Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
Dati sul film:
Titolo: “Logos Zanzotto”
Regia di Denis Brotto, Italia, 2021, 74’
Genere: documentario, biografico
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=aDWHAfDTris
Denis Brotto, classe 1979, è docente presso l’Università degli Studi di Padova di Cinema e cultura visuale ed è Presidente del corso di Laurea Magistrale in Strategie di comunicazione. Come film-maker ha realizzato diversi documentari e video installazioni.
Logos Zanzotto (Italia, 2021), uscito in occasione del centenario della nascita del poeta veneto Andrea Zanzotto (1921-2011), è stato presentato alla 78esima Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia come evento speciale delle Giornate degli Autori/Edipo Re.
Denis Brotto si è reso disponibile a rispondere ad alcune mie domande su questo film straordinario, che è stato proiettato in diverse occasioni in Italia, ma anche in Europa, ad esempio a Parigi, Londra e Bruxelles presso l’Istituto di Cultura, e in America, a Boston, all’Università di Yale e in Arizona.
Logos Zanzotto nasce in realtà molto prima della sua realizzazione. Nel 2012, l’anno seguente la morte di Andrea Zanzotto, emerse l’idea di iniziare a raccogliere le testimonianze dei suoi incontri all’Università di Padova. Con Giorgio Tinazzi (Professore di Storia e Critica del Cinema all’Università di Padova, n.d.c.) pensavamo che con quelle registrazioni avremmo forse potuto rendere omaggio al Poeta, estrapolando alcuni momenti di particolare intensità, in cui lasciare direttamente alla voce del poeta il racconto della sua opera poetica. Poi, assieme a Giovanni Zanzotto, suo figlio, la nostra idea ha incominciato ad espandersi e a divenire qualcosa di diverso. Iniziammo a pensare ad una raccolta integrale di tutte le testimonianze audiovisive lasciate dal Poeta, dunque non solo quelle universitarie, ma anche quelle provenienti dagli archivi di famiglia, dalle televisioni locali, dalle teche Rai o da altri documentari del passato (penso a quelli di Bertolucci, di Mazzacurati e Paolini e di Nelo Risi, tra gli altri). Subito dopo iniziammo ad esplorare i territori di Zanzotto: lunghe giornate passate nei pressi delle acque del Piave, tra i boschi del Montello, nelle grotte delle Prealpi, tra le barene lagunari, dentro le geometrie dei Palù, o tra le foschie delle Fontane Bianche, o ancora sulle vette del Cansiglio, senza dimenticare le abbazie, gli ossari, le chiese e le pievi dei colli trevigiani. È stato un lungo lavoro di osservazione, fatto accanto ad una rilettura delle opere di Zanzotto, ad uno studio del ‘suo’ logos erchomenos, a una indagine tra le nebbie e le piogge di questi spazi. Proprio il ‘meteo’ di Zanzotto è divenuto un elemento ineludibile di questo lavoro nascente: l’idea che la pioggia parifichi, porti tutti in una condizione di assoluta uguaglianza. È un aspetto che spesso dimentichiamo, ma che ha un significato profondo.
Prendersi il tempo per approfondire raccolte mirabili quali Fosfeni (1983), Meteo (1996), Conglomerati (2009), ha significato inoltre cogliere delle vicinanze, delle inattese adiacenze con il suo modo di osservare il reale. Un tentativo che si rivela ogni volta come interpretazione di ciò che vediamo di fronte a noi. “La poesia in generale opera in ambienti piuttosto oscuri, carsici, in grotte. Insomma, è molto cavernicola” racconta Zanzotto all’inizio del film. È qui, negli spazi delle grotte, delle caverne, che ho sentito il bisogno di portare l’avvio di questo percorso dentro la sua opera.
Al fondo di tutto c’è un’attenzione rivolta in primis alla forma, qualcosa che precede l’elemento semantico. Ho cercato dunque di avvicinare la forma poetica a quella della visione, tentando di trovare una corrispondenza. Serviva ricreare l’idea visiva che Zanzotto ha di luoghi come i Palù, le fontane bianche, i conglomerati, il Cansiglio. Una visione che non fosse solo la mera restituzione del reale, bensì una sua espansione, un suo sviluppo fatto anche di impressioni, di ombre, di velature. È così che ho proceduto. Provando a frapporre, tra la macchina da presa e gli ambienti, un elemento in grado di mutare il reale: lastre trasparenti su cui dipingere delle striature, delle venature indotte in modo diretto dai versi del poeta e in grado di ridefinire in maniera inattesa il paesaggio di fronte. Immagini dunque ricreate e poste di fianco a quelle provenienti dagli archivi: un doppio registro visivo entro cui sviluppare il racconto di Logos Zanzotto.
Del resto la mia formazione artistica riguarda soprattutto il rapporto tra immagini del reale (filmiche, fotografiche, ma anche artistiche) e forme di alterazione del visivo in grado di restituire una crescita di senso. Da questo punto di vista, aver studiato a lungo l’opera di Sokurov, assieme a quella di molti artisti legati a una idea di sperimentazione sul visivo, testimonia un profondo interesse per questo tipo di immagini.
Per Zanzotto ho inoltre cercato di accostare un’idea di paesaggio ‘arcadia’, quella che emerge ad esempio dalla pittura veneta del Quattrocento, con Cima da Conegliano, Giovanni Bellini, il Giorgione, a una visione della natura profondamente trasformata come quella della seconda metà del Novecento: basti pensare ai paesaggi segnati dalle rovine industriali che più volte appaiono in Logos Zanzotto. Credo emerga anche una percezione della natura veneta sottoposta ad una continua trasformazione, spesso volta ad avvilirne le sembianze, purtroppo.
Filò (1976) è, senza dubbio alcuno, la prima opera che ho letto di Zanzotto, più di vent’anni fa. Stavo decidendo qualche Università fare e sapevo solamente che quelle litanie erano state composte per un film, Il Casanova di Fellini. All’epoca la lettura avvenne dunque a partire da una suggestione cinematografica, ma ad affascinarmi fu soprattutto l’uso del dialetto in quei componimenti. Mi sorprendeva ritrovare quella lingua oggi velata di mistero, di sensualità e di una profonda nostalgia. E mi incuriosiva inoltre la scelta della parola ‘filò’ per raccogliere quei componimenti. Come se il narrare quelle suggestioni legate a Venezia, al Casanova, alla materia illusoria del cinema, dovesse necessariamente passare attraverso una riconsiderazione dei pochi momenti di libertà concessi alla vita contadina durante le sere invernali. Sono convergenze inattese, attrazioni di eventi in apparenza lontani, affinità improvvise. Credo sia stato questo a sorprendere le mie riflessioni di quando ero ventenne. L’occasione del film Logos Zanzotto mi ha permesso di tornare a pensare a queste composizioni con una maturità diversa. E anche il noto verso dedicato da Zanzotto al cinema, materia “che brucia e illumina”, mi sembra oggi avere una consistenza diversa, più profonda e imponente. Del resto il Cinema è muoversi in uno spazio fatto di segni, lingue, presenze, ombre, evocazioni, e ciò che io stesso cerco nell’esperienza del Cinema, da spettatore così come da studioso o regista, non è tanto il racconto, quanto la capacità di aprire faglie che in modo repentino riescano a far affiorare lacerti di memorie smarrite, o a far intravedere in anticipo possibili evoluzioni del nostro essere. Il racconto arriva dopo.
Immagini, poesie, parole, ma anche una colonna sonora che si amalgama mirabilmente. Come sei riuscito a trovarla?
La musica forse è la mia più profonda passione. Sono pochi i momenti in cui non c’è la musica a guidarmi lungo le ore del giorno. E ogni nuovo ascolto diviene anche una ricerca sulle possibilità espressive del suono in relazione alle immagini, reali così come mentali. Nell’estate del 2019, quando abbiamo iniziato a girare il film, sapevo che avrei voluto costruire una colonna sonora in grado di espandere il senso della poesia di Zanzotto, soprattutto quella sua attitudine ad avvicinare elementi di segno opposto. Volevo che i componimenti musicali destinati al film fossero in grado di rimarcare tanto le incertezze della vita adulta, quanto la sicura determinazione dell’infanzia, dei primi suoni emessi dalla bocca di un infante. Per dirla nei termini della poesia di Zanzotto, il petèl doveva accordarsi al “melograno di lingue” determinato dai suoi sonetti, e lo scarto tra realtà e immaginazione doveva trovare un legame con l’afasia della vita adulta, quella stessa afasia da cui Zanzotto riemergerà attraverso i suoi haiku scritti in lingua inglese. Sono concetti diversi, che a poco a poco hanno trovato un loro correlato sonoro in brani di particolare intensità dati dalla musica dei Low, di Yellow6, dei Dakota Suite, con quei tratti sonori in grado quasi di corrodere la materia, di graffiare gli impulsi emotivi dettati dalle immagini, ma anche dalle ninne nanne scandinave di Rebekka Karijord, che ancora una volta sembrano rimarcare un particolare andamento sensoriale nel rapporto tra età infantile e mondo adulto. Anche in questo caso le certezze e la chiarezza di intenti dell’infanzia sembrano via via smarrirsi, sino a perdersi nel tempo che intercorre sino all’approdo ad una età compiuta, matura.
Queste parole di Zanzotto esprimono un sentimento inatteso, eppure condiviso. Siamo portati a pensare che il passare del tempo porti ad una maggiore consapevolezza, ad un maggior insieme di certezze. In parte è così: col tempo acquisiamo in effetti un maggior controllo sulle nostre vite, sulla nostra capacità di scegliere. Eppure, di fondo, permane, e anzi si intensifica, una sorta di sgomento per una realtà in continua mutazione che sembra allontanare soprattutto i meno giovani da un ipotetico centro semantico. Con quelle parole Zanzotto sembra affermare, quasi rivendicare, un sentimento di inattualità. Che non significa irrilevanza, tutt’altro. Ma rimarca uno scarto rispetto ad un presente che sembra farsi astrazione, ologramma. Ecco perché in quel frangente vediamo Zanzotto quasi nascondersi dietro al tronco di un albero. Ha un’aria divertita, giocosa, e al tempo stesso tormentata, inquieta. Un riflesso antitetico eppure coerente.
Ma ci sono molte altre indicazioni preziose che riemergono dalle interviste di Zanzotto, piccoli squarci di luce in grado di afferrare condizioni comuni a tutti. Raccontando i sentimenti per il suo imminente novantesimo compleanno, Zanzotto ha detto: “Bisognerebbe rivivere novanta volte questi novant’anni per poter iniziare a comprendere qualcosa della vita”. La determinazione, le certezze che si possono avvertire, magari in modo avventato, durante la giovinezza, sembrano col tempo divenire una materia corrosiva.
Zanzotto è un esempio di resistenza. Lo è stato durante la sua vita, basti pensare al secondo conflitto mondiale e alla sua vicinanza con una figura cardine come quella di Toni Adami[1], e lo è stato nel suo costante tentativo di riaffermare il valore della cultura classica: penso, tra i tanti esempi, all’Abazia di Nervesa divenuta epicentro di un connubio tra epoche storiche e culturali nel suo Galateo in bosco (1978). Ma Zanzotto è senz’altro ancora oggi un esempio di resistenza. Tutte le sue indicazioni sul paesaggio, proveniente dagli anni ’60 e ‘70, sembrano aver letto in anticipo gli eventi futuri, gli accadimenti che oggi ci sembrano così improvvisi e violenti.
Gli stessi edifici abbandonati sono strutture smembrate che giacciono come segni di una inevitabile catastrofe. Rovine di un percorso repentino, scombinato, disorganico, in cui oggi osserviamo i resti degli impianti deputati al ‘fare economia’ nel corso del Novecento. Un paesaggio stravolto e sottoposto a rischi sempre crescenti, a ripercussioni ambientali sempre più violente, sulle quali l’essere umano sembra sempre più arrendevole, quasi accondiscendente. Non a caso Zanzotto ha fatto propria la definizione dell’uomo moderno di Jean Starobinski: un essere che nella società odierna “vive lo status di malato di Alzheimer”. L’essere umano ha smesso di ricordare, di imparare dai propri errori. La poesia di Zanzotto diviene allora un monito, una esortazione a ritrovare la memoria quanto prima.
Il valore vitale e insopprimibile della neve (dunque dell’acqua), la capacità della natura di riappropriarsi dei propri spazi nonostante l’uomo, il dialogo tra esseri viventi e natura. Tutti elementi necessari individuati da Zanzotto e oggi di assoluta urgenza. Lui li ha saputi cogliere in anticipo e questo non perché fosse un visionario, bensì perché ha saputo osservare con più attenzione la realtà circostante. Un aspetto che può apparire evidente, ma che rappresenta un incomprensibile vulnus del nostro presente: dalle classi politiche alle attitudini contemporanee, sembra che l’essere umano stia smarrendo la capacità di relazionarsi con la realtà e ciò significa soprattutto perdere di vista i possibili rischi a cui siamo destinati ad andare incontro.
Poesia e paesaggio sono del resto l’una lo specchio dell’altro, l’una come forma di comprensione dell’altro
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[1] ADAMI ANTONIO detto Toni, professore, intellettuale antifascista e partigiano della Brigata Mazzini, non violento, ucciso il 26 marzo 1945 dai nazi-fascisti a Valdobbiadene (Tv), al quale il poeta Andrea Zanzotto dedicherà nel 1954 la poesia Martire, primavera (n.d.c.)
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