Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Malde Vigneri
Oggi, 21 marzo, avvento di primavera, si celebra la Giornata mondiale della Poesia. Data scelta come un inno al volgersi dell’inverno ad una nuova luce, allo sbocciare dei fiori, al rinascere delle speranze; afflati dell’anima più che mai anelati nei tempi attuali in cui l’assurdo orrore della guerra insidia ancora una volta le nostre vite. Dovrebbe la poesia avere la forza che le è propria di traslare le nostre menti e l’esistenza stessa ad una dimensione salvifica, di trascendere l’insensatezza umana a un luogo altro, il luogo “dell’accordo fra uomo e universo”, come scriveva Fachinelli[1].
Un accordo percettivo non conciliare ma irruttivo e potente, come uno squarcio che all’improvviso ci illumini. II compianto “enfant terrible” della Psicoanalisi lo descriveva: “come un lampo che di notte rompa l’oscurità e componga un paesaggio: la massa confusa di un albero, il biancore di una casa, il profilo di un monte, non più elementi isolati (…) di quel paesaggio che ci è apparso per un attimo e che ora, pur essendo di nuovo scomparso nel buio, per noi continua a sussistere”[2]. So bene che lui parla del pensiero analitico, ma come sottolinea Balsamo[3], l’analisi esplora “con le parole”, come la poesia, “altre forme di vita emotiva e di pensabilità”.
E come per l’analisi, la poesia, ci avverte Pontalis in uno dei suoi libri che più ho amato[4], si espande persino al di là della primavera nel tempo altro, in quello che lui chiama la “quinta stagione”: “Stagione anacronistica” dice “che non ha un’esistenza in sé, non prende il proprio posto nella successione naturale del calendario né per altro lo esclude: una linea d’orizzonte oltre la quale si spinge la nostra vista, dove il cielo, la terra e il mare sembrano congiungersi”. “Là fiorisce la quinta stagione che dà le prugne al melo, lamponi alla quercia: in un tempo altro che domina in tutta la sua potenza la sfida alla natura delle cose:”.
La quinta stagione (concetto rubato alle poesie di Prevert, lo dice Pontalis stesso), ci conduce dunque ad una diversa dimensione, al tempo “intempestivo” di Nietzsche, al tempo travalicatore dei sogni, del pensiero fantastico, quello (e Pontalis qui cita Girandoux) che è “là dove ero”. Io la sento, la quinta stagione e in essa la poesia stessa, come fosse la Nota Blu di Chopin. La nota perfetta che il musicista cercava alla fine dei suoi concerti. Vive la poesia in quella sinestesia estetica che volge ad una estensione utopica delle polifonie e che può essere ascoltata sulla vetta delle note di un testo, musicale o poetico che sia. Che è poi anche il di più e l’altrove dell’analisi: Chopin anelava la nota blu al culmine dei suoi spartiti anche se poi essa poteva essere udita soltanto dall’altro, nella fattispecie dall’amata George Sand.
Così penso la coppia analitica, come una composizione poetica a due. Immagino quindi la data di oggi come un’intercapedine tra una stagione e l’altra, una “quinta stagione” che come un magico portale ci conduca a dimensioni persino al di là degli spazi. Prima che la riscoprissi nell’analisi come una delle sue molte anime, avevo con la poesia un rapporto immodesto e incompetente, da ape operaia: ne andavo raccogliendo il succo come il più dolce dei nettari. Una specie di musica personale, quella delle parole, che ha punteggiato con l’armonia delle grandi arti il comporsi di un incantevole leitmotiv nello scorrere del mio vivere. Ricordo.
Ricordo che ero ancora una bambina quando la Chanson de Roland mi ha incantato inneggiando alla mia rumorosa e affollata famiglia con il cantico degli affetti. Canticchiavo: Oh fratellino, fratellino mio…come fosse una nenia. E ricordo come più avanti la potente alterigia di Quasimodo, la suadente carezza di Neruda, la stretta al cuore che sempre mi davano le poesie di Prevert (“Ricordati, Barbara. Pioveva senza sosta quel giorno su Brest”), illuminavano l’alba della mia giovinezza con la promessa che qualcosa di straordinario sarebbe accaduto.
Ancora più avanti, tutti i grandi che dovevo imparare a memoria, gli Infiniti e le Silvie, hanno indefinitamente impresso una sorta di ritmo al fluire dei miei pensieri. Fino a che alle soglie dell’età adulta la scoperta di Jhon Donne, il più moderno tra i metafisici, non mi ha infine insegnato il senso profondo della temporalità. E con la Psicoanalisi, insieme a lui, mi sono volta all’Anatomia del Mondo (1611)[5], a reggerne il dolore e la sofferenza senza mai perdere di vista la “quinta stagione” anche quando “tutto è in pezzi”, ci avverte con incredibile attualità Donne “scomparsa ogni coesione, ogni equa distribuzione, ogni rapporto, e ciascun uomo per proprio conto sia divenuto Fenice…”. Compare la poesia in analisi quando (ora è Pontalis a parlare): “nel corso di una seduta si produce una rivelazione …, si apre una porta, sorgono parole mai udite, un’eccezione sconosciuta, che ci trasportano al di là delle frontiere…”.
Quella poesia, oggi che sono un’anziana psicoanalista, suona dentro di me con gli accenti di quel qualcosa di vero che ho sempre ricercato nella mia vita e nel mio lavoro, appunto oltre ogni frontiera. Qualcosa da salvare e qualcosa che faccia ancora luce come un faro.
Mi avevano chiesto di scegliere una poesia e di commentarne analiticamente i versi. Ho tradito il mandato ma non del tutto credo, perché come si fa a scegliere una poesia? La poesia è … tutte le poesie che ho letto, tutte quelle che ho imparato a memoria … così come resistono nella trama dei miei pensieri.
Comunque ne scelgo due, tra quelle che ora più conservo dentro di me: due brani dal sapore conclusivo e segretamente complice. Il primo, è per me uno degli inni più belli dedicati all’Amore, il secondo è un addio, dedicato alla Morte. Mi sono sempre apparsi legati l’un all’altro da questa necessità che qualcosa che abbiamo amato nella vita tuttavia resista celata da qualche parte.
Come ti amo? Lascia che ne conti i modi. /Ti amo con la profondità e l’altezza/che l’anima mia può attingere oltre i confini dell’Essere e della Grazia Ideale. /E così ti amo nelle più piccole cose di ogni giorno/ alla luce del sole ed al lume delle candele. /Ti amo liberamente, / ti amo con la passione dei miei antichi dolori e con la fede della mia fanciullezza. /Ti amo d’un amore che mi smarrisce. /Ti amo col respiro, i sorrisi, le lacrime di tutta la mia vita/ e, se Dio vorrà, ti amerò ancor meglio dopo, quando sarò morta.
Sono questi all’incirca, li cito a memoria, i versi con cui Elizabeth Barret Browning mi indica le strade con cui ho amato ed amo, e lascerò che sia il mio Montale, a quanto si dice uomo ostico e terribile ma fiero e alato come un mito, a chiudere con la poesia da lui scritta poco prima di morire.
Poiché la vita fugge …/dove potremo occultare, se tentiamo…/gli oggetti che ci parvero/ non peritura parte di noi stessi?
Parafrasando Pontalis chiedo dunque per ultimo ancora alla poesia, così come all’analisi, di serbare i nostri oggetti del desiderio dando loro “diritto d’asilo”, “nell’attesa di ciò che viene da una terra straniera, da un continente lontano”, convinta che tutto ciò abbia a che fare “con le regioni in cui non si è”, o non si è più.
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Note bibliogrfiche
[1] Fachinelli E. La mente estatica Adelphi, Milano, 1989, p. 17.
[2] Fachinelli Claustrofilia, Adelphi, Milano, 1983.
[3] Balsamo La trasmissione della psicoanalisi Relazione letta a Roma il 14 dicembre 2024
[4] Pontalis J.B. Questo tempo che non passa. Borla, Roma. 1999, p.30.
[5] Donne J., (1611) Liriche sacre e profane, Anatomia del Mondo, Duello della morte Arnoldo Mondadori, Milano, 1983
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