Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
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TRASCRIZIONE:
“Io vengo da un altro pianeta, che dista da voi non so quanto tempo,
non è remotissimo come galassia, ma alquanto remoto”
(Marco Antonio, uno dei sei protagonisti)
EM: Ringrazio a nome di tutti i Soci del Centro Veneto il regista Francesco Munzi per la disponibilità a parlarci di “Kripton”, il film documentario che sta portando in diverse sale cinematografiche, e non solo[1]. È distribuito da ZaLab, che cito perché è una casa di produzione e distribuzione padovana, molto attenta a problematiche sociali e culturali.
Ho avuto l’occasione di incontrarlo al cinema Lux di Padova il marzo scorso insieme non solo a un pubblico eterogeneo, ma anche a tanti colleghi e operatori della salute mentale, perché questo è un film che esplora questo “pianeta sconosciuto” della sofferenza mentale.
La prima domanda riguarda il titolo, che condensa tanti elementi: che cosa ti ha portato a usare proprio questa parola, “Kripton”?
FM: È una parola che io non avevo in mente prima, è stato un incontro, uno tra i tanti incontri che ho fatto in questo film. È pronunciata da uno dei protagonisti, uno dei ragazzi, che racconta di essere nato su Kripton, che è il pianeta da cui proviene Superman, quindi ha una coloritura completamente pop. Poi in questo momento del film, all’inizio delle riprese, mi aveva molto colpito, mi risuonava questa parola “Kripton”, ma per un lavoro del genere avevo un po’ di senso di vergogna. Mi dicevo che avrebbe potuto essere il titolo, ma allo stesso tempo mi sembrava che ci fosse qualche cosa di troppo leggero, superficiale. Poi ho cambiato idea, anche perché andando avanti con le riprese questo Kripton ritornava…È una parola che viene dal greco e indica qualcosa di nascosto, poi sono andato a cercare e ho trovato che è l’ultimo elemento della tavola periodica scoperto dalla scienza, era considerato introvabile. Quindi ad un certo punto più concetti e più significati si sommavano: l’idea del nascosto legato al disagio mentale, a qualcosa che comunque è difficile anche da ingabbiare, da isolare, da categorizzare. È come se ad un certo punto troppi significati si addensassero e mi è sembrato il titolo perfetto.
Ecco, è arrivato così.
EM: Dobbiamo introdurre il fatto che il film è risultato di cento giorni passati insieme agli ospiti di due Comunità Terapeutiche alla periferia di Roma. Riprendendo quello che hai detto, la tua operazione è anche quella di volgere lo sguardo verso un mondo che è nascosto ai più e su cui è anche difficile soffermare lo sguardo. Vorrei ricordare che il film esce l’anno del centenario della nascita di Basaglia che, come sappiamo, è il promotore della famosa “legge 180”, che porta alla chiusura dei manicomi attraverso un lungo percorso. Mi sembra che questa circostanza sia importante, perché è un momento in cui effettivamente sembra esserci una regressione rispetto a quelle che sono le situazioni di cura e di riabilitazione per questo tipo di sofferenza. Qual è la motivazione che ti ha spinto a esplorare questo mondo nascosto? In un’intervista qualcuno ti dice che inviti lo spettatore a fare un po’ l’astronauta insieme a te e a scoprire questo mondo sconosciuto. A me sembra che ci sia anche l’invito a scoprire “l’alieno” che è in noi. Quindi la spinta, la curiosità verso questo mondo, da dove arriva?
FM: Credo che siano veramente tante le ragioni, alcune, visto che siamo in tema, più consapevoli, altre meno probabilmente. Una sta nel fatto che avevo realizzato con altri due colleghi, Alice Rochwacher e Pietro Marcello, un lavoro durante il COVID. Lo abbiamo iniziato prima, ma poi ci siamo caduti dentro. È “Futura” (2021), un reportage sul rapporto tra i giovani e il futuro, completamente diverso da “Kripton” come piglio, perché andava più sulla velocità, sui numeri, sulla quantità, quindi c’era uno sguardo molto impressionistico. Però lì ho incontrato tra i ragazzi tante sacche di sofferenza, di paura, di disagio anche rispetto alla scuola, mi dispiaceva andare via così velocemente, come si richiedeva in quel lavoro. Mi è rimasto il desiderio di approfondire questo. Vedevo anche intorno, nelle scuole dei miei figli, tra i ragazzi, tanti problemi problemi che non mi ricordavo quando andavo a scuola io, questo è un dato più specifico. Poi c’è stato un caso di un ragazzo, un familiare non proprio vicino a noi, che ho visto cambiare davanti ai miei occhi, ho visto quei deragliamenti della mente che cerco di raccontare e l’ho vissuto quasi un po’ in prima persona. Anche a livello di letteratura sono sempre stato attratto dal racconto sulla mente, perché questo non è stato un lavoro specifico sulla Comunità Terapeutica, ma era per me anche un’avventura letteraria esistenziale sull’umano in generale. Mi sembrava una materia così ricca, anche se all’inizio ero anche confuso, non sapevo con che piglio affrontarla, però era qualcosa che mi affascinava completamente. Non ultimo il fatto che c’era un elemento per me di avventura e di disperazione, qualche cosa di sconosciuto.
Tu hai citato prima Basaglia: è vero che i manicomi sono stati chiusi da tanto tempo e il mondo è abbastanza cambiato, però è anche vero che l’esperienza del disagio mentale o della follia non è un’esperienza quotidiana. Io stesso non avevo mai visto certe forme di delirio così estreme come quelle che ho incontrato nel film.
Quando ho iniziato a girare i primi giorni mi turbavano molto, poi girando il film stesso sono diventate esperienze più quotidiane e questo mi ha permesso anche di entrare in contatto con queste persone, con cui avrei avuto difficoltà prima. Quindi credo che questo mondo sia ancora troppo lontano e separato dal cosiddetto “mondo normale”: per me è un obiettivo e sarebbe un obiettivo della collettività quello di abbattere questo muro.
Noi abbiamo fatto questo documentario, siamo andati alla periferia di Roma, ma non è stato un fatto casuale. Per esempio, io ci ravvedo una sorta di vergogna, perché noi abbiamo avuto tanti no, forse anche condivisibili, però abbiamo iniziato dal centro di Roma: “No la la privacy, no non vogliamo, non ce la sentiamo”. Questo lo dicevano sia i medici sia i pazienti, è stato difficile arrivare a due strutture che invece si sono mostrate molto collaborative, però è stato difficile trovarle. Questo già per me era un segnale di qualcosa che comunque si faceva un po’ fatica a condividere. Quindi anche questo aspetto più politico di entrare in contatto con il disagio mentale, di riportarlo sullo schermo e di renderlo un’esperienza anche tattile, concreta per lo spettatore…ecco questo per me era un obiettivo. Lo era in fondo anche per me, che cerco sempre di fare il film che vorrei vedere, questo è il mio principio. Quindi in qualche modo mi sono soddisfatto prima io come spettatore, sperando che questa cosa poi possa coincidere con tanti altri.
EM: In effetti sembra che quella rivoluzione riguardo la lotta allo stigma e la comprensione da parte della società abbia subito uno stop importante in questi anni. Inoltre sono d’accordo con te, lo vedo tutti i giorni nel mio lavoro, c’è un aumento esponenziale di sofferenza soprattutto nei ragazzi, come dimostrano i dati che tu inserisci alla fine del film.
Si diceva durante il COVID che sarebbe cambiato tutto, che i servizi della Sanità Pubblica sarebbero migliorati, invece sono peggiorati e le telefonate da parte di genitori disperati aumentano di giorno in giorno. Non riescono ad andare a scuola, anche questo è un tema sicuramente importante. Non c’è una spaccatura tra i ragazzi protagonisti di “Futura” e quelli che si trovano nelle Comunità Terapeutiche, ma una linea di continuità, come tu dici giustamente. Bisognerebbe fare qualche cosa per prevenire oltre che per curare.
Ma vorrei riprendere il tema della difficoltà, perché oltre a trovare le persone disponibili, che sicuramente è stato complicato, quello che si coglie nel film è la spontaneità e l’autenticità dei protagonisti nell’esporsi, nel raccontarsi. Si capisce che c’è stato un un grosso lavoro e volevo chiederti proprio come siete riusciti a ottenere questo effetto “di giusta distanza”, per citare il titolo di un film di Carlo Mazzacurati[2], a trasmettere questo senso di umanità e semplicità. Perché questo non è un film di denuncia, come hai sempre affermato, anzi, mostra una situazione che va bene in qualche modo, dove è stato possibile creare veramente un contatto. Mi interessa molto capire come ci sei riuscito, perché è difficile anche per chi lavora nella salute mentale da una vita qualche volta riuscire a creare empatia e sintonia in certe situazioni.
FM: Per me questo processo è stato difficoltoso, come sono difficili tutti i film. Questo è stato particolarmente coinvolgente, quindi in un certo modo ho sentito meno alcune difficoltà che in genere sento nei film, perché ero dentro un processo conoscitivo e anche con degli incontri talmente potenti che poi l’aspetto filmico più pratico andava un po’ in secondo piano.
Una delle caratteristiche di questo documentario è stata la quantità di tempo impiegata nelle riprese e nella preparazione, che si traduce nella ricerca assoluta, fondamentale di un incontro, di una relazione e di una fiducia, che non è detto che nasca anzitutto ma, se nasce, lo fa con il tempo. C’è stato il tempo della fiducia, noi abbiamo accolto loro e poi loro hanno accolto noi. Secondo me, lo dico sempre, non siamo stati noi a scegliere loro, ma loro a scegliere noi.
Chi si è fatto avanti con un atteggiamento di fiducia è diventato il protagonista di questo film.
Una delle domande ricorrenti dopo le proiezioni è come siamo riusciti a fare in modo che la macchina da presa sembri nascosta, o che non esista: “Come avete fatto a far sparire la macchina?”. Sembra che a volte non ci sia, come se fosse una mosca a guardare, non percepisci una distanza. Sembra un dato tecnico, in realtà è un dato umano, perché eravamo in tre — non ho mai fatto un film con così poche persone — qualche volta eravamo in due a volte e addirittura qualche volta c’era soltanto l’operatore di macchina, soprattutto nei colloqui.
Però lì c’eravamo non tanto come dispositivi tecnici o come persone di cinema ma, ad un certo punto, credo, ad un altro livello. Era stata tanta la conoscenza e la fiducia anche prima di farlo che la macchina da presa era l’ultima cosa che si notava, anche se è ingombrante. Era come avere un portachiavi, un portapenne…loro poi parlavano con noi, non parlavano più con la macchina da presa. Se noi avessimo fatto un servizio televisivo, fossimo stati là per un giorno o due o tre, sicuramente l’effetto sarebbe stato l’opposto, ci sarebbe stato questo “mostro” della macchina da presa con cui confrontarsi. Il processo è stato contrario: il “mostro” era lì nelle prime ore e nei primi giorni, poi nessuno più lo guardava, perché alla fine ci guardavano negli occhi. Quindi l’effetto non è tecnico, ma è testimonianza di un incontro tra noi, tra me e loro, ma anche con i medici e i familiari, c’è stato lo stesso meccanismo. Io non volevo fare un film sulle Istituzioni, non mi interessava, né fare un film di denuncia, non avevo nessuna idea preconcetta, nel senso non avevo nessuna teoria da dimostrare. Era proprio un percorso per me di conoscenza, anch’io conoscevo qualcosa di nuovo quindi mi facevo delle impressioni volta a volta, un giorno avevo un’impressione e il giorno dopo un’impressione contraria su alcune persone, quindi comunque è stato un lavoro sulla complessità. Però c’era una chiave precisa che sicuramente volevo, quella di stare il più possibile accanto ai ragazzi, ai protagonisti.
Quindi, se anche non potevo sposare la loro soggettività — perché non è mai possibile — però potevo cercare di riprodurre proprio quella, stare a fianco come dire, provare a proprio a fare uscire fuori quelle unicità, che nel mi lavoro sono sei persone, quel microcosmo che poi magari sarebbe diventato anche rappresentativo di tante altri. Però quelle sei sono così e ognuna è diversa dall’altra. Abbiamo eliminato il concetto di diagnosi, non mi interessava più assolutamente, mi interessava cercare invece i punti di contatto più che i punti di divisione tra me e loro, punti di contatto umano. Quella cosa lì mi allontanava sempre più dal desiderio di far sentire allo spettatore diagnosi o categorie prestabilite, quindi abbia cercato un po’ di aprire i confini. Poi sono stati loro ad un certo punto a darmi il permesso, anche con alcuni medici, di poter filmare le esperienze di cura; poi loro stessi mi hanno portato dai familiari, quindi erano degli approfondimenti continui, dove trovavo poi io delle tracce di narrazione, che a volte coincidevano con i percorsi di cura, come una drammaturgia. Era un film che si scriveva facendolo, non c’era una una riga scritta all’inizio, non ci poteva essere.
EM: Si vive questo addentrarsi…nonostante lavori in questo ambito da tanti anni, questo desiderio di esplorazione si è attivato anche in me, si attiva in qualsiasi spettatore. Qui c’è l’avvicinarsi a quel fattore umano che diventa veramente di grande coinvolgimento e nello stesso tempo quello che ho colto, e che ho veramente apprezzato molto, è proprio il rispetto sia verso i protagonisti sia verso il lavoro degli operatori, dei medici, verso le dinamiche che si instaurano in queste situazioni. Tutto viene mostrato senza ombra di giudizio e questo è veramente molto apprezzabile, perché si coglie quanto siano importanti tutti gli elementi della cura: il farmaco, la seduta individuale, le terapie con la famiglia, il lavoro di gruppo, il lavoro di riabilitazione con le proposte di lavoro. Queste sono équipe multidisciplinari che hanno bisogno di diversi fattori per funzionare. La questione del rispetto mi sta a cuore perché il prossimo Congresso di Lavarone “Le frontiere della Psicoanalisi” si intitola “Rispetto e risonanza”. Mi sembrano due parole chiave anche nel tuo lavoro, il filosofo Han dice che il rispetto è il pathos della distanza[3], quella necessaria distanza che permette la vicinanza e serve da cassa di risonanza nell’interazione tra le persone.
In questo percorso sono elementi importanti, in quanto partendo dai sei personaggi ti addentri ad approfondire sempre di più, fino ad allargare lo sguardo alla situazione attuale generale che c’è nel mondo riguardo alla salute mentale. E mi è venuto in mente ieri pensando a questa intervista che i protagonisti sono proprio “Sei personaggi in cerca d’autore”[4]: hanno avuto la possibilità di ripercorrere la loro storia, di rivederla e di ricostruirla con uno sguardo diverso. Su questo volevo chiederti che cosa hai visto tu, che cosa avete visto voi, rispetto ai cambiamenti che si colgono nel film, che possono essere anche piccoli, e come è andata a finire con questi ragazzi che hanno accettato di mettersi in contatto con con voi in questo modo, come hanno vissuto il film.
FM: Questo fatto dei cento giorni, l’ho capito dopo, è qualcosa di importante da dire, nel senso che quando sono entrato i primi giorni di ripresa mi sembrava di stare insieme a loro in una sorta di apnea, di bolla, di mondo fermo che non si muoveva. In realtà nei cento giorni — altrimenti il film non sarebbe venuto come è venuto — abbiamo intercettato tanto movimento, piccoli movimenti che hanno creato poi la narrazione del film. Come in una vicenda di finzione o letteraria i movimenti, gli accadimenti fanno andare avanti la storia. In qualche modo c’era una storia che si stava raccontando, che ovviamente portava anche a evocare il passato di questi personaggi, ma comunque c’erano scoperte, movimenti, che a volte appunto coincidevano con i percorsi di cura. In cento giorni abbiamo intercettato dei movimenti, se il film fosse durato un mese o duecento giorni sarebbe stato diverso, avremmo intercettato altri movimenti. Quindi è un mondo che si muove, non è un mondo fermo…intanto, questa è stata una bella scoperta.
C’è un ragazzo, Dimitri, che, anche in una maniera forse conflittuale, ha almeno cominciato a comunicare con i genitori adottivi; poi c’è Marco Antonio che negava di conoscere la sorella e dopo il film ha ripreso i contatti con lei; una ragazza che ci aveva chiesto di essere ripresa ma solo da lontano, invece poi alla fine si è aperta e ci ha dato la mano.
Quello che mi è sembrato di capire, rispetto all’esperienza dei ragazzi, che per tutti c’è stata la possibilità di raccontarsi e di avere una voce, quindi quando noi abbiamo finito il film la mia paura era proprio la loro reazione, specialmente quella di alcuni familiari.
Invece sono venuti a vedere il film non solo una, ma anche più volte, ed è stato un momento liberatorio, nonostante alcuni si fossero esposti nel film in momenti anche molto intimi e molto drammatici, di tensione. Quindi l’idea che si possa parlarne, si possa dialogare quasi di tutto…ecco, questa cosa per me è molto importante, quella di condividere con la collettività, ovviamente bisogna capire in che modo e con quale sguardo. Credo che sia stato in qualche modo terapeutico, non solo per noi che abbiamo fatto il film, ma anche per loro, soprattutto per loro, da questo punto di vista è stata un’esperienza bella.
Il film è un “documentario di osservazione”, che è un termine piuttosto scientifico che definisce un lavoro che cerca di narrare quel qualcosa che accade. Poi certo c’è il montaggio dove uno fa delle scelte e quindi un pochino indirizza ovviamente, alcune cose le mostri altre no, già quello è decidere delle cose, ma di base è un “documentario di osservazione”. Poi c’è invece un’altra linea nel film che per me è fondamentale, una linea completamente mia interpretativa, soggettiva, molto più piccola, che è data dall’utilizzo di materiale di repertorio, cioè di altri film, soprattutto amatoriali familiari in super8. Per me sono stati fondamentali per dare spazio a un sentimento, una nota musicale di cui ho avuto bisogno per restituire quella che è la mia soggettività, quello che io provavo girando il film e che volevo condividere con lo spettatore. È qualcosa di un po’ irrazionale e anche un po’ arbitrario, per cui io ero terrorizzato, perché mi esponevo in un mio racconto che non era più razionale, non era più logico, nella speranza che questo illogico potesse arrivare anche allo spettatore in termini anche di calore, di proprio viaggio libero dentro quelle storie. In realtà c’erano tanti racconti che questi ragazzi mi avevano fatto a camera spenta, che non erano usciti poi in quella maniera naturale che io quindi non potevo restituire, per esempio storie della loro infanzia oppure fantasie mie che mi ero fatto sulla loro infanzia, sul loro passato. Diciamo che questo elemento qui — visto che si stava parlando di psiche quindi di conscio, inconscio, allusioni — mi sembrava fondamentale per questo lavoro. Quindi ho cominciato una ricerca in questo senso, finché ho trovato due tipologie di immagini: una legata a dei film d’avanguardia, dove l’immagine è anche abbastanza non figurativa e che dà un po’ la sensazione del caos, della disorganizzazione, quando io percepivo quel caos lì mentre parlavo con loro, mi arrivava qualcosa, che ho cercato di trasmettere mettendo quegli inserti; altre volte ho usato invece questi super8 familiari, che in genere danno un senso di un po’ di malinconia, ma anche di serenità, di calore e nello stesso tempo anche un po’ di enigma per me. Dietro a quell’immagine così rassicurante del super8 che cosa ci può essere che invece non vediamo subito, ma che in fondo c’è? Poi c’è la musica, quindi una serie di elementi che potevano fare un po’ andare a un livello di sogno lo spettatore.
EM: Hai già risposto a una delle domande più importanti, nel senso che questo è l’aspetto che avvicina di più il tuo modo di lavorare a quello che potrebbe essere effettivamente un lavoro psicoanalitico, perché anche noi nella nostra stanza d’analisi funzioniamo un po’ così. Quando la persona ci racconta delle cose mettiamo in moto quella che noi chiamiamo la rêverie, la capacità di sognare insieme al paziente, producendo a nostra volta delle immagini, dei ricordi, delle associazioni. Questo è l’aspetto che forse mi ha più toccata emotivamente e commossa.
Quando parli sei molto attento e lo ripeti spesso nelle interviste che non sei del campo, sei molto rispettoso anche in questo devo dire. Qui entra in gioco non solo la fantasia, ma proprio il tuo inconscio, che si mette in sintonia con l’inconscio che emerge dai racconti che stai ascoltando. Credo che queste persone intorno l’abbiano sentito che ti sei posto in questo modo. Quindi il funzionamento di cui parli è quello primario, che non ha logica, è proprio del sogno, che viene fuori in qualche modo nel delirio, viene fuori in queste immagini che tu metti insieme, che sono le tue, ma che in qualche modo sono quelle che permettono poi allo spettatore di farsi coinvolgere così, perché le tue associazioni muovono le associazioni di chi guarda. Quindi queste parti sono quelle insature, che permettono proprio la formazione del pensiero, per questo si può parlare così tanto secondo me sul tuo film, questa mescolanza tra la concretezza della realtà del documentario e questo funzionamento primario del sogno. C’è anche una bellissima scena dove una paziente racconta un sogno e non c’è niente che stona, si mette tutto insieme così bene che veramente mi domando come hai fatto, perché non è semplice, è proprio venuto fuori un lavoro che è aperto, ma anche molto elaborato. L’ultima cosa che volevo sottolineare è che mi sembra anche un percorso che va da questo elemento dell’essere un po’ fermi, impantanati, dell’oscurità — c’è una delle ragazze che parla molto di di oscurità, ma non vorrei sembrare retorica — verso la luce.
Nel mostrare una possibilità vera di contatto e di possibilità di cura con queste persone dà proprio anche un senso di speranza. L’ultima scena mi ha fatto venire in mente il film di Wim Wenders[5], a guardare i riflessi di luce fra le le foglie degli alberi, il “komorebi”: è qualcosa che dà speranza, tu pensavi di trovarla, o è arrivata così?
FM: Sicuramente quella scena è stata un po’ un regalo, a volte succede nei film, nei documentari, quel momento un po’ di epifania, dove per fortuna si allineano tutta una serie di cose. Perché mentre giravo mi chiedevo: “Come chiudo questo film?”. Non lo sapevo assolutamente. In realtà non avevo nemmeno l’inizio, non avevo la metà, non avevo nulla…però nel fare un film, in questo muoversi un po’ al buio, c’è un processo di speranza nel fatto che arriverai da qualche parte. Poi qui ero particolarmente motivato e mi sono proprio affidato al processo, avevo una sicurezza interna che sarebbe venuto in qualche modo questo film. Non sempre ce l’hai nei documentari, possono essere a volte anche un incubo, possono durare anni perché non lo trovi, lo cerchi ma non lo trovi. Dandoci anche questo strano limite dei cento giorni è stato un documentato relativamente rapido per la complessità della della materia, però a un certo punto questo personaggio, questa ragazza che aveva detto “faccio il documentario però non dovete avvicinarvi, mi potete riprendere ma da lontano”, si lascia riprendere da vicino. In tutto il film, per chi lo vedrà, questa ragazza è una sorta di fantasma, resta ferma per tanti minuti, cammina seguendo le linee delle mattonelle; anche per me era un fantasma, era qualcuno che non conoscevo e mi sembrava anche una persona piuttosto distante da tutto quanto.
Negli ultimi giorni, visto che stavamo sempre lì, sono iniziati i primi contatti, le prime parole, a un certo punto ci ha dato la mano. Quando mi ero presentato le ho fatto il gesto di porgere la mano e lei non me l’ha restituito, c’era proprio una separazione totale. Invece, alla fine, gli ultimi tre o quattro giorni di ripresa quindi — proprio una cosa direi quasi miracolosa — ci si è avvicinata lei dicendo: “Mettete la macchina vicina adesso possiamo provare”; abbiamo fatto un mezzo pomeriggio con lei, dove ci sono stati quattro o cinque minuti dove è successo qualcosa proprio in diretta. È un piano sequenza, vuol dire che non c’è il montaggio, e in questi pochi minuti lei si rivela: innanzitutto comincia a parlare con il medico e in questa scena c’è come un’esaltazione dell’importanza della parola e del dialogo. Questo dialogo diventa finalmente un contatto, perché si parla anche di cose molto semplici — la primavere, fa caldo, c’è il sole — e quindi c’è una distensione proprio di umanità, dove appunto la malattia si dimentica…però proprio perché si dimentica a quel punto succede qualche cosa di liberatorio veramente, che io immagino possa andare verso l’idea della guarigione. Poi la scena continua, il medico se ne va e lei si spaventa al momento, dice: “Anche tu vai via”. Lui risponde che deve fare una riunione ma tornerà. Noi rimaniamo un po’ soli con lei e lei, a un certo punto, guarda altri ragazzi e un’altra protagonista del film, che ha un rapporto complicato con il padre, che sta lontano nel giardino e comincia a commentare il rapporto che c’è tra questa ragazza e suo padre. Quindi si capisce in quel momento che una ragazza che sembrava veramente distante, quasi una statua, era perfettamente consapevole di tutti gli altri, consapevole a un livello proprio di conoscenza profonda di quel rapporto lì.
È una scena che non si può tanto raccontare, però è un momento di grazia del film e che lascia proprio un senso di apertura e anche un po’ segna l’importanza della condivisione, del dialogo. Quando è successa abbiamo detto: “Questo potrebbe essere veramente il finale del film”. Infatti così è stato.
EM: Oltre ad essere un film importante sulla sofferenza mentale passa un messaggio secondo me fondamentale in questo momento proprio per tutti, aldilà di quello che può essere il disagio. L’importanza come sottolineavi tu del tempo dell’attesa, della tolleranza alla mancata prestazione. Per esempio, c’è una ragazza che ha un disturbo alimentare che si deve decidere se portare a casa il cibo oppure no, ma tutti aspettano che lei decida, che faccia con calma. Quindi l’importanza dell’ascolto, dell’attesa, della parola, del dialogo, del non avere fretta. Anche quando si propone un’attività, un lavoro e i ragazzi rifiutano, non c’è nessuno che spinge. Invece quello che arriva a me, che ci lavoro tutti i giorni, è proprio questa pressione che i ragazzi sentono, una pressione forte che credo emerga anche in “Futura”. C’è un messaggio che va oltre alla questione del capire, del cercare di entrare in contatto con il disagio della malattia, della follia, ma anche un qualcosa che riguarda proprio noi, la nostra società e la malattia della nostra società.
Se mi dici due parole su questo, perché credo sia fondamentale nel messaggio che il film porta.
FM: Questa per me è una domanda difficile, perché ho sempre paura di generalizzare, ma facendo questo film mi sono reso conto di come questi ragazzi siano forse una cartina di tornasole, lo specchio un po’ deformato di noi, del mondo adulto. È come se ci restituissero dei comportamenti forse sbagliati, “malati” anche nostri. Qui non voglio fare il “grande espertone” dei talk show, ma la cosa più terribile è che sembra non ci sia mai stata tanta libertà come oggi, anche dal punto di vista dei diritti civili, ma è una sensazione di libertà fasulla in fondo. Ce lo dicevamo in “Futura” con Pietro e Alice: c’è un’impossibilità di immaginare un mondo “altro” e quindi di rompere degli argini. E poi c’è questa idea performativa che è arrivata a un livello penso forse inconsapevole, che però è talmente stata interiorizzata che rende angoscianti molte azioni e anche un po’ vivere. Non mi spiego diversamente questa sensazione che nei ragazzi esplode proprio con dei numeri incredibili. Io ho un’esperienza intorno a me dei miei figli, dei loro compagni e amici, non è che faccio degli studi ISTAT. È una cosa incredibile quante persone, per esempio, non vogliono andare più a scuola, non credo che nascano con dei geni o un DNA diversi. C’è un’aria molto pericolosa e la cosa che mi colpisce di più è che non siamo nemmeno troppo consapevoli, però qualcosa si sta muovendo in questo senso. Diciamo che è una società che apparentemente è funzionale, però è profondamente malata. Bisogna cominciare a fare anche un po’ di autoanalisi credo nel mondo adulto.
EM: Certo, come ha detto anche Giovanni Foresti[6], ci sono alcune scene che valgono proprio un’enciclopedia della psicoanalisi, un manuale di psichiatria. Spero che sia un film che riesca a girare anche nelle scuole, nelle università, perché porta una serie di discorsi importanti attraverso le immagini, gli sguardi dei protagonisti e le loro storie. Non c’è nulla di più efficace di un film di questo tipo, dell’immediatezza del cinema, per trasmettere qualcosa che richiederebbe conferenze e letture approfondite, difficili da fare.
FM: Io volevo dire un’ultima cosa che riguarda più il mondo vostro della psichiatria e della psicoanalisi. Presentando il film ho fatto anche ottimi incontri a livello di dottori, psichiatri, il film è diventato anche un piccolo caso in questo mondo specifico. Addirittura a Roma ho fatto la proiezione con tutti gli specializzandi dell’Università, quindi è stato molto bello.
Però quello che ho intuito nei piccoli dibattiti, che spero ci saranno anche in futuro, sia nel mondo universitario, per come viene insegnata la materia, sia in alcune situazioni di cura — che ho incontrato ma non ho ripreso — l’idea del dialogo, della condivisione, della cura attraverso la parola, non sembra sia proprio l’idea maggioritaria. È molto forte l’idea — non so se dico bene — che la malattia mentale è una malattia del cervello, che è un organo come tanti altri e quindi va curata come tale. Tra l’altro ho sentito anche delle interviste di esperti su media importanti che asserivano queste cose. Non mi voglio addentrare in argomenti che non sono di mia competenza, ma penso che questa piccola o grande divisione, se tu mi confermi che c’è, sia uno specchio del nostro mondo. Noi abbiamo ripreso un modo di curare che abbiamo incontrato lì, ma ho visto altri modi diversi molto più veloci, anche perché non c’è il tempo fisico di fermarsi e nemmeno di conoscere il paziente. Ci sono a volte anche delle ideologie dietro i modi di curare, che non prevedono necessariamente questo incontro e queste parole. Questo forse è un argomento enorme, però mi piacerebbe da spettatore saperne di più di questo, forse in un altro documentario si potrebbe fare, ma questa forse è una domanda che faccio io a te.
EM: Questa dicotomia c’è sempre un po’ stata, tra la psichiatria biologico-farmacologica e quella più psicodinamica, piuttosto che con il movimento di Psichiatria Democratica.
Da psichiatra e psicoanalista ho lavorato a Venezia, dove c’era una grossa parte di psichiatri democratici al tempo, quindi si viveva day by day con i pazienti, si mangiava insieme, ci si coinvolgeva molto. Però in quella che è stata la mia carriera quando ha iniziato c’era un tentativo di integrazione di questi due aspetti, ma ora, hai ragione tu, le strade sembrano essersi divise ancora. La psichiatria biologica corrisponde in qualche modo a quell’aspetto di risparmio di tempo e di risorse, perché naturalmente un farmaco è molto più di facile somministrazione e risolve il sintomo, nessuno ne nega la necessità in alcune situazioni. Di questa esperienza che tu hai visto è importantissimo ne abbia fatto una testimonianza, perché rende proprio l’idea che si può veramente stare meglio, cioè da Kripton riuscire a tornare sulla terra e trovarsi un posto nel mondo.Ma le risorse, e qui finiamo un po’ nella politica, ma un po’ ci vuole, anch’io non vorrei espormi però qualche volta, come si dice in un altro documentario di ZaLab[7], devi dire da che parte stai. Questa sofferenza la curi solo con i farmaci? Come ricordi tu anche in un’altra intervista, i miei colleghi che lavorano ancora nelle Istituzioni non si ricordano i nomi dei pazienti, ma non perché non vogliono, non possono, sono troppi e possono vederli dieci minuti ogni sei mesi. Le risorse mancano: tu hai filmato, sei entrato in una situazione veramente rara ormai, cioè ci sono le Comunità, ma sono poche, perché richiedono risorse economiche e risorse umane che si tende a tagliare. È più semplice dire: “Sono in neurotrasmettitori che non funzionano ti diamo il farmaco starai meglio”. Sì, probabilmente starai meglio, ma starai anche sempre su Kripton. Ecco, questo è il punto: li lasciamo su Kripton, anzi li spingiamo ancora più in là, andiamo ogni tanto a portargli i rifornimenti, basta che stiano lì lontani e che non ci disturbino. Siamo tornati a questo purtroppo e il tuo lavoro è importantissimo, proprio perché ci riporta indietro quell’umanità che non si vuole più vedere se non col cannocchiale, da lontano.
FM: Per chiudere rispetto alla tua domanda iniziale, i ragazzi ci restituiscono un mondo di cui non ci rendiamo conto e che probabilmente non funziona, ma riguardo la psichiatria è vero che sicuramente spesso le risorse mancano e impediscono al medico di avvicinarsi al paziente, ma il dubbio che mi viene, da profano, è che l’idea di fondo invece sia che questa cosa vada anche bene, possa funzionare, anzi forse è pure inutile perderci tempo. Mi riporta a quei ragazzi là dove c’è un “io, io, io”, non c’è mai un “noi”, si è persa proprio l’idea della collettività, della condivisione e lì ritorniamo forse a un mondo, a una società che non funziona più tanto.
EM: Sì, perché c’è anche il problema della formazione. Ieri ci siamo sentite con la collega con cui abbiamo scritto la recensione e ci siamo confrontate. Mi raccontava che aveva cercato di portare gli specializzandi alla proiezione e l’hanno seguita in pochi. Sembra che anche questi giovani medici in formazione stano un po’ perdendo le speranze, manca una spinta verso questo, ti devi interessare tu. Quando sono entrata in specialità in Psichiatria il mio Direttore ci ha invitato a fare un lavoro su noi stessi, a conoscerci, ed è una cosa che adesso si è completamente persa. Avevamo dei Maestri che ci trasmettevano delle cose. Ora, e soprattutto dopo il COVID, dove si sono formati dei medici praticamente a casa loro, magari non sanno nemmeno cos’è una Comunità. Quindi hai ragione, purtroppo si viene spinti anche a formarsi in questo modo, quindi certe idee devono ricominciare a girare, perché c’è questo e c’è quello, ma l’aspetto biologico sta prendendo il sopravvento e questo è molto pericoloso. Tu lo mostri bene, questo è importante, quindi grazie, grazie veramente.
[1] Domenica 14 aprile 2024 è stato proiettato allo Spiraglio Film Festival al Maxxi di Roma, per esempio.
[2] “La giusta distanza”, di Carlo Mazzacurati, 2007.
[3] Byung-Chul Han (2013): “Nello sciame. Visioni del digitale”, 2015, Nottetempo.
[4] Luigi Pirandello (1921): “Sei personaggi in cerca d’autore”.
[5] “Perfect days” (2023), https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/perfect-days-di-w-wenders-recensione-di-e-marchiori/
[6] https://www.youtube.com/watch?v=54QqR0cd7NY
[7] “Dove bisogna stare” (2018), di Caglianone e Collizzolli, https://www.spiweb.it/cultura-e-societa/cinema/recensioni-cinema/bisogna-stare-d-gaglianone-s-collizzolli-recensione-elisabetta-marchiori/
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