Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
report di Mariagrazia Capitanio
Cosa possiamo imparare dagli scrittori che furono adolescenti durante la Shoah e che sono sopravvissuti? Questo è stato l’argomento dibattuto in occasione del 7° incontro di Ricorrenze di Umanità (il quinto in relazione al Giorno della Memoria) svoltosi, come sempre in due incontri, il 25 gennaio e il 9 febbraio 2024.
Ogni scrittore ha affrontato e subìto la Shoah in maniera soggettiva anche in base alla propria antecedente storia intrapsichica, relazionale, gruppale e fattuale e, in seguito, ha analogamente reagito ad essa. Posto ciò, è possibile individuare gli effetti specifici della nefandezza delle deportazioni e dei lager sul processo adolescenziale? Se sì, come quegli adolescenti vi hanno fatto fronte? E dopo: con quali conseguenze? Esistono degli elementi trasversali alla unicità di quei vissuti su cui riflettere in termini più specifici per comprendere l’ impatto che la barbarie nazista ha avuto sui giovani a cui l’adolescenza è stata rubata? Ad esempio: quali le difese messe in atto durante le situazioni estreme di lunga durata? Quale elaborazione dell’Edipo nel cuore di una tragedia individuale e collettiva in cui, come nel loro caso, i genitori morirono/sparirono di colpo e/o furono assolutamente impossibilitati nel sostenere il necessario e formativo scontro tra generazioni? Quali le conseguenze? In che misura possiamo usufruire di quelle narrazioni al fine di comprendere meglio le giovanissime vittime delle attuali barbarie ed essere loro d’ aiuto oggi?
Per chiarirci il pensiero ci si è avvalsi della competenza dello psichiatra e psicoanalista indipendente Daniel Oppenheim il quale, a Parigi, lavora sia in ambito privato che istituzionale con bambini e adolescenti nell’ambito dell’oncologia pediatrica, della cecità, dell’autismo. I suoi libri[1] e articoli, oltre che sulla violenza biologica (cancro e cecità) e sulla distruttività degli adolescenti nel contesto politico attuale, vertono sulla barbarie collettiva e i suoi effetti sulle vittime, sui loro cari, sui loro discendenti.
Nei suoi testi (come nella relazione tenuta il 25 gennaio) rende partecipe il lettore del proprio ascolto della parola letteraria senza fare riferimento a specifiche scelte teoriche in modo che ognuno possa fare delle riflessioni riferendosi alle proprie.
Le opere prese in considerazione dal Dr. Oppenheim sono molto diverse tra loro per lo stile, per l’equilibrio tra descrizione e riflessione, per le questioni che pongono. Per rendere partecipi gli astanti della complessità delle narrazioni e dei vari registri a cui esse si indirizzano, prima di dare la parola al dr. Oppenheim l’attrice Sonia Grandis[2] ha letto alcune citazioni tratte da Liliana Segre (deportata a 13 anni a Auschwitz-Birkenau e sopravvissuta, a 15 anni, alla marcia della morte) e da S. Tomkiewicz (psichiatra franco-polacco esperto di adolescenti, sopravvissuto al Ghetto di Varsavia, fuggito ad una prima deportazione a 17 anni e mezzo, sopravvissuto al campo di Bergen-Belsen)[3].
Posto che correntemente in francese si usa la locuzione ‘barbarie nazista’ , partendo dalle parole degli scrittori il Dr. Oppenheim ha estrapolato una articolata definizione – che è la ‘loro’, non la sua – della esperienza della barbarie : in termini generali, provocando uno sconvolgimento e una perdita dei principali punti di riferimento strutturanti, essa è tutto ciò che fa toccare all’essere umano i limiti di ciò che è sopportabile (sia da un punto di vista fisico che psichico), immaginabile, pensabile.
A partire da ciò, il discorso si è focalizzato sull’impatto e sulla risonanza che le violenze e le crudeltà naziste perpetrate a livello individuale e collettivo hanno avuto sul processo adolescenziale con particolare riguardo al corpo, al tempo, allo spazio, alle appartenenze, alla possibilità di rielaborare il complesso edipico.
Il corpo dell’ adolescente è in piena trasformazione ma, con le alterazioni causate da privazioni e vessazioni, egli vi si riconosce ancor meno. La barbarie, fragilizzando al massimo grado la continuità della rappresentazione di sé (ivi compresa quella corporea) e del suo investimento narcisistico esaspera l’affetto della vergogna. Facendo vivere al giovane sia il sentimento di non aver alcun valore sia il terrore di morire, essa, mettendolo in uno stato di impotenza che pochissimo spazio lascia al desiderio, sconvolge la possibilità di vivere la propria sessualità e le relazioni.
Posto che i carnefici sono i padroni non solo della vita e della morte ma anche del più piccolo istante, la barbarie fa vivere solo il tempo presente, un tempo immobile fuori dal tempo comune. Essa, cercando di annullare ogni passato contemporaneamente rende inimmaginabile il futuro. Il tempo è télescopé[4]: a causa della rottura radicale della temporalità e della continuità dell’esistenza l’adolescente diventa rapidamente adulto o vecchio.
Per quanto riguarda lo spazio, il giovane (rinchiuso entro confini letali) vive la perdita dello spazio privato, fisico, psichico, relazionale. La barbarie lo colloca ‘fuori dagli spazi comuni, da nessuna parte’: ma, fuori, gli spazi liberi esistono ed egli lo sa. Mettendo il giovane in una promiscuità dove ogni intimità e pudore sono impossibili, essa lo rende indistinto, intercambiabile, ridotto all’identità unica del disumanizzato destinato a morire.
Relativamente all’appartenenza ad una famiglia, ad una genealogia, ad una comunità, all’ umanità la barbarie, rompendo ogni rapporto familiare e sociale, pone l’adolescente in uno stato di solitudine estrema e gli fa subire un’esperienza non condivisibile. Essa distrugge le differenze e la continuità generazionali e lo rende dubbioso rispetto ai valori e ai saperi che gli sono stati insegnati: essi non proteggono più. La constatazione della fragilità fisica, psicologica, morale, ideologica degli adulti determina una perdita brutale di fiducia, destabilizzando e destrutturando i figli, i quali attribuiscono ai genitori la responsabilità della catastrofe in cui si sono venuti a trovare. Tuttavia, non possono rivolgere contro di loro la propria rabbia violenta perché altrimenti si assocerebbero ai carnefici. Anche la possibilità di elaborare in maniera costruttiva la riedizione del complesso edipico è enormemente ostacolata: l’adolescente non può ‘pensare’ ai desideri di morte nei confronti dei genitori perché i carnefici hanno spogliato questi ultimi della loro onnipotenza ed egli non sa come rivoltarsi contro figure così depauperate, in pericolo o già morte.
La barbarie vieta e nello stesso tempo impedisce il pensare e l’immaginare obbligando le forze psichiche a dedicarsi interamente alla ricerca dei mezzi per sopravvivere. La possibilità di ‘giocare’ con le trasformazioni corporee è sconvolta a causa dello stato di miseria come pure lo è quella di ‘giocare’/fantasticare con l’idea della morte dal momento che la morte, quella fattuale, è onnipresente; il futuro (anche a causa della rottura della temporalità) è difficilmente immaginabile.
Il processo adolescenziale che si compie a partire dalla rielaborazione di alcuni ‘ingredienti’ strutturanti su cui di volta in volta o contemporaneamente si basa il senso di sicurezza e il benessere narcisistico (corpo, tempo, spazio, complesso edipico, appartenenze) viene profondamente sconvolto dalla barbarie con esiti i più diversi, da esplorare e comprendere caso per caso.
Dalle parole degli scrittori si evince che, per resistere e sopravvivere (sia durante la deportazione che dopo) quei giovani hanno fatto affidamento su strategie consce e inconsce. Coscientemente hanno fatto ricorso alle proprie qualità, alle proprie conoscenze e ai riferimenti culturali, alla fiducia in sé stessi, alla propria adattabilità, alla preservata capacità di sognare e immaginare, alla consapevolezza della propria responsabilità di testimoni nel futuro, alla solidarietà, all’etica, all’umorismo crudele, all’istruzione (la quale preservava l’illusione di una vita ‘normale’), all’arte. A quest’ultimo proposito, se nessun scrittore preso in considerazione dal Dr .Oppenheim pensa di essere guarito dalla deportazione, la scrittura lo ha aiutato a stabilire un rapporto con quegli avvenimenti e con il loro ricordo, a trovare la continuità della propria storia, a collegare i tre tempi della vita e i tre soggetti che lo costituiscono: quello che era prima della prova, quello che era durante, quello che è diventato dopo.
Quanto ai meccanismi di difesa inconsci, dalle opere letterarie si evince il ricorso alla scissione (che appare generalizzato), a difese maniacali, a processi di anestesia, di ‘chiusura’ dello psichico, di liquefazione, di frammentazione del corpo. O, come reazione a quest’ultima, di ‘mineralizzazione’ : il corpo viene descritto da alcuni come un blocco massiccio, pietrificato. Da altri, invece, come un sacco vuoto, abbandonato dallo psichico, come una macchina con il pilota automatico. Durante il lungo periodo in cui un adolescente oggetto di barbarie è stato (in base a quei meccanismi difensivi) soprattutto un ‘corpo biologico’, il sentimento di essere vivente e umano è stato rinchiuso in un luogo inaccessibile perfino a sé stessi. Successivamente, il lavoro psichico è stato quello di trovare la continuità della propria esistenza, di recuperare la propria identità per non correre il rischio di continuare a vivere come un involucro vuoto scisso dalla parte più autentica del proprio essere. In definitiva un morto vivente (o un vivente morto).
Gli adolescenti raccontati dagli scrittori manifestano l’intera gamma del comportamento umano tra cui – è bene ricordarlo – la resistenza. Essa, durante la Shoah, si è manifestata in modi diversi: dalla solidarietà alla resistenza armata, ad atti della più alta moralità, ad azioni apparentemente minime come, ad esempio, il lavarsi tutti i giorni nell’acqua gelida, azione che cercava di preservare la continuità tra la contingente immagine di sé e quella di prima della deportazione. Ed è utile tener presente che gli adolescenti sopravvissuti parlano anche di conseguenze positive della esperienza della barbarie: maggiore fiducia in sé stessi e nell’umano; accrescimento dell’ attenzione nei confronti degli altri; legami più forti e più ricchi con i parenti vivi o morti; desiderio di godersi la vita, di darle tutto il suo valore, di riprendere e mantenere il controllo della propria esistenza sforzandosi al contempo di comprendere il senso degli eventi che l’hanno segnata; impegno per prevenire il ritorno della barbarie; cambiamenti positivi nei propri progetti; rifiuto di essere considerati solo in quanto superstiti, vittime, portatori di sequele e di sintomi.
Quest’ultimo punto ha indotto il dr. Oppenheim nella sua pratica clinica con gli adolescenti che oggi sopravvivono alla barbarie – e che manifestano problemi in parte analoghi a coloro che furono vittime della Shoah (pur considerando quest’ultima un fatto assolutamente unico) – a porre molta attenzione alle eventuali idee preconcette dell’analista nei confronti dei sopravvissuti e, in particolare, proprio la tendenza a considerarli soprattutto come vittime. E’ importante non attribuire ogni disagio o disturbo ai postumi della barbarie (che, a livello manifesto sono innumerevoli andando, a titolo di esempio, al nascondimento della propria fragilità, alla depressione, alla violenza agita, alla paura di contatti intimi compresi quelli sessuali, a disturbi della genitorialità): le cause sono talvolta più antiche e le sequele possono essere state ri-attualizzate dalle situazioni estreme. Posto ciò, è parimenti necessario porre molta attenzione al trauma e al suo trattamento: affinché esso non costituisca un unico schiacciante blocco è necessario ‘spezzettarlo’. Lo si fa, diceva Oppenheim, mettendo l’accento sui minimi dettagli espressi in seduta al fine aiutare il sopravvissuto a fare una gerarchia relativamente agli effetti sia immediati che successivi al trauma; differenziando ciò che appartiene all’evento traumatico (che è quello che ha fatto toccare i limiti del sopportabile in modo assolutamente unico) da ciò che ha a che fare con esperienze seppure difficili ma più ‘comuni’; costruendo passerelle tra due mondi scissi, quello immaginario costruito difensivamente e quello reale, per evitare il pericolo di un confinamento in un territorio o nell’altro.
Last but not least, nel trattamento degli adolescenti vittime delle attuali barbarie è necessario sapere che prima o poi, come per i sopravvissuti alla Shoah, arriverà anche la domanda sui responsabili delle loro sciagure. Questo è un punto cruciale per noi analisti (in questo caso europei): non necessariamente siamo percepiti come persone gentili ma come complici di fatto di coloro che hanno colonizzato il Paese del sopravvissuto o che sono responsabili delle cause della sua migrazione o delle attuali difficili condizioni di vita. E’ necessaria e utile una seria e coraggiosa riflessione su questo ineludibile aspetto che a mio avviso gioca sia a livello conscio che inconscio una parte importante nel controtransfert e su cui Ricorrenze di umanità ha cercato di aprire un dibattito nelle passate edizioni[5].
note:
[1] (2006). con H. Oppenheim-Gluckman, Héritiers de l’exil et de la Shoah; (2012) Peut-on guérir de la barbarie? Apprendre des écrivains des camps; (2016) Des adolescences au cœur de la Shoah. A’ travers Appelfeld, Kertész, Wiesel…; (2021) Le désir de détruire. Comprendre la destructivité pour résister au terrorisme.
[2] Attrice in teatro, televisione, radio e nel settore musicale, è docente in ruolo di “Teoria e Tecnica dell’interpretazione scenica” presso il Conservatorio Verdi di Milano; relatrice di tesi di ricerca teatrale c/o il Conservatorio Santa Cecilia di Roma; ideatrice, tra l’altro, del Festival “MITOMANIA”; collaboratrice per l’organizzazione del festival SI Scrittrici Insieme.
[3] Nello specifico: L. Segre (1995). Un’infanzia perduta; in Voci della Shoah. La nuova Italia (v. pp. 21-22- 23); L. Segre (2018). Scolpitelo nel vostro cuore. Dal Binario 21 ad Auschwitz e ritorno: un viaggio nella Memoria. Edizioni Piemme (v. pp.48-49); S. Tomkiewicz (1999). L’adolescenza rubata. Red edizioni, ed. it. 2000 (v. pp. 21- 22, 58-59-60).
[4] Tempo ‘accartocciato’, come in un tamponamento.
[5] (21/9/ 2021 e 4/10/2021) Dialogo con Pietro Bartolo medico di Lampedusa; (27/1/2022 e 7/2/2022) Shoah e ‘Italiani brava gente’ ; (21/3/2022 e 7/4/2022) Colonialismo-Razzismo: Passato-Presente?
Bibliografia di riferimento
Appelfeld A. (2006). L’héritage nu. Paris, édition de l’Olivier.
Christophe F. (1995; 1996). Une petite fille privilégié. Un enfant dans le monde des camps 1942-1945. Paris, L’Harmattan.
Coquio C., Kalisky A. (2007). L’enfant et le génocide. Paris, Robert Laffont.
Kertész I. (1999). Kaddish per un bambino mai nato. Milano. Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2015.
Kertész I. (1975-1998). Il cercatore di tracce. In Il vessillo britannico. Milano, Bompiani, 2016.
Kertész I. (1998). L’Holocauste comme culture: Discours et essais. Arles. Edition Actes Sud, 2009.
Klüger R. (1992-1997). Refus de témoigner. Paris, Viviane Hamy.
Kulka O. D. (2013). Paysages de la metropole de la mort. Paris, Albin Michel.
Novac A. (1968; 1996). Les beaux jours de ma jeunesse. Paris, Balland.
Segre L. (1995). Una infanzia perduta. In A.A. Voci dalla Shoah, testimonianze per non dimenticare. Firenze, La nuova Italia.
Tomkiewicz S. (1999). L’adolescence volées. Paris, Calmann-Lévy.
Wiesel E. (1957). La nuit. Paris, Les édition de Minuit.
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