato ma di cui nessuno le aveva mai parlato: si trattava della gravidanza che la madre aveva avuto prima della sua nascita, era una bambina morta poco dopo il parto a causa di una malformazione congenita. Di questo i genitori non volevano parlare. Fu molto doloroso per la paziente fare spazio ai suoi sentimenti di rabbia per essere “nata per caso”, ma anche dì colpa per aver preso in quanto figlia il posto dell’altra. Lavorammo a lungo su questi sentimenti che erano rimasti incistati dentro una cripta e che ora potevano emergere in relazione a questo segreto e al dolore mai condiviso, mai elaborato con tutti gli altri componenti della famiglia.
Un giorno la paziente raccontò un sogno: in una prima scena una collega più anziana si confrontava con lei su un progetto di lavoro, in una seconda scena lei era appoggiata al ripiano della lavabiancheria mentre prendeva appunti, era tranquilla e fiduciosa. Commentai con il detto “i panni sporchi si lavano in famiglia!”, ripensando al segreto di cui mi aveva reso partecipe.
Rammentò che negli ultimi giorni era stata oberata dalle faccende di casa, per una certa circostanza i suoi familiari avevano dovuto assentarsi e su di lei era ricaduto il peso della gestione della casa, si era affaticata distraendosi dal suo lavoro.
Disse di essersi sentita recentemente estranea ed esclusa nel corso di una recente discussione familiare, ricordò infine quando, da bambina, era solita ascoltare, non vista, i suoi familiari mentre parlavano riuniti intorno a un tavolo, situazione in cui sentiva di essere molto distante da tutti loro. Intuiva nei contenuti delle loro conversazioni qualcosa di drammatico, ma non capiva: a posteriori, adesso, collegava quesì discorsi al segreto rivelatole dal fratello.
Fu possibile associare il segreto e i sentimenti di esclusione della paziente allo sporco e ai rimproveri indirizzati alla madre analista per manifestare i sentimenti ostili legati all’essersi sentita probabilmente una figlia non accolta e non voluta. L’analista, riconosciuta nella sua funzione di appoggio e di sostegno alle parti vitali della paziente, costituiva nel sogno la base da cui partire per metabolizzare l’odio e l’invidia che avevano bloccato la sua capacità progettuale su cui cominciò a investire con fiducia.
A conclusione di queste mie brevi note vorrei dire che è impossibile sintetizzare in poche parole la ricchezza delle belle relazioni che abbiamo ascoltato e del dibattito che ne è scaturito da parte di un pubblico molto partecipe.
Ringrazio di cuore gli organizzatori che ci hanno dato l’opportunità di riflettere su un tema così appassionante e il Centro Veneto che ci ha ospitato con simpatia ed affetto.
Bibliografia:
Abraham N., Torok M. (1987). La scorza e il nocciolo. Roma, Borla,1991.
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Ferenczi. S. (1931). Analisi infantile con gli adulti. In: Opere, IV,1927-1933. Milano, Raffaello Cortina, 1982.
Ferenczi. S. (1933). Confusione delle lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione. In: Opere, IV,1927-1933. Milano, Raffaello Cortina, 1982.
Freud S. (1905). Tre Saggi sulla Teoria Sessuale, OSF,5. Torino, Boringhieri.
Freud S. (1912-1913). Totem e Tabù: alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, OSF 7. Torino, Boringhieri.
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Khan M.M.R. (1962). La psicologia del sogno e l’evoluzione della situazione analitica. In: Lo Spazio privato del Sé. Milano, Raffaello Cortina, 2002
Khan M.M.R. (1972). Uso e abuso del sogno nell’esperienza psichica. In: Lo Spazio privato del Sé. Milano, Raffaello Cortina, 2002.
Javier Marias (1992). Un cuore così bianco. Torino, Einaudi.
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Winnicott D.W. (1971). Gioco e Realtà. Roma, Armando Armando, 1974.
NOTE
[1] L. Russo, che ha dedicato ampio interesse alla questione aperta da M. Khan sul sogno, ricorda una felice espressione di Ferenczi: l’attività del sognare costituisce l’esperienza de “l’infante dormiente nell’inconscio dell’adulto”. Nello spazio onirico, metafora del corpo materno, il sognatore fa esperienza dell’inizio del Sé. Si tratta di un’esperienza privata, soggettiva, che non può essere in ultima analisi ricordata, rappresentata, narrata.
(Russo L., SPIWEB, 21.10.2019).
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