Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
A cura di Patrizia Montagner
Questa intervista è stata generosamente concessa da Stefano Collizzolli, regista, insieme a Matteo Calore e Andrea Segre, del film “Trieste è bella di notte” (2022), che sta accompagnando il film nei cinema per discuterne con il pubblico. L’atmosfera in sala, nell’occasione in cui l’ho incontrato, era di attenta partecipazione, molti spettatori erano davvero toccati dalle parole e dalle immagini, alcuni commossi. È stato un incontro interessante, in cui Collizzolli ha raccontato la sua esperienza umana e professionale di fronte alle storie di vita di coloro che ha intervistato, portandoci con lui dietro la macchina da presa e condividendo il suo sguardo. .
Questo film documentario affronta un tema sociale e politico delicato e impegnativo, quello delle cosidette “riammissioni informali”.Come siete arrivati a decidere di fare un film come questo?
ZaLab racconta da più di dieci anni viaggiatori ed accoglienti, da “Come un uomo sulla terra” (2011) a “Dove bisogna stare” (2018) per citare solo due dei titoli prodotti dal collettivo. Nell’esercitare questa attenzione, siamo in contatto continuo con realtà attive lungo le rotte ed attorno ai confini, che sono anche antenne molto sensibili a quello che accade. Fra questi ci sono il ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà) Trieste e la rete Rivolti ai Balcani. Gianfranco Schiavone, giurista con base a Trieste ed attivo in entrambe le realtà, ci ha cercato già a metà 2020, per segnalare quello che stava accadendo al confine orientale e per trasmetterci l’urgenza di raccontarlo. Non appena siamo riusciti a salire a Trieste a raccogliere e poi tradurre le prime testimonianze ci siamo resi conto che aveva del tutto ragione.
Come mai è stato scelto di mantenere la lingua degli intervistati e inserire dei sottotitoli?
Noi lavoriamo sempre in lingua, anche quando come in questo caso, si tratta di lingue come il Pashtu, l’Urdu ed il Farsi, che non conosciamo. Le storie che raccogliamo stanno in un cono d’ombra, e quando c’è la possibilità di farle uscire da lì è sbagliato strozzarle in una lingua terza. Esprimersi nella propria lingua madre permette una profondità ed una libertà di discorso altrimenti quasi mai raggiungibile.
Come mai non ci sono donne nel film e tutti gli intervistati sono giovani uomini?
Per la rotta balcanica, come per tutte le altre rotte delle migrazioni, viaggiano anche donne e famiglie. Questo film però non pretende di raccontare la rotta tutta intera, ma si focalizza sulla pratica che il Governo chiama di “riammissione informale” e che in realtà è un respingimento a catena fino a fuori dai confini dell’UE. A questa pratica di deportazione ci risulta siano stati sottoposti solo giovani uomini, ritenuti meno “vulnerabili” di altri esseri umani; di conseguenza, i testimoni della pratica sono solo maschi.
Come sono stati scelti gli intervistati? Avete dovuto dare loro delle rassicurazioni che non avrebbero subito rappresaglie per quanto dicevano? Avete avuto difficoltà a trovare migranti disponibili a raccontare?
Abbiamo proposto la possibilità del racconto, tramite ICS Trieste che li ospitava nelle strutture di accoglienza, a tutte le persone che avessero subito una riammissione informale, e sono naturalmente molte di più di quante poi sono nel film. La prima, fondamentale, garanzia sulla quale si costruiva il patto di fiducia è che era ovviamente possibile dire di no. Sembra scontato, ma deve essere molto chiaro nel momento in cui la richiesta viene da chi ti sta accogliendo, e seguendo nella pratica di richiesta di protezione internazionale. Ed in effetti, molti hanno detto di no, o hanno acconsentito ad incontrarci e raccontarci la loro storia senza telecamere. Si tratta di una resistenza del tutto comprensibile, sia perché si trattava di rivivere un racconto traumatico, che perché nel limbo fragile dell’attesa di una risposta della Commissione è inevitabile essere attraversati da dubbi e paure. C’è da tenere presente che al momento delle interviste i testimoni erano ospiti in Casa Malala, e che dall’altra parte della strada vedevano ogni giorno dalla finestra i container della polizia in cui erano stati respinti.
Dal punto di vista della costruzione di fiducia è stato decisivo, oltre alle nostre modalità di relazione, il fatto che ICS Trieste non intende l’accoglienza solo come prestazione di servizi, ma anche come tutela; era molto chiaro a tutti che nulla di quanto raccontato e poi montato nel film avrebbe potuto prestare il fianco, anche involontariamente, a qualche tipo di conseguenza o rappresaglia.
Avete verificato quanto veniva detto?
Tutto ciò che abbiamo montato nel film è attentamente verificato e provato, da testimonianze incrociate ed univoci segnali concreti, prove documentali: questa attenzione fa parte della tutela e della garanzia di cui abbiamo appena parlato. C’erano anche altri passaggi delle interviste, del tutto credibili ma che abbiamo tagliato perché non eravamo sicuri di poterli provare oltre ogni ragionevole dubbio in caso di contestazioni.
Se e come è cambiata la vostra idea dei migranti e delle migrazioni durante il film?
Pensiamo quello che pensavamo prima: che la spinta a muoversi è una caratteristica dell’umanità da sempre, e che è illogico ed inutile, oltre che ingiusto e disumano, provare a fermarla. Uno dei fondamenti della democrazia, del nostro stato di diritto e dello spazio dell’Unione Europea è il diritto al viaggio. Diritto al viaggio che però garantiamo a noi stessi, e neghiamo ad altri.
È la negazione del diritto al viaggio, la totale assenza per molti paesi di qualsiasi via legale per muoversi verso l’Europa, che sia per necessità di fuga o per aspirazione ad una vita diversa, a generare il viaggio illegale ed il traffico di esseri umani.
Avete colto dei momenti di speranza, oltre a quelli così numerosi di dolore, sfiducia, paura? Ce ne racconta qualcuno?
C’è un principio-speranza fortissimo in tutte queste vicende. Sono persone che attraversano mesi, spesso anni di viaggi e violazioni di diritti, e continuano a procedere. Sperano. Poi è una speranza che, per ragioni molto comprensibili, spesso hanno pudore a condividere.
C’è stato qualcuno degli intervistati, o un momento del loro racconto che vi ha particolarmente toccato e che volete raccontarci?
Ce ne sono molti. Mi viene in mente il racconto di due ragazzi, minorenni, che abbiamo intervistato assieme ed il cui racconto poi non ha trovato spazio nel film. All’arrivo a Trieste erano talmente felici che, in caserma, in attesa di quello che pensavano essere la richiesta di asilo, ed in realtà era il furgone che li avrebbe deportati in Slovenia, hanno fatto una colletta ed hanno mandato uno del gruppo al supermercato a comprare la coca-cola e le patatine, per festeggiare.
E infine, come avete colto questo grande successo e il largo riscontro che il film ha ricevuto? Lo sparavate? Lo immaginavate? A suo avviso, quale senso ha questa attenzione che il pubblico ha mostrato per il tema che proponete?
Abbiamo fatto il film per poterlo mostrare, e mettiamo sempre nella distribuzione un impegno molto attento e profondo. Anche se parallelamente a tutto il nostro lavoro stiamo sviluppando una piattaforma di cinema documentario online, zalabview.org , continuiamo a pensare che il cinema ha senso se ci fa incontrare. Dopodichè, la risposta è stata veramente molto ampia; nel momento in cui parliamo, il film ha già superato le duecento proiezioni, e continua ad allargare il suo viaggio. Probabilmente, per molte e molti, la situazione di passività civile e politica in cui ci troviamo comincia ad essere insopportabile
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