Cronache emotive da un luogo dove oppresso e oppressore condividono la stessa terra

Questo lavoro rappresenta una sintesi a partire dalla lettura del testo “Psicoanalisi in Terra Santa” di Cusin A. e Leo G. (2017).

di Ambra Cusin

(Trieste), Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

Scrive Gustav Schmink, professore di storia del diritto e storia sociale, nel 2017 “Le capacità dell’umanità di organizzare la propria autodistruzione sono ormai cresciute in maniera tremenda”(168).

Qualche pagina prima Schmink ci ricordava i troppo attuali versi di Sofocle nell’Antigone “Le cose tremende sono tante, ma non esiste niente che sia più tremendo dell’uomo”(167).

È molto difficile parlare di questi aspetti umani così appunto tremendi, è molto difficile farlo senza “schierarsi”, sentirsi di parte, è altrettanto difficile tenere dentro, con-tenere il dolore che questa umanità, queste persone vivono quotidianamente in una terra che da secoli viene proclamata Santa. La terra della città sacra alle tre religioni monoteiste, la città che porta un nome troppo carico di significato. Città della Pace. Jerushalaim… Ūrushalīm o el-Quds… Gerusalemme… La città che ha anche, in questo momento, i nomi di Kiev, Aleppo, Khartoum…

 

Giuseppe Leo, che assieme a me ha curato la pubblicazione, commenta tristemente come alcuni autori, che inizialmente sembravano entusiasti, si sono tirati indietro preoccupati che il loro testo potesse venire ‘contaminato’ dalle tesi di altri autori, più o meno ‘schierati’. Per questo motivo Leo ringrazia, chi ha dato comunque fiducia a questo progetto editoriale, per il coraggio dimostrato ad esprimere le proprie tesi, talora anche in modo duro e poco conciliante, ma schietto e comunque ineccepibile dal punto di vista delle argomentazioni scientifiche.

Il libro parte da un mio viaggio, fatto per diletto assieme a degli amici, in Terra Santa. Sono di origini ebraiche, ma ho anche amici palestinesi. Più che del luogo, con i suoi siti assolutamente importanti e ricchi di cultura, mi interesso alle persone che vivono in questa terra martoriata. Una terra che in qualche modo è anche la mia terra.

 

Parto dunque da un appunto scritto alla partenza:

“Cos’è che aspettiamo?

Cosa cerchiamo?

Cosa portiamo?

Cosa troveremo?

Non ho portato l’agenda,

Solo il vuoto

dell’anima,

speranze, attese o desideri privi di futuro.

Occhi per guardare

Ma ciechi…

E orecchie sorde

tese solo ad

un rumore dentro

Inesistente…

 

Parlare della Terra Santa significa affrontare il grande dolore di un popolo – che voglio e sento di considerare unico pur nel rispetto delle giuste e legittime differenze – che come dice Sabatini Scalmati  nella presentazione  del libro, appartiene  alle religioni del ceppo di Abramo – comunità ebraiche, cristiane, armene, druse, ortodosse, copte e islamiche, popolazioni che  “hanno coabitato   in modo complessivamente  pacifico nella terra dei padri” (16), edificandovi  templi, sinagoghe, chiese e moschee. “La scena muta radicalmente nel 1948” […] quando nella regione si apre “una frattura insensata e pregna di calamità” (16). In merito consiglierei di approfondire questa tematica con la lettura di Quaderno di Israele firmato dal mio concittadino Giorgio Voghera che racconta della sua esperienza in una colonia collettiva palestinese nei tragici anni in cui nasceva lo Stato di Israele. Come commenta Claudio Magris, nella introduzione al libro, in questo testo si narra della nascita di Israele, dei problemi delle comunità agricole, dell’incontro e della fusione di uomini delle nazionalità più diverse nelle realtà del nuovo stato che “Voghera ritrae peraltro con amore ma soprattutto con amore della verità e quindi senza risparmiare giudizi duri e severi” (1967, 10).

Dice Voghera infatti nell’ “Avvertenza” iniziale al testo – che è una sorta di romanzo autobiografico – “È mia persuasione che nel campo politico si faccia valere la legge dell’anti-selezione etica degli individui; sicché di solito hanno maggiore possibilità di salire in alto e di occupare posti di comando gli individui amorali e socialmente pericolosi. A ciò attribuisco anzi, in non piccola parte, le sciagure dell’umanità” (1967, 15). E sarà proprio l’incontro con questa sciagura dell’umanità a stimolare il mio desiderio di accorpare in un testo unico prospettive e sofferenze diverse per mantenere vivo il desiderio di una pace giusta che parta dall’ascolto attivo di tutti, dalle loro narrazioni, dalle loro ragioni, dalle loro emozioni.

La storia, mi dice la storica Gloria Nemec, esperta dell’esodo degli istriani nel dopoguerra, è la scienza che cerca la verità, che si approssima al massimo possibile alla verità dei fatti. Come psicoanalista, a differenza degli storici, sono interessata a quella verità fatta di deformazioni e distorsioni figlie del vissuto, dell’intreccio con le fantasie, le aspettative, le immagini interiori. Ed è di questo che mi sono interessata guardando appunto a questo popolo in cui oppresso e oppressore si confondono, dove “Israele è non solo un luogo ma un’ossessione. Fa delle richieste totalizzanti in chi ci vive. La politica israeliana è satura di una intensità pazzesca di vittime e di perpetratori” (Ullman, 2014, 98). In questa terra si manifesta una inconciliabilità tra le spinte sioniste pervase di memoria della Shoah e quelle dei palestinesi a restare vivi degnamente nel loro paese per cui diviene difficile, se non impossibile, portare avanti un discorso di pace e di speranza. La Terra Santa appare come un luogo dove le domande rimangono senza risposta e nell’aria spirano elementi che fanno temere l’urto di identificazioni proiettive incrociate capaci di accendere la miccia di violente contrapposizioni (Sabatini Scalmati, 20). Purtroppo emergono storie, fatti che rimangono reciprocamente non detti e non vi sono parole atte a dare loro voce (ibid., 21). Sempre Sabadini Scalmati si chiede “se si può essere liberi da pregiudizi e preconcetti quando si è davanti ad una terra che racchiude storie millenarie, archivi di sogni, miti e fedi; terra contesa, segnata da una stellare disuguaglianza economica e sociale, straziata da contraddizioni” (22).

Dopo tante lacrime di vittime innocenti, dice Schmink, “ci si chiede se nelle culture di tutt’e due i popoli – dei sopravvissuti alla Shoah e degli espulsi dalla loro terra – le lacrime siano un segno di debolezza e di mancanza di virilità. Come è possibile che la violenza quotidiana, che caratterizza questa Terra Santa, non possa far nascere desideri di pace, di perdono e di riconciliazione?” (167).

Così la recentemente scomparsa Maria Patrizia Salatiello, collega e amica, che a lungo ha lavorato con i bambini palestinesi a Gaza, si chiede come mai sia possibile che un popolo, che nella Shoah aveva sofferto tanto, ora divenisse a sua volta persecutore di un altro popolo che ha lo stesso diritto, tramandato dagli avi, di vivere in Terra Santa?

Le rispondono in modo particolare sia Ariel Venezian (che sento in una conferenza a Nazareth), italiano arrivato bambino in Israele, che Ayalà Lotem, israeliana di nascita, figlia di italiani, che intervisto e Mohammad Mansur, collega e amico arabo israeliano di Nazareth, allievo a Palermo di Salatiello, impegnato nel trattamento di bambini abusati.

Nei loro discorsi, nelle loro risposte alle mie domande sembra di sentire una sorta di sottofondo che risuona con quello che Francoise Sironi (2007) definisce “manipolazioni delle emozioni politiche”. Sono risposte sincere, ma non possono avere la consapevolezza di essere prigioniere della ideologia che tiene divisi e nemici questi due popoli. Come peraltro accade ad altri popoli in altre terre… a noi purtroppo terribilmente vicine.

Incontriamo Ariel, nel dicembre 2014 mentre il nostro gruppo è in visita a Nazareth. Conosco Ariel da quasi cinquant’anni. Lui come Ayalà, sua sorella, sono figli di amici di famiglia, di persone a cui ho voluto molto bene e che ormai sono entrambe decedute. Persone che per me sono state quasi genitori quando ero adolescente, quando mi hanno ospitata in Israele per mesi. Ho vissuto assieme a loro nella realtà di un moshav shitufi.

Ariel è il fratello più grande, ha più di 70 anni. È un fondamentalista israeliano. È interessante però sentirlo perché si coglie tutta l’ideologia all’opera. Eppure tra le pieghe dei suoi discorsi colpiscono delle parole che sembrano quasi profetiche e in certi passaggi purtroppo molto attuali.

 

Dice Ariel, e le sue parole sembrano rispondere alla domanda di Salatiello: “Già una volta siamo stati gabbati, abbiamo creduto, siamo stati miti, non ci siamo difesi e poi hanno cercato di distruggerci. Questa volta invece ci difendiamo!”

A lui fa eco Mohammad Mansur con i suoi racconti sui bambini abusati (36): i bambini “che sempre più spesso subiscono abusi, frutto del clima di violenza e minaccia continua in cui i palestinesi vivono. Bambini che si abusano tra loro, bambini che diventeranno ragazzi arrabbiati disponibili ad entrare nei gruppi armati, a farsi saltare per aria”. Bambini che Mansur cerca di curare per evitare il perpetrarsi di questa violenza.

Quanto scrivo nel libro diviene un insieme di scatti, una sorta di foto mentali ed emotive prese stando solo per un momento, un po’ fuori e un po’ dentro, in quel terreno di frontiera tra mondo esterno e mondo interno (Lupinacci, Cusin, 2023). Forse dentro a quel crogiolo delle streghe, di cui parla Guelfo Margherita (2021, 14), in cui tutto è caotico e mescolato. Sul confine tra ideologia e vissuto interiore drammatico e tragico.

Come quando ascolto Ariel che si arrabbia e ci dice che, come europei, verremmo subito dopo di loro – frase che purtroppo mi ricorda le parole di Zelensky in questi ultimi mesi di guerra in Ucraina…

“Noi siamo in trincea, ma dopo toccherà a voi…” (39) ci dice Ariel il 27 dicembre 2014. Al 7 gennaio 2015, pochi giorni dopo, ci sarà l’attacco a Charlie Hebdo a cui seguiranno molti altri attacchi terroristici in vari paesi europei!  Sentivo, mentre scrivevo queste parole di Ariel, e lo sento più forte oggi, che questo clima persecutorio è pericoloso.

 

Dice Ayalà: da ambo le parti ci sono manipolazioni delle emozioni politiche. “Quando nelle scuole palestinesi vengono insegnate cose antisraeliane, quando viene insegnato ai bambini l’odio… questo finisce per diventare parte della loro mentalità: una mentalità piena di odio. È vero che anche noi (israeliani) in qualche modo facciamo una sorta di propaganda ideologica, ma non insegniamo l’odio. Noi siamo più subdoli forse… noi, non insegnando la cultura araba, la lingua araba, non facilitiamo il dialogo, la convivenza… Ma non insegniamo l’odio” (144).

Mentre l’ascolto, ricordo i cartoon in lingua araba – mi sembra afghani – che insegnano e giustificano il terrorismo, che mostrano e istruiscono come si divenga kamikaze, ma contemporaneamente rammento, e ho negli occhi le immagini della “violenza” di interi, immensi insediamenti israeliani, con i loro giganteschi edifici, costruiti nei territori palestinesi. Altrettanto, e forse come dice Ayalà, più subdoli…

Quando, nel 2015 intervistai Ayalà, parlando del terrorismo dei palestinesi, disse: “oggi però il terrorismo si è trasformato… ci si lancia con le macchine contro i passanti… non occorrono armi…” (131). Quelle parole oggi, mentre le scrivo nell’aprile del 2023, mi risuonano come fin troppo tremende e troppo piene di un drammatico significato per noi italiani: solo pochi giorni fa infatti, Alessandro Parini, un giovane avvocato nostro connazionale, è stato investito da una macchina guidata da un terrorista sulla spiaggia di Tel Aviv.

Eppure, contemporaneamente, come non pensare che la potenza militare di Israele rappresenti una sorta di Golia, quasi in una nemesi storica, che viene ferito quotidianamente da un piccolo e debole Davide, ma che stavolta, in questa narrazione attuale, è un ragazzo palestinese, senza alcuna altra arma se non il terrorismo?

  

Ayalà che ha più di sessant’anni, racconta – sempre riflettendo su questo grande errore di non insegnare lingua e cultura araba nelle scuole – come nel passato i suoi concittadini dicessero: lo Stato di Israele è uno stato ebraico per cui “non c’è bisogno di imparare la lingua araba, la storia e la cultura di chi ci è nemico”. È stato un grave sbaglio commenta Ayalà. Oggi, aggiunge, le cose sono cambiate. Oggi sono obbligatori, mi pare, tre anni di arabo (134-135).

 

Il testo include anche due interessanti articoli: uno di Marwan Dwairy, arabo-israeliano, specialista in Psicologia clinica che svolge la sua attività professionale a Nazareth lavorando con pazienti sia arabo-musulmani, che ebrei, cristiani e drusi. Con molta delicatezza questo Autore riesce a descrivere la sofferenza psichica in un territorio in cui molte sono le barriere culturali e religiose e dove molti atteggiamenti mentali sono legati al pregiudizio con il rischio di minare il lavoro terapeutico. In modo particolare sottolinea come la psicoanalisi si “è basata in origine sulla comprensione individualistica, tutta occidentale, della personalità secondo cui, dopo l’adolescenza, la persona diviene un’entità indipendente” (97). Dwairy descrive e spiega la terapia basata sulla metafora, che permette di gestire il contenuto inconscio senza necessariamente portarlo alla coscienza, parla inoltre del concetto di analisi culturale con particolare enfasi sulla religione. Questi modelli di intervento terapeutico tengono conto del processo di soggettivazione che si crea all’interno di un certo tipo di cultura familiare e sociale, certamente molto diversa da quella del paese in cui queste persone sono inserite (arabi palestinesi inseriti nella cultura ebraico israeliana). È inevitabile quindi che le norme socio-culturali personali e del gruppo di appartenenza entrino in conflitto con l’ambivalenza e le spinte pulsionali della vita psichica, come sottolinea Sabadini Scalmati nella sua presentazione (22).

Riporto solo questo breve passaggio di Dwairy (105-106): “I terapeuti possono suggerire al paziente di chiedere consiglio alle sue figure religiose. Tali consigli saranno utili una volta che saranno portati nel contesto terapeutico ed impiegati nell’analisi culturale per agevolare l’integrazione di ciò che è utile per il paziente all’interno del suo sistema di credenze”: Questa affermazione mi appare interessante per riflettere tra noi in questo momento significativo in cui, nei nostri studi, iniziano ad arrivare persone la cui provenienza è molto lontana dalla nostra cultura e dalla psicoanalisi.

Altrettanto interessanti sono le osservazioni di Henry Abramovich, analista junghiano, psicologo clinico e antropologo, ebreo di Tel Aviv, che analogamente osserva la difficoltà a trattare persone provenienti da culture che sono estranee e sconosciute, che provengono da diversi background in cui si formano complessi culturali che “funzionano ad un livello gruppale ed organizzano il modo in cui le credenze tenute in profondità operano nella vita dei gruppi. Essi creano campi di risonanza tra i membri che oltrepassano la razionalità, creando un profondo senso di legame collettivo, ma che spesso patologizzano i devianti dall’interno e disumanizzano gli ‘outisider’ dall’ esterno (come affermano Singer e Kimbles, 2004, citati da Abramovich)”. Continua Abramovich “La situazione analitica si fa più intensa se la coppia analitica appartiene a gruppi con una drammatica storia di conflittualità politica, come tra tedeschi ed ebrei, ucraini e russi”. Siamo nel 2015 quando Abramovich scrive. Quanto suonano intense queste sue parole? Quanto attuali? Quanto è importante oggi prestare attenzione al fatto che “queste identità collettive possono infiltrare, dominare e persino minare il ‘temenos’ (quello spazio ben delimitato a carattere sacro), in modo tale che sia impossibile rendere un’ ‘isola’ la situazione del trattamento, ignorando gli elementi collettivi della colpa e dell’aggressività. Il collettivo può esplodere all’interno del contenitore analitico” (75).

 

Posso concludere con le parole di Schminck, autore con il quale avevo iniziato: “Leggendo le testimonianze che parlano del vissuto di persone ‘qualsiasi’ – palestinesi ed israeliani –, ci si sente sopraffatti dal desiderio di veder nascere una nuova riconciliazione tra fratelli” (167).

Siamo in un momento storico in cui questo desiderio si è fatto molto vicino a noi, sentiamo tutti la necessità di riuscire a vivere fianco a fianco, condividendo fatiche e soddisfazioni, ma sentiamo contemporaneamente il grande dolore del pensiero di come questo, oggi, appaia quasi impossibile.

Queste mie parole sono scritte con la speranza di andare oltre a questa impossibilità assieme alla consapevolezza di come tutti noi, anche in quanto psicoanalisti, si debba “giocare la propria parte”, apportando il nostro contributo di una speranza consapevole dei limiti e differenziata dalla illusione (Corsa, Monterosa, 2015).

Bibliografia:

Corsa R. e Monterosa L. (2015). Limite è speranza. Alpes, Roma.

Cusin A. e Leo G. (2017). Psicoanalisi in Terra Santa. Lecce, Frenis Zero.

Margherita G. (2021). Il Grande Gruppo. Milano, Franco Angeli.

Lupinacci M.A., Cusin A. La creatività della funzione analitica alla frontiera tra interno ed esterno. In Riv. di Psicoanal. In attesa di pubblicazione.

Singer Th. & Kimbles S. L. (2004). The Emerging Theory of Cultural Complexes. In Analytical Psychology: Contemporay Perspectives in Jungian Analysis, a cura di J. Cambray e L. Carter, Brunner-Routledge, Hov& Nev York, cap. 7, pp. 176-203.

Sironi F. (2007). Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica. Milano, Feltrinelli, 2010.

Ullmann Ch. (2014). On the subjetivity of an Israeli Psychoanalyst. In S. Kuchuck (a cura di), Clinical Implications of the Psychoanalyst’s Life Experience: When the Personal becomes Professional. London, Routledge, Capitolo 8, pp. 98-111.

 

Ambra Cusin, Trieste

Centro Veneto di Psicoanalisi

ambracusin@gmail.com

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